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Percorso di crescita
umano/spirituale
Nella riflessione precedente abbiamo cercato di
muoverci nel variegato e complesso modo di vivere i sentimenti, per
individuare le varie forme che esso assume all’interno della nostra
società e nel contesto in cui viviamo: quello della vita consacrata. Più
esattamente, si è tentato di definire quali sono i falsi concetti di
educazione sentimentale, i modi immaturi e inadeguati di gestire il
mondo emotivo.
Proveremo ora invece a intraprendere un altro
cammino, quello in positivo, cercando di individuare un possibile
percorso di crescita dell’emotività.
Il primo passo di tale itinerario è dato
dall’ascolto del mondo interiore, dalla capacità di riconoscere i moti
dell’anima, non solo quelli più intensi e violenti, ma anche gli altri
che, pur non imponendosi in modo energico, riescono a condizionare il
nostro modo di pensare ed agire. Questo ascolto comporta due componenti
importanti, le stesse che accompagnano ogni nostra esperienza di
percezione auditiva. Proviamo a pensare a ciò che succede in noi quando
siamo particolarmente interessati a sentire un rumore, segno di un
avvenimento significativo, come l’arrivo di una persona cara di cui si
riconoscono i passi, o pericoloso, come quando si sospetta la presenza
in casa di un estraneo o addirittura di un ladro.
Il primo elemento importante è quello della
vigilanza: per sentire bisogna stare all’erta, fare in modo che dal
sottofondo dei rumori percepiti si distingua la presenza di quello da
noi atteso o temuto. Se non vigiliamo, il ladro ci sorprende senza che
ce ne rendiamo conto o la persona cara può arrivare e trovarci
impreparati. Lo stesso vale per il mondo dei sentimenti; se non
prestiamo attenzione a ciò che avviene dentro di noi, se non sappiamo
domandarci spesso: «che cosa sto provando, che cosa vivo in questo
momento?», essi rischiano di coglierci all’improvviso e sorprenderci. La
paura può far scattare atteggiamenti difensivi, sovente persino
meschini, come l’accusa ad altri o le bugie autoprotettive la cui
funzione è solo quella di tutelare se stessi; la collera può capitarci
addosso senza che ce ne rendiamo conto e indurci a reagire
aggressivamente, in modo impulsivo, salvo poi far nascere in noi il
desiderio di morderci la lingua, per il dispiacere di averla usata male.
Capire per classificare
L’individuazione del rumore non è però sufficiente
alla comprensione di ciò che sta capitando: i passi di uno sconosciuto,
che si avvicina a casa per domandare un’informazione, facilmente
potrebbero essere scambiati con quelli di un ladro. All’attenzione
vigilante deve accompagnarsi la capacità di definire con precisione ciò
che sta avvenendo. Nello stesso modo l’ascolto dei moti interiori, vaghi
e non definiti, accompagnato dalla domanda: «che cosa sto provando?»,
deve trovare una risposta chiara e precisa. E’ importante che il
sentimento possa uscire dall’indeterminato in modo che ad esso si sappia
dare un nome. Questa è una caratteristica tipica dell’intelligenza
umana; il saper classificare è infatti un modo per ordinare, creare
armonia non solo nel mondo esterno, ma anche in quello interiore.
Il libro della Genesi ci aiuta a comprendere che
esso costituisce uno dei compiti che Dio ha affidato all’uomo e
attraverso il quale egli può esprimere la sua signoria sul cosmo; il
saper classificare e dare un nome alle cose, rappresenta infatti una
forma di possesso, un modo per esercitare un potere. Ciò è vero anche a
proposito del mondo interiore.
Quando io so definire il sentimento sperimentato in
un determinato momento ho già compiuto un’opera di appropriazione:
infatti, non sono più in balia del mio vissuto personale, non mi lascio
più condurre passivamente da ciò che sento, ma sono in grado di
afferrare, di definire e, di conseguenza, anche di controllare e
contenere almeno in parte l’emozione che vivo.
Una particolare attenzione va prestata a quelle
emozioni – diverse per ogni persona – cui spontaneamente attribuiamo una
valenza negativa e che non siamo, dunque, disposti ad ammettere presenti
dentro di noi, perché costituiscono una minaccia per la nostra stima
personale.
C’è chi, per esempio, fa difficoltà a riconoscere
di avere paura, in quanto il vivere dei timori, delle trepidazioni
riguardo al successo, dei dubbi in merito alle capacità di affrontare
determinati compiti è percepito come motivo di disistima, una sorta di
perdita di fiducia in se stessi, di mancanza di dignità ai propri occhi.
Altre persone, invece, non tollerano la presenza
dentro di sé di tutte quelle emozioni che hanno a che fare con
l’aggressività: la collera, l’invida, la gelosia, il risentimento, il
desiderio di vendetta paiono loro intollerabili, provocano senso di
colpa; di conseguenza esse imparano a non riconoscerle, a mascherarle e
contenerle, pur di non ammetterne la presenza.
Altri, al contrario, non accettano di provare
attrazione per un’altra persona: il desiderio affettivo e sessuale,
invece di essere vissuto come una dimensione normale dell’esperienza
umana, da rintracciare all’interno del proprio mondo e orientare in base
alla scelta di vita, viene percepito come una minaccia, un pericolo da
eliminare, perché anche la sua sola presenza è vissuta come fonte di
disequilibrio e tensione.
La paura delle emozioni impedisce dunque di
ascoltarle ed accoglierle. Essa nasce spesso da ciò che solo
all’apparenza costituisce un desiderio di bene. Nella aspirazione a non
trovare dentro di sé sentimenti ostili che possono ostacolare la
comunione fraterna, paure capaci di frenare la nostra dedizione
apostolica o desideri orientati alla ricerca di un amore umano,
contrario all’impegno di celibato, spesso si nasconde “altro”. Il
mancato ascolto del nostro mondo interiore non ha origine unicamente da
una tensione verso i valori significativi, nei confronti del cui
raggiungimento le emozioni possono costituire un ostacolo.
Al di là di tale atteggiamento, fortemente
difensivo, troviamo in genere il tentativo di mantenere un’immagine
perfetta, di salvare la faccia, di non accettare una dimensione di
povertà e di limite costituita, appunto, da quelle forze presenti dentro
di noi che, se lasciate a se stesse, orienterebbero la nostra vita in
direzioni opposte alle scelte da noi compiute. Dietro a questo mancato
riconoscimento di ciò che ci abita, possiamo così scorgere una
manifestazione di quella tentazione, antica quanto l’uomo, che consiste
nel negare il proprio limite e nell’illudersi di essere diversi, più
perfetti, capaci, maturi rispetto a quanto non lo siamo in realtà. Anche
in questo ambito riaffiora il pericolo di sempre: quello di volersi fare
come dèi, non riconoscendo le proprie debolezze e illudendosi di
superare ogni possibile condizionamento, ogni segno di imperfezione e
fragilità.
Formazione e maturità
cristiana
L’educazione dei sentimenti implica così un primo
passo importante: quello del superamento della paura, della mancanza di
stima, della “brutta figura” nel tentativo di raggiungere la
trasparenza, la semplicità, l’umile riconoscimento del limite. Tale
educazione, ancor prima che favorire un orientamento equilibrato delle
forze emotive, deve promuovere l’accettazione di sé: di ciò che si è,
del proprio mondo interiore spesso abitato da contraddizioni, da
dinamismi che facciamo difficoltà a riconoscere come nostri; essi,
tuttavia, ci abitano e, di conseguenza, dobbiamo imparare ad accoglierli
in semplicità, anche quando non ci piacciono e danno di noi un’immagine
diversa rispetto a quella che vorremmo avere e, soprattutto, mostrare
agli altri.
L’educazione dei sentimenti appare quindi come una
scuola di trasparenza. Come il primo uomo e la prima donna, anche noi
siamo tentati di coprirci, di difenderci, di mascherare la nostra
nudità. Facciamo difficoltà ad essere onesti con noi stessi, a guardare
con coraggio quel mondo di passioni e sentimenti che non ci fanno onore,
ma che non possiamo evitare di riconoscere presenti in noi. Non vogliamo
accettare di scoprirci vendicativi, quando sappiamo che l’Evangelo ci
invita a porgere l’altra guancia; non tolleriamo i sentimenti di
possessività che si insinuano in quelli che vorremmo fossero affetti
puri, casti, quali si addicono a persone desiderose di vivere il
celibato per il Regno. Quotidianamente dobbiamo lottare per accettare di
scoprire queste dimensioni emotive che non ci piacciono, perché
offuscano la nostra immagine e la stima che nutriamo verso noi stessi.
Accanto a questa battaglia, compiuta ogni giorno,
per riconoscere umilmente il nostro vero volto, ne è presente un’altra,
più nascosta perché riguarda dimensioni meno consapevoli della nostra
persona. Si tratta della lotta tendente a smascherare i meccanismi di
difesa, quelle funzioni di cui è dotata la nostra mente e che operano
inconsapevolmente per proteggere la stima e offrirci un’immagine di noi
stessi accettabile ai nostri occhi, ma falsa.
Questi meccanismi spesso fanno in modo di
nascondere o giustificare le emozioni da noi vissute, per renderle
tollerabili al nostro sguardo, ogni volta in cui si può sospettare che
siano sgradevoli e offuschino la immagine che abbiamo di noi stessi.
Quando non riusciamo a contenere la rabbia, esse ci giustificano,
attribuendo la colpa agli altri; se nutriamo il timore di perdere la
stima, trovano mille motivi per darci ragioni; se siamo gelosi o
invidiosi, attestano l’oggettività del sentire. Sembrano avere la
funzione di confermare il nostro punto di vista, mantenendo così
un’immagine idealizzata e irrealistica della nostra persona.
Educare i sentimenti implica quindi la capacità e
la disponibilità a riconoscere e accettare che le emozioni presenti in
noi costituiscono un mondo ambivalente, un guazzabuglio, come è appunto
il cuore umano, fatto di affetti generosi e di piccinerie, di desideri
di bene e di meschinità, di aspirazioni elevate, gioie pure e
preoccupazioni grette ed egocentriche. In noi, infatti, i sentimenti più
limpidi possono convivere accanto a quelli più squallidi, così come la
tensione verso il bene accompagna spesso il ripiegamento su di sé,poiché
il mondo delle emozioni riflette tutte le ambiguità della nostra natura
umana, la quale aspira a fare il bene, ma si trova spesso orientata
verso ciò che bene non è.
Saper riconoscere l’ambivalenza del proprio mondo
emotivo costituisce dunque il primo passo per un’educazione dei
sentimenti che è, contemporaneamente, una scuola di trasparenza e di
umiltà. Ancor prima di orientare la forza, presente nell’emozione, verso
un fine buono o contenerla se essa tenta di dirigerci verso qualcosa che
non costituisce un bene, è importante ammettere la loro presenza dentro
di noi, anche quando questa non soddisfa il nostro orgoglio, ci umilia e
ci costringe a riconoscere la nostra povertà, fragilità, piccolezza.
Nessuno ama riconoscersi invidioso, geloso,
vendicativo, pauroso, triste, vittimista, irascibile; tali sentimenti
sembrano non farci onore e costituire un pesante e ingombrante fardello.
Per chi ha scelto, poi, di fare della propria vita un dono d’amore a Dio
e al prossimo, il “fardello” rischia di trasformarsi in una sorta di
peso insopportabile, di cui ci si vorrebbe disfare al più presto
possibile. Accettare con semplicità che la nostra umanità è fatta anche
di questo mondo emotivo, da accogliere ancor prima che da correggere, è
un passo importante da fare lungo quel percorso in cui crescita umana e
crescita spirituale invece di opporsi, si integrano e si consolidano
reciprocamente.
Consapevolezza e
accettazione di sé
Il cammino vocazionale non comporta, di
conseguenza, il raggiungimento di mete inaccessibili di maturazione
psicologica e spirituale; esso esige, piuttosto, il coraggio di
accettare se stessi con la propria grandezza e con il limite che ci
abita, con i successi e i fallimenti, le aspirazioni e le continue
ricadute.
Tale accettazione a taluni può apparire poca cosa
ma, di fatto, costituisce un impegno gravoso per il nostro orgoglio e
una lotta continua. Questa accettazione è in grado di trasformare la
vita personale e comunitaria. Ben diversa, infatti, è una comunità in
cui i singoli membri ammettono i propri sentimenti aggressivi verso i
fratelli o le sorelle e riconoscono che l’intensità del loro sentire non
è sempre e solo dovuta alle “colpe” dell’altro/a, ma anche alle emozioni
aggressive che li abitano interiormente. Tale ammissione non
necessariamente deve essere pubblica; molto spesso è bene mantenerla
segreta, in quanto la consapevolezza della nostra ostilità potrebbe
ferire la sorella verso cui la nutriamo. Essa è però indispensabile per
alimentare un atteggiamento di carità, attuabile solo là dove io so
riconoscere umilmente la mia fragilità, la mia parte di limite e, di
conseguenza, posso imparare ad accogliere anche quello altrui.
Lo stesso vale per altri sentimenti che
accompagnano il nostro cammino. Talvolta, per esempio, ci troviamo di
fronte a persone la cui scelta di vivere il celibato sembra averle rese
fredde, insensibili, asettiche. Dietro a tale apparenza è spesso
presente il timore di riconoscere gli impulsi, i desideri, l’attrazione,
l’aspirazione ad essere amati in modo unico. Tali sentimenti appaiono
pericolosi e da alcuni sono addirittura percepiti come un tradimento nei
confronti di Dio, scelto come unico bene.
Accanto al senso di colpa è presente la difficoltà
a riconoscersi umilmente persone come tutte le altre, ad accettare il
fatto che l’impegno di castità non ha magicamente eliminato sentimenti,
pulsioni, aspirazioni naturali. Solo la capacità di ammettere che anche
noi siamo abitati dagli stessi desideri di ogni essere umano dà al
celibato una dimensione diversa, rende la persona più aperta, meno
rigida, perché non ha bisogno di stare sempre sulle difensive per
proteggere, ai propri occhi ancor prima che a quelli altrui, un’immagine
di sé irreale e grandiosa.
L’accoglienza del mondo emotivo, se costituisce un
passo importante nel cammino umano e spirituale, in quanto non favorisce
l’uso di difese, non alimenta una falsa percezione di sé ed educa
all’umiltà e alla trasparenza, non esaurisce, tuttavia, il complesso e
affascinante compito dell’educazione dei sentimenti. Diventare
consapevoli delle emozioni che ci abitano e saperle accettare non è
sufficiente per promuovere una corretta gestione. Nasce, infatti,
spontaneamente la domanda: e quando ho accolto le mie emozioni, che cosa
ne faccio?
La mentalità corrente, come abbiamo già avuto modo
di evidenziare nella riflessione del numero precedente, suggerisce di
viverle, di esprimerle, per manifestarle o per sbarazzarsene: se i
sentimenti sono di gioia, bisogna esternarli, se di rabbia o di
tristezza, è necessario “tirarle fuori”, altrimenti finirebbero per
accumularsi all’interno della persona e, prima o poi, creare una sorta
di corto circuito. Già è stato messo in evidenza come questo modo di
pensare sia non solo falso e illusorio, ma anche pericoloso in quanto
rischia di perpetuare tensioni e conflitti. Le emozioni non vanno
manifestate nel momento in cui sono sentite; dopo essere state
riconosciute, esse devono invece essere osservate e giudicate.
Nella nostra società esiste, purtroppo, una sorta
di sopravvalutazione ed idealizzazione del mondo emotivo, che porta a
ritenere valido e buono un sentimento per il solo fatto che è stato
provato. Il cammino positivo di maggior accettazione della dimensione
emotiva è stato purtroppo accompagnato da una corrispettiva
sottovalutazione della componente razionale. Tendiamo a dimenticare che,
se l’emozione non è da temere e tanto meno da demonizzare, essa non
costituisce necessariamente una realtà buona in se stessa, capace di
cogliere e riflettere oggettivamente la realtà, libera da ogni forma di
condizionamento. La cultura dell’autorealizzazione ha, invece,
esasperato il valore delle emozioni, soprattutto di quelle più primitive
e immediate, inducendo le persone a far equivalere il proprio sentire
con la verità.
Formare ai sentimenti
La vera educazione sentimentale si colloca in una
posizione ben diversa. Pur riconoscendo il valore delle emozioni e la
loro importante funzione, ne sottolinea anche i limiti. Esse infatti
tendono ad essere mutevoli e labili; condizionano fortemente la nostra
vita, ma con la stessa veemenza con cui invadono il mondo interiore
sembrano anche andarsene per lasciare spazio a sentimenti diversi;
talvolta poi si ha l’impressione che la loro intensità sia direttamente
proporzionale alla velocità con cui scompaiono: invadono il campo della
coscienza della persona e poi spariscono in fretta, senza lasciare quasi
nessuna traccia. Non è forse capitato a tutti di nutrire dei dubbi nei
confronti di una persona sospettata di aver commesso uno sgarbo nei
nostri confronti, provare una forte aggressività verso di lei e poi
veder scomparire in un batter d’occhio tale sentimento, nel momento in
cui ci si è resi conto di averla ingiustamente accusata? La paura, che
ci fa tremare le gambe e la voce prima di un esame, non svanisce
immediatamente nel momento in cui incominciamo a rispondere con
sicurezza alla prima domanda dell’insegnante?
Le emozioni non solo sono mutevoli, ma invadono
anche il campo percettivo della persona e non lasciano spazio ad altro.
Quante volte la preghiera personale ha dovuto sottomettersi al potere
del nostro mondo emotivo, che con prepotenza ha occupato tutto lo spazio
interno senza lasciarci la possibilità di entrare in relazione con il
Signore e d’intessere un dialogo con Lui! La ruminazione di un torto
subito e i sentimenti di vendetta che lo accompagnavano, la vergogna per
aver vissuto un’esperienza umiliante, la paura di fronte a un
avvenimento temuto hanno spesso occupato tutto lo spazio interno,
portandoci lontano dall’incontro personale con Dio.
Se lasciate a se stesse, se non arginate, le
emozioni rischiano di impadronirsi della persona, di condizionarla
notevolmente, di far prevalere il sentire rispetto a tutte le altre
dimensioni della sua esperienza. Per tale motivo, oltre ad essere
accolte e riconosciute, esse devono essere anche corrette o meglio
integrate con altri elementi della personalità, in primo luogo la
ragione. Non si tratta, però, di eliminarle sostituendo il pensare al
sentire, la lucidità del raziocinio alla forza dei sentimenti.
La soppressione di un aspetto a favore dell’altro
non favorisce l’equilibrio e la maturità della persona, ma provoca,
invece, disarmonia interiore. Proprio per tale motivo utilizziamo il
termine integrazione, che fa pensare a un tentativo di completare,
perfezionare, mettere insieme e creare un’unità. La ragione non deve,
quindi, sostituirsi, ma correggere, ridimensionare, soprattutto offrire
un punto di vista diverso, capace di completare la visione della realtà,
di renderla più oggettiva, talvolta anche meno drammatica.
Quanti conflitti comunitari potrebbero essere
affrontati in modo più adeguato, se si cercasse di accompagnare una
valutazione del problema, di tipo unicamente emotivo, a una lettura più
razionale! Di fronte alle difficoltà della vita comune, noi siamo
tentate spesso di dare risposte univoche e poco adeguate. In alcune
comunità tendono a prevalere soluzioni di tipo unicamente spirituale: le
sorelle non vanno d’accordo, litigano sovente, vivono in un modo che si
avvicina di più a quello dei “separati in casa” che ad uno stile di vita
fraterno, ma invece di cercare di scoprire quali aspetti possono
costituire un problema e tentare di trovare delle risposte pertinenti,
si propone la preghiera come unico rimedio per superare le difficoltà;
la novena a S. Giuseppe, qualche Ave Maria in più e si attende la
soluzione. Sovente, però, le cose non mutano, e non perché la preghiera
sia inefficace o perché le persone non abbiano buona volontà, bensì
perché all’invocazione dell’aiuto da parte di Dio è sempre
indispensabile aggiungere anche l’impegno concreto a utilizzare gli
strumenti che Egli mette a nostra disposizione, per risolvere le
difficoltà incontrate sul nostro cammino.
Il ricorso alla preghiera è fondamentale ma
insufficiente, se non è accompagnato dall’impegno personale. Spesso,
però, di fronte alle tensioni comunitarie la nostra reazione è puramente
emotiva: la comunità vive una forte tensione e, paradossalmente, la
reazione dei singoli membri ne favorisce il peggioramento; essa, spesso,
finisce per allargarsi a macchia d’olio, perché si reagisce parlandone
in piccoli gruppi, cercando di individuare gli eventuali colpevoli,
drammatizzando le conseguenze, ruminando i problemi nella mente,
amplificando l’accaduto.
Le dinamiche emotive che si innescano in tali
situazioni comunitarie creano ferite, sovente anche dolorose, nel cuore
delle persone e rendono meno efficace la nostra testimonianza di vita
fraterna, costituendo un esempio tipico di come l’emotività, se lasciata
a se stessa, non aiuta la persona e il gruppo a crescere ma, al
contrario, li fa regredire.
Il processo di
integrazione psicologica
E’ importante, allora, tentare quel percorso di
integrazione cui si è accennato in precedenza. La ragione, infatti,
completa ciò che manca all’emozione e rende più preciso e oggettivo il
nostro sentire. Essa assolve alcuni compiti specifici e colora di tinte
più sfumate il nostro mondo interiore. La ragione, innanzi tutto,
permette di osservare la realtà da punti di vista diversi; mentre il
sentimento mette al centro il nostro io, le sue ferite, le gioie, i
dolori, le perdite; la ragione permette di cogliere anche il punto di
vista altrui. Ciò che ci pareva compiuto solo per offenderci, per
ripicca, ci può apparire allora frutto di una reazione emotiva nata da
paura o da un’abitudine a comportarsi in un determinato modo.
La ragione inoltre invita a cogliere le
motivazioni profonde dei comportamenti altrui in modo più equilibrato;
quando viviamo un conflitto, infatti, tendiamo a leggere le azioni degli
altri come se fossero intenzionalmente orientate contro di noi. Una
visione meno emotiva, invece, ci aiuta a renderci conto che non
necessariamente l’aggressività è rivolta alla nostra persona o, se lo è,
ciò può avvenire non tanto perché l’altro è ostile nei nostri confronti
quanto perché abituato a reagire in determinati modi non a noi, ma a ciò
che rappresentiamo.
Una superiora, per esempio, può sentirsi facilmente
aggredita da una sorella e, pensando che ciò avviene a causa
dell’ostilità da le nutrita nei suoi confronti, può vivere in modo
drammatico tale conflitto; se però cerca di cogliere la realtà anche da
punti di vista diversi, potrà rendersi conto che forse l’ostilità non è
diretta contro di lei, ma verso la figura di autorità che incarna, a
causa delle esperienze passate vissute da tale sorella. Questa presa di
coscienza potrà metterla in guardia dal reagire nello stesso modo in cui
si sono comportate le superiore che l’hanno preceduta, permettendo così
alla suora di fare un’esperienza diversa nel suo rapporto con l’autorità
e di placare in tal modo i propri sentimenti aggressivi.
L’educazione dei sentimenti è dunque un processo di
integrazione: essa comporta un cammino nello Spirito, in quanto implica
la preghiera, l’invocazione dell’aiuto di Dio affinché ci faccia
crescere e maturare, singolarmente e comunitariamente. Richiede però
anche l’impegno di tutte le facoltà umane che Egli ha messo a nostra
disposizione, perché il nostro modo di metterci in relazione con noi
stessi e con gli altri sia equilibrato e armonioso.
La ragione ha qui un ruolo importante, giacché
opera una trasformazione del mondo interiore della persona. Essa innanzi
tutto lo dilata, amplifica la consapevolezza della realtà, mettendo in
risalto particolari che il sentimento, naturalmente orientato verso il
soggetto stesso, non avrebbe colto. Essa inoltre permette di sfumare la
realtà, di coglierla in modo meno categorico e drammatico, di vederla da
punti di vista diversi. La ragione, di conseguenza, è al servizio
dell’amore perché permette di decentrare i sentimenti, che di essa hanno
bisogno per essere educati e più direttamente orientati al bene.
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