n. 3
marzo 2003

 

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L’educazione del sentimento
Un nuovo itinerario per valorizzare la verginità
II
di Anna Bissi

 

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Percorso di crescita umano/spirituale

 Nella riflessione precedente abbiamo cercato di muoverci nel variegato e complesso modo di vivere i sentimenti, per individuare le varie forme che esso assume all’interno della nostra società e nel contesto in cui viviamo: quello della vita consacrata. Più esattamente, si è tentato di definire quali sono i falsi concetti di educazione sentimentale, i modi immaturi e inadeguati di gestire il mondo emotivo.

Proveremo ora invece a intraprendere un altro cammino, quello in positivo, cercando di individuare un possibile percorso di crescita dell’emotività.

Il primo passo di tale itinerario è dato dall’ascolto del mondo interiore, dalla capacità di riconoscere i moti dell’anima, non solo quelli più intensi e violenti, ma anche gli altri che, pur non imponendosi in modo energico, riescono a condizionare il nostro modo di pensare ed agire. Questo ascolto comporta due componenti importanti, le stesse che accompagnano ogni nostra esperienza di percezione auditiva. Proviamo a pensare a ciò che succede in noi quando siamo particolarmente interessati a sentire un rumore, segno di un avvenimento significativo, come l’arrivo di una persona cara di cui si riconoscono i passi, o pericoloso, come quando si sospetta la presenza in casa di un estraneo o addirittura di un ladro.

Il primo elemento importante è quello della vigilanza: per sentire bisogna stare all’erta, fare in modo che dal sottofondo dei rumori percepiti si distingua la presenza di quello da noi atteso o temuto. Se non vigiliamo, il ladro ci sorprende senza che ce ne rendiamo conto o la persona cara può arrivare e trovarci impreparati. Lo stesso vale per il mondo dei sentimenti; se non prestiamo attenzione a ciò che avviene dentro di noi, se non sappiamo domandarci spesso: «che cosa sto provando, che cosa vivo in questo momento?», essi rischiano di coglierci all’improvviso e sorprenderci. La paura può far scattare atteggiamenti difensivi, sovente persino meschini, come l’accusa ad altri o le bugie autoprotettive la cui funzione è solo quella di tutelare se stessi; la collera può capitarci addosso senza che ce ne rendiamo conto e indurci a reagire aggressivamente, in modo impulsivo, salvo poi far nascere in noi il desiderio di morderci la lingua, per il dispiacere di averla usata male.

 

Capire per classificare

 L’individuazione del rumore non è però sufficiente alla comprensione di ciò che sta capitando: i passi di uno sconosciuto, che si avvicina a casa per domandare un’informazione, facilmente potrebbero essere scambiati con quelli di un ladro. All’attenzione vigilante deve accompagnarsi la capacità di definire con precisione ciò che sta avvenendo. Nello stesso modo l’ascolto dei moti interiori, vaghi e non definiti, accompagnato dalla domanda: «che cosa sto provando?», deve trovare una risposta chiara e precisa. E’ importante che il sentimento possa uscire dall’indeterminato in modo che ad esso si sappia dare un nome. Questa è una caratteristica tipica dell’intelligenza umana; il saper classificare è infatti un modo per ordinare, creare armonia non solo nel mondo esterno, ma anche in quello interiore.

Il libro della Genesi ci aiuta a comprendere che esso costituisce uno dei compiti che Dio ha affidato all’uomo e attraverso il quale egli può esprimere la sua signoria sul cosmo; il saper classificare e dare un nome alle cose, rappresenta infatti una forma di possesso, un modo per esercitare un potere. Ciò è vero anche a proposito del mondo interiore.

Quando io so definire il sentimento sperimentato in un determinato momento ho già compiuto un’opera di appropriazione: infatti, non sono più in balia del mio vissuto personale, non mi lascio più condurre passivamente da ciò che sento, ma sono in grado di afferrare, di definire e, di conseguenza, anche di controllare e contenere almeno in parte l’emozione che vivo.

Una particolare attenzione va prestata a quelle emozioni – diverse per ogni persona – cui spontaneamente attribuiamo una valenza negativa e che non siamo, dunque, disposti ad ammettere presenti dentro di noi, perché costituiscono una minaccia per la nostra stima personale.

C’è chi, per esempio, fa difficoltà a riconoscere di avere paura, in quanto il vivere dei timori, delle trepidazioni riguardo al successo, dei dubbi in merito alle capacità di affrontare determinati compiti è percepito come motivo di disistima, una sorta di perdita di fiducia in se stessi, di mancanza di dignità ai propri occhi.

Altre persone, invece, non tollerano la presenza dentro di sé di tutte quelle emozioni che hanno a che fare con l’aggressività: la collera, l’invida, la gelosia, il risentimento, il desiderio di vendetta paiono loro intollerabili, provocano senso di colpa; di conseguenza esse imparano a non riconoscerle, a mascherarle e contenerle, pur di non ammetterne la presenza.

Altri, al contrario, non accettano di provare attrazione per un’altra persona: il desiderio affettivo e sessuale, invece di essere vissuto come una dimensione normale dell’esperienza umana, da rintracciare all’interno del proprio mondo e orientare in base alla scelta di vita, viene percepito come una minaccia, un pericolo da eliminare, perché anche la sua sola presenza è vissuta come fonte di disequilibrio e tensione.

 

La paura delle emozioni impedisce dunque di ascoltarle ed accoglierle. Essa nasce spesso da ciò che solo all’apparenza costituisce un desiderio di bene. Nella aspirazione a non trovare dentro di sé sentimenti ostili che possono ostacolare la comunione fraterna, paure capaci di frenare la nostra dedizione apostolica o desideri orientati alla ricerca di un amore umano, contrario all’impegno di celibato, spesso si nasconde “altro”. Il mancato ascolto del nostro mondo interiore non ha origine unicamente da una tensione verso i valori significativi, nei confronti del cui raggiungimento le emozioni possono costituire un ostacolo.

Al di là di tale atteggiamento, fortemente difensivo, troviamo in genere il tentativo di mantenere un’immagine perfetta, di salvare la faccia, di non accettare una dimensione di povertà e di limite costituita, appunto, da quelle forze presenti dentro di noi che, se lasciate a se stesse, orienterebbero la nostra vita in direzioni opposte alle scelte da noi compiute. Dietro a questo mancato riconoscimento di ciò che ci abita, possiamo così scorgere una manifestazione di quella tentazione, antica quanto l’uomo, che consiste nel negare il proprio limite e nell’illudersi di essere diversi, più perfetti, capaci, maturi rispetto a quanto non lo siamo in realtà. Anche in questo ambito riaffiora il pericolo di sempre: quello di volersi fare come dèi, non riconoscendo le proprie debolezze e illudendosi di superare ogni possibile condizionamento, ogni segno di imperfezione e fragilità.

 

Formazione e maturità cristiana

 L’educazione dei sentimenti implica così un primo passo importante: quello del superamento della paura, della mancanza di stima, della “brutta figura” nel tentativo di raggiungere la trasparenza, la semplicità, l’umile riconoscimento del limite. Tale educazione, ancor prima che favorire un orientamento equilibrato delle forze emotive, deve promuovere l’accettazione di sé: di ciò che si è, del proprio mondo interiore spesso abitato da contraddizioni, da dinamismi che facciamo difficoltà a riconoscere come nostri; essi, tuttavia, ci abitano e, di conseguenza, dobbiamo imparare ad accoglierli in semplicità, anche quando non ci piacciono e danno di noi un’immagine diversa rispetto a quella che vorremmo avere e, soprattutto, mostrare agli altri.

L’educazione dei sentimenti appare quindi come una scuola di trasparenza. Come il primo uomo e la prima donna, anche noi siamo tentati di coprirci, di difenderci, di mascherare la nostra nudità. Facciamo difficoltà ad essere onesti con noi stessi, a guardare con coraggio quel mondo di passioni e sentimenti che non ci fanno onore, ma che non possiamo evitare di riconoscere presenti in noi. Non vogliamo accettare di scoprirci vendicativi, quando sappiamo che l’Evangelo ci invita a porgere l’altra guancia; non tolleriamo i sentimenti di possessività che si insinuano in quelli che vorremmo fossero affetti puri, casti, quali si addicono a persone desiderose di vivere il celibato per il Regno. Quotidianamente dobbiamo lottare per accettare di scoprire queste dimensioni emotive che non ci piacciono, perché offuscano la nostra immagine e la stima che nutriamo verso noi stessi.

 Accanto a questa battaglia, compiuta ogni giorno, per riconoscere umilmente il nostro vero volto, ne è presente un’altra, più nascosta perché riguarda dimensioni meno consapevoli della nostra persona. Si tratta della lotta tendente a smascherare i meccanismi di difesa, quelle funzioni di cui è dotata la nostra mente e che operano inconsapevolmente per proteggere la stima e offrirci un’immagine di noi stessi accettabile ai nostri occhi, ma falsa.

Questi meccanismi spesso fanno in modo di nascondere o giustificare le emozioni da noi vissute, per renderle tollerabili al nostro sguardo, ogni volta in cui si può sospettare che siano sgradevoli e offuschino la immagine che abbiamo di noi stessi. Quando non riusciamo a contenere la rabbia, esse ci giustificano, attribuendo la colpa agli altri; se nutriamo il timore di perdere la stima, trovano mille motivi per darci ragioni; se siamo gelosi o invidiosi, attestano l’oggettività del sentire. Sembrano avere la funzione di confermare il nostro punto di vista, mantenendo così un’immagine idealizzata e irrealistica della nostra persona.

Educare i sentimenti implica quindi la capacità e la disponibilità a riconoscere e accettare che le emozioni presenti in noi costituiscono un mondo ambivalente, un guazzabuglio, come è appunto il cuore umano, fatto di affetti generosi e di piccinerie, di desideri di bene e di meschinità, di aspirazioni elevate, gioie pure e preoccupazioni grette ed egocentriche. In noi, infatti, i sentimenti più limpidi possono convivere accanto a quelli più squallidi, così come la tensione verso il bene accompagna spesso il ripiegamento su di sé,poiché il mondo delle emozioni riflette tutte le ambiguità della nostra natura umana, la quale aspira a fare il bene, ma si trova spesso orientata verso ciò che bene non è.

Saper riconoscere l’ambivalenza del proprio mondo emotivo costituisce dunque il primo passo per un’educazione dei sentimenti che è, contemporaneamente, una scuola di trasparenza e di umiltà. Ancor prima di orientare la forza, presente nell’emozione, verso un fine buono o contenerla se essa tenta di dirigerci verso qualcosa che non costituisce un bene, è importante ammettere la loro presenza dentro di noi, anche quando questa non soddisfa il nostro orgoglio, ci umilia e ci costringe a riconoscere la nostra povertà, fragilità, piccolezza.

Nessuno ama riconoscersi invidioso, geloso, vendicativo, pauroso, triste, vittimista, irascibile; tali sentimenti sembrano non farci onore e costituire un pesante e ingombrante fardello. Per chi ha scelto, poi, di fare della propria vita un dono d’amore a Dio e al prossimo, il “fardello” rischia di trasformarsi in una sorta di peso insopportabile, di cui ci si vorrebbe disfare al più presto possibile. Accettare con semplicità che la nostra umanità è fatta anche di questo mondo emotivo, da accogliere ancor prima che da correggere, è un passo importante da fare lungo quel percorso in cui crescita umana e crescita spirituale invece di opporsi, si integrano e si consolidano reciprocamente.

 

Consapevolezza e accettazione di sé

 Il cammino vocazionale non comporta, di conseguenza, il raggiungimento di mete inaccessibili di maturazione psicologica e spirituale; esso esige, piuttosto, il coraggio di accettare se stessi con la propria grandezza e con il limite che ci abita, con i successi e i fallimenti, le aspirazioni e le continue ricadute.

Tale accettazione a taluni può apparire poca cosa ma, di fatto, costituisce un impegno gravoso per il nostro orgoglio e una lotta continua. Questa accettazione è in grado di trasformare la vita personale e comunitaria. Ben diversa, infatti, è una comunità in cui i singoli membri ammettono i propri sentimenti aggressivi verso i fratelli o le sorelle e riconoscono che l’intensità del loro sentire non è sempre e solo dovuta alle “colpe” dell’altro/a, ma anche alle emozioni aggressive che li abitano interiormente. Tale ammissione non necessariamente deve essere pubblica; molto spesso è bene mantenerla segreta, in quanto la consapevolezza della nostra ostilità potrebbe ferire la sorella verso cui la nutriamo. Essa è però indispensabile per alimentare un atteggiamento di carità, attuabile solo là dove io so riconoscere umilmente la mia fragilità, la mia parte di limite e, di conseguenza, posso imparare ad accogliere anche quello altrui.

 

Lo stesso vale per altri sentimenti che accompagnano il nostro cammino. Talvolta, per esempio, ci troviamo di fronte a persone la cui scelta di vivere il celibato sembra averle rese fredde, insensibili, asettiche. Dietro a tale apparenza è spesso presente il timore di riconoscere gli impulsi, i desideri, l’attrazione, l’aspirazione ad essere amati in modo unico. Tali sentimenti appaiono pericolosi e da alcuni sono addirittura percepiti come un tradimento nei confronti di Dio, scelto come unico bene.

Accanto al senso di colpa è presente la difficoltà a riconoscersi umilmente persone come tutte le altre, ad accettare il fatto che l’impegno di castità non ha magicamente eliminato sentimenti, pulsioni, aspirazioni naturali. Solo la capacità di ammettere che anche noi siamo abitati dagli stessi desideri di ogni essere umano dà al celibato una dimensione diversa, rende la persona più aperta, meno rigida, perché non ha bisogno di stare sempre sulle difensive per proteggere, ai propri occhi ancor prima che a quelli altrui, un’immagine di sé irreale e grandiosa.

L’accoglienza del mondo emotivo, se costituisce un passo importante nel cammino umano e spirituale, in quanto non favorisce l’uso di difese, non alimenta una falsa percezione di sé ed educa all’umiltà e alla trasparenza, non esaurisce, tuttavia, il complesso e affascinante compito dell’educazione dei sentimenti. Diventare consapevoli delle emozioni che ci abitano e saperle accettare non è sufficiente per promuovere una corretta gestione. Nasce, infatti, spontaneamente la domanda: e quando ho accolto le mie emozioni, che cosa ne faccio?

La mentalità corrente, come abbiamo già avuto modo di evidenziare nella riflessione del numero precedente, suggerisce di viverle, di esprimerle, per manifestarle o per sbarazzarsene: se i sentimenti sono di gioia, bisogna esternarli, se di rabbia o di tristezza, è necessario “tirarle fuori”, altrimenti finirebbero per accumularsi all’interno della persona e, prima o poi, creare una sorta di corto circuito. Già è stato messo in evidenza come questo modo di pensare sia non solo falso e illusorio, ma anche pericoloso in quanto rischia di perpetuare tensioni e conflitti. Le emozioni non vanno manifestate nel momento in cui sono sentite; dopo essere state riconosciute, esse devono invece essere osservate e giudicate.

Nella nostra società esiste, purtroppo, una sorta di sopravvalutazione ed idealizzazione del mondo emotivo, che porta a ritenere valido e buono un sentimento per il solo fatto che è stato provato. Il cammino positivo di maggior accettazione della dimensione emotiva è stato purtroppo accompagnato da una corrispettiva sottovalutazione della componente razionale. Tendiamo a dimenticare che, se l’emozione non è da temere e tanto meno da demonizzare, essa non costituisce necessariamente una realtà buona in se stessa, capace di cogliere e riflettere oggettivamente la realtà, libera da ogni forma di condizionamento. La cultura dell’autorealizzazione ha, invece, esasperato il valore delle emozioni, soprattutto di quelle più primitive e immediate, inducendo le persone a far equivalere il proprio sentire con la verità.

 

Formare ai sentimenti

 La vera educazione sentimentale si colloca in una posizione ben diversa. Pur riconoscendo il valore delle emozioni e la loro importante funzione, ne sottolinea anche i limiti. Esse infatti tendono ad essere mutevoli e labili; condizionano fortemente la nostra vita, ma con la stessa veemenza con cui invadono il mondo interiore sembrano anche andarsene per lasciare spazio a sentimenti diversi; talvolta poi si ha l’impressione che la loro intensità sia direttamente proporzionale alla velocità con cui scompaiono: invadono il campo della coscienza della persona e poi spariscono in fretta, senza lasciare quasi nessuna traccia. Non è forse capitato a tutti di nutrire dei dubbi nei confronti di una persona sospettata di aver commesso uno sgarbo nei nostri confronti, provare una forte aggressività verso di lei e poi veder scomparire in un batter d’occhio tale sentimento, nel momento in cui ci si è resi conto di averla ingiustamente accusata? La paura, che ci fa tremare le gambe e la voce prima di un esame, non svanisce immediatamente nel momento in cui incominciamo a rispondere con sicurezza alla prima domanda dell’insegnante?

Le emozioni non solo sono mutevoli, ma invadono anche il campo percettivo della persona e non lasciano spazio ad altro. Quante volte la preghiera personale ha dovuto sottomettersi al potere del nostro mondo emotivo, che con prepotenza ha occupato tutto lo spazio interno senza lasciarci la possibilità di entrare in relazione con il Signore e d’intessere un dialogo con Lui! La ruminazione di un torto subito e i sentimenti di vendetta che lo accompagnavano, la vergogna per aver vissuto un’esperienza umiliante, la paura di fronte a un avvenimento temuto hanno spesso occupato tutto lo spazio interno, portandoci lontano dall’incontro personale con Dio.

Se lasciate a se stesse, se non arginate, le emozioni rischiano di impadronirsi della persona, di condizionarla notevolmente, di far prevalere il sentire rispetto a tutte le altre dimensioni della sua esperienza. Per tale motivo, oltre ad essere accolte e riconosciute, esse devono essere anche corrette o meglio integrate con altri elementi della personalità, in primo luogo la ragione. Non si tratta, però, di eliminarle sostituendo il pensare al sentire, la lucidità del raziocinio alla forza dei sentimenti.

La soppressione di un aspetto a favore dell’altro non favorisce l’equilibrio e la maturità della persona, ma provoca, invece, disarmonia interiore. Proprio per tale motivo utilizziamo il termine integrazione, che fa pensare a un tentativo di completare, perfezionare, mettere insieme e creare un’unità. La ragione non deve, quindi, sostituirsi, ma correggere, ridimensionare, soprattutto offrire un punto di vista diverso, capace di completare la visione della realtà, di renderla più oggettiva, talvolta anche meno drammatica.

 Quanti conflitti comunitari potrebbero essere affrontati in modo più adeguato, se si cercasse di accompagnare una valutazione del problema, di tipo unicamente emotivo, a una lettura più razionale! Di fronte alle difficoltà della vita comune, noi siamo tentate spesso di dare risposte univoche e poco adeguate. In alcune comunità tendono a prevalere soluzioni di tipo unicamente spirituale: le sorelle non vanno d’accordo, litigano sovente, vivono in un modo che si avvicina di più a quello dei “separati in casa” che ad uno stile di vita fraterno, ma invece di cercare di scoprire quali aspetti possono costituire un problema e tentare di trovare delle risposte pertinenti, si propone la preghiera come unico rimedio per superare le difficoltà; la novena a S. Giuseppe, qualche Ave Maria in più e si attende la soluzione. Sovente, però, le cose non mutano, e non perché la preghiera sia inefficace o perché le persone non abbiano buona volontà, bensì perché all’invocazione dell’aiuto da parte di Dio è sempre indispensabile aggiungere anche l’impegno concreto a utilizzare gli strumenti che Egli mette a nostra disposizione, per risolvere le difficoltà incontrate sul nostro cammino.

 Il ricorso alla preghiera è fondamentale ma insufficiente, se non è accompagnato dall’impegno personale. Spesso, però, di fronte alle tensioni comunitarie la nostra reazione è puramente emotiva: la comunità vive una forte tensione e, paradossalmente, la reazione dei singoli membri ne favorisce il peggioramento; essa, spesso, finisce per allargarsi a macchia d’olio, perché si reagisce parlandone in piccoli gruppi, cercando di individuare gli eventuali colpevoli, drammatizzando le conseguenze, ruminando i problemi nella mente, amplificando l’accaduto.

Le dinamiche emotive che si innescano in tali situazioni comunitarie creano ferite, sovente anche dolorose, nel cuore delle persone e rendono meno efficace la nostra testimonianza di vita fraterna, costituendo un esempio tipico di come l’emotività, se lasciata a se stessa, non aiuta la persona e il gruppo a crescere ma, al contrario, li fa regredire.

 

Il processo di integrazione psicologica

 E’ importante, allora, tentare quel percorso di integrazione cui si è accennato in precedenza. La ragione, infatti, completa ciò che manca all’emozione e rende più preciso e oggettivo il nostro sentire. Essa assolve alcuni compiti specifici e colora di tinte più sfumate il nostro mondo interiore. La ragione, innanzi tutto, permette di osservare la realtà da punti di vista diversi; mentre il sentimento mette al centro il nostro io, le sue ferite, le gioie, i dolori, le perdite; la ragione permette di cogliere anche il punto di vista altrui. Ciò che ci pareva compiuto solo per offenderci, per ripicca, ci può apparire allora frutto di una reazione emotiva nata da paura o da un’abitudine a comportarsi in un determinato modo.

 La ragione inoltre invita a cogliere le motivazioni profonde dei comportamenti altrui in modo più equilibrato; quando viviamo un conflitto, infatti, tendiamo a leggere le azioni degli altri come se fossero intenzionalmente orientate contro di noi. Una visione meno emotiva, invece, ci aiuta a renderci conto che non necessariamente l’aggressività è rivolta alla nostra persona o, se lo è, ciò può avvenire non tanto perché l’altro è ostile nei nostri confronti quanto perché abituato a reagire in determinati modi non a noi, ma a ciò che rappresentiamo.

Una superiora, per esempio, può sentirsi facilmente aggredita da una sorella e, pensando che ciò avviene a causa dell’ostilità da le nutrita nei suoi confronti, può vivere in modo drammatico tale conflitto; se però cerca di cogliere la realtà anche da punti di vista diversi, potrà rendersi conto che forse l’ostilità non è diretta contro di lei, ma verso la figura di autorità che incarna, a causa delle esperienze passate vissute da tale sorella. Questa presa di coscienza potrà metterla in guardia dal reagire nello stesso modo in cui si sono comportate le superiore che l’hanno preceduta, permettendo così alla suora di fare un’esperienza diversa nel suo rapporto con l’autorità e di placare in tal modo i propri sentimenti aggressivi.

L’educazione dei sentimenti è dunque un processo di integrazione: essa comporta un cammino nello Spirito, in quanto implica la preghiera, l’invocazione dell’aiuto di Dio affinché ci faccia crescere e maturare, singolarmente e comunitariamente. Richiede però anche l’impegno di tutte le facoltà umane che Egli ha messo a nostra disposizione, perché il nostro modo di metterci in relazione con noi stessi e con gli altri sia equilibrato e armonioso.

La ragione ha qui un ruolo importante, giacché opera una trasformazione del mondo interiore della persona. Essa innanzi tutto lo dilata, amplifica la consapevolezza della realtà, mettendo in risalto particolari che il sentimento, naturalmente orientato verso il soggetto stesso, non avrebbe colto. Essa inoltre permette di sfumare la realtà, di coglierla in modo meno categorico e drammatico, di vederla da punti di vista diversi. La ragione, di conseguenza, è al servizio dell’amore perché permette di decentrare i sentimenti, che di essa hanno bisogno per essere educati e più direttamente orientati al bene.

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