n. 6 giugno 2001

 

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di Biancarosa Magliano

 
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Partiamo da una lettera...

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"Sono una suora missionaria che ha girato un po’ di mondo…”. Così inizia una lettera giunta in redazione un po’ di tempo fa. Logicamente firmata. Parla, la scrivente, delle nazioni in cui è stata e ha operato. Ringrazia, tra l’altro, per il cammino fatto dalla nostra rivista in questi anni, ed esprime una constatazione alquanto amara - la scarsa attenzione ai temi proposti - e un desiderio, un auspicio. Si augura, la suora, che anche i superiori e tutti i membri leggano e si confrontino con quanto è espresso nei testi offerti; vorrebbe che i temi formativi affrontati siano approfonditi, condivisi, così che diventino oggetto di riflessione personale e comunitaria; riflessione che può sfociare in qualche evoluzione migliorativa, in momenti di scambio e di cambio non forzato, ma ragionato, condiviso. Sì, perché le forzature non sono evangeliche. La radicalità, la speranza, la visione di futuro, possono essere evangeliche; ma non quando sono imposte.

Gesù con i discepoli e, quasi ancora di più, con gli apostoli, utilizza la pedagogia dell’attesa, della speranza, dei piccoli passi, della maturazione consapevole che però non giunge mai alla pienezza, se non quando scenderà su di essi lo Spirito che “ricorderà loro ogni cosa”, “li guiderà alla verità tutta intera”, li caricherà di energia nuova e li lancerà nel mondo, perché anche per loro i confini non erano quelli ristretti di una regione o di un Paese, ma quelli del mondo intero: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”. Gesù li conduce con la saggezza del Maestro che conosce le precarietà, le fragilità, ma anche le illimitate possibilità creative dell’essere umano. L’uomo possiede una straordinaria capacità creativa. Da millenni nella Bibbia è scritto degli uomini: “quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile”.

Non intendiamo fare nessun processo. Non ce ne sentiamo autorizzate; i processi non sono di nostra competenza; e non ci piacciono. I malesseri reali, esistenti nei nostri Istituti, e a volte ingigantiti da reazioni eccessive, hanno cause e origini molteplici, di provenienza diversa. E si corre anche il rischio di dare origine a situazioni nelle quali la comunità vive in un clima di appiattimento, massificazione o incuria e disinteresse, quando non di rifiuto e di rigetto, forse di cinismo. L’orizzonte dei singoli e dell’insieme viene ristretto alla quotidianità. Non è poi così raro ascoltare espressioni come questa: “anche oggi è passato”, e non sempre con la gioiosa e chiara consapevolezza di aver compiuto nel modo migliore il proprio impegno.

Sappiamo di superiore, maggiori e non, tutte dedite al servizio di animazione e formazione, di ricerca di nuove vie, di proposte innovative, perché sono consapevoli che questo è il servizio di fedeltà che è loro richiesto. Sanno che il loro compito è quello di guidare e gestire il “lavoro di Dio”. Sanno che non lavorano in proprio; ma che sono amministratrici dei beni di Dio; suoi “collaboratori per il vangelo”. Sanno di dover seguire una norma paradossale: quella di Gesù: chi di voi vuol essere il primo, chi aspira a essere grande si faccia servitore. “Più il potere è grande, scrive Pierre Debergé, più l’obbligo di viverlo come servizio è vincolante”.

E’ certo: in politica, come nelle aziende, così nelle nostre istituzioni, alle funzioni dirigenziali, ci si passi il termine, dovrebbero essere preposte persone competenti. Non si tratta di collocarvi persone che sappiano semplicemente suscitare il consenso. Per questo basterebbe essere leader. Nei nostri istituti, sorti nella fede e per la fede, la capacità dirigenziale non è sufficiente. L’approccio autoritario, imperativo, così come il disinteresse, il non affrontare i problemi, il dilazionare all’infinito le proposte di soluzione, il lasciare sempre e comunque le cose come stanno, perché non si ha il coraggio di concretizzare il giusto provvedimento, generano malcontento, frustrazione e atteggiamenti negativi, quali delusione, risentimento e rabbia, chiusure e mutismi.

E’ necessario saper far interagire competenza e saggezza, capacità comunicativa e di coinvolgimento, lungimiranza e pazienza, chiaroveggenza ed equilibrio; risolutezza e tenacia, ma sempre nell’ambito e alla luce della fede. Myron Rush, nel suo libro “L’arte di essere leader alla luce della Bibbia” parlando della torre di Babele, sostiene anche la necessità di “un efficace sistema di comunicazione”. E commenta che, non avendo i costruttori un fine approvato da Dio, egli manda in fumo i loro progetti: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua”. Sconvolge il loro sistema di comunicazione. Interrotte le comunicazioni, l’impegno per il progetto e l’unità del gruppo vanno in frantumi. Chi regge il tutto è lui. Se salta - o si fa saltare - il piano di Dio a vantaggio dei progetti personali, tutto il resto si trasforma in vanità, apparenza, quando non in esibizionismo od ostentazione.

Esattamente il contrario di quanto succederà a Gerusalemme nell’era nuova. Lo Spirito “scende” sugli Apostoli. Essi danno inizio all’annuncio e tutti gli uditori, pur nella moltepicità delle loro lingue, parti, medi, elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, ebrei e proseliti, cretesi e arabi, con loro grande stupore, “li odono annunziare nelle loro lingue le grandi opere di Dio”.

La liturgia della Parola del tempo pasquale, quasi tutta estratta dagli Atti, è stata ricchissima - pur nella semplicità stilistica della narrazione - nel raccontarci le gesta, anche miracolose, compiute dagli Apostoli. Nel mercoledì della terza settimana riporta le pericope in cui è narrata la discesa di Filippo da Gerusalemme “in una città della Samaria”, dove comincia a predicare il Cristo. Compie anche miracoli: da “molti” indemoniati uscivano spiriti immondi, “molti” paralitici e storpi furono risanati. Suggestiva è la conclusione del brano: “E vi fu grande gioia in quella città”.

Avevano accolto il messaggio salvifico ed era sbocciato lo slancio, dono dello Spirito.

Tenere alto il clima non è facile; ma non inattuabile. Vivere ad alta tensione non è un utopia.

Forse questo nostro è il momento estremamente bisognoso di rendere personalizzata la preghiera di Gesù: prego per loro perché tutti, in gergo ormai quasi non più ammesso, superiori e sudditi, siamo una cosa sola; in altri termini, come la comunità cristiana dei primi tempi, costruita attorno e sulla Parola, nella condivisione dei beni; non v’era chi aveva di più o di meno secondo il piacere o il gusto, o la visione esclusivamente personale, ma secondo i bisogni di ciascuno; così che nelle nostre comunità si viva la sororità che è espressione del saperci tutte convocate dallo stesso Signore. Con una stessa identica idealità motivante: “Gloria a Dio e pace agli uomini che il Signore ama”.Essere tutte, come scriveva Pietro nella sua Prima Lettera destinata ai cristiani della diaspora, quelle pietre vive con cui si costruisce l’edificio spirituale per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo.

In sintesi, come scrive, augurandoselo, suor Marian Ambrosio, dp, sulla rivista Convergência:  “Essere presenza gratuita del Padre, coraggiosa incarnazione del Figlio, entusiasmo realista dello Spirito”. Perché è l’amore comunitario, continua la scrivente, quello che rifonda la nostra consacrazione.

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