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"Sono
una suora missionaria che ha girato un po’ di mondo…”. Così inizia una
lettera giunta in redazione un po’ di tempo fa. Logicamente firmata. Parla, la
scrivente, delle nazioni in cui è stata e ha operato. Ringrazia, tra l’altro,
per il cammino fatto dalla nostra rivista in questi anni, ed esprime una
constatazione alquanto amara - la scarsa attenzione ai temi proposti - e un
desiderio, un auspicio. Si augura, la suora, che anche i superiori e tutti i
membri leggano e si confrontino con quanto è espresso nei testi offerti;
vorrebbe che i temi formativi affrontati siano approfonditi, condivisi, così
che diventino oggetto di riflessione personale e comunitaria; riflessione
che può sfociare in qualche evoluzione migliorativa, in momenti di scambio e di
cambio non forzato, ma ragionato, condiviso. Sì, perché le forzature non sono
evangeliche. La radicalità, la speranza, la
visione di futuro, possono essere evangeliche; ma non quando sono imposte.
Gesù
con i discepoli e, quasi ancora di più, con gli apostoli, utilizza la pedagogia
dell’attesa, della speranza, dei piccoli passi, della maturazione consapevole
che però non giunge mai alla pienezza, se
non quando scenderà su di essi lo Spirito che “ricorderà
loro ogni cosa”, “li guiderà alla verità tutta intera”, li caricherà
di energia nuova e li lancerà nel mondo, perché anche per loro i confini non
erano quelli ristretti di una regione o di un Paese, ma quelli del mondo intero:
“Andate e ammaestrate tutte le nazioni”. Gesù li conduce con la saggezza
del Maestro che conosce le precarietà, le
fragilità, ma anche le illimitate possibilità creative dell’essere umano.
L’uomo possiede una straordinaria capacità creativa. Da millenni nella Bibbia
è scritto degli uomini: “quanto avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile”.
Non
intendiamo fare nessun processo. Non ce ne sentiamo autorizzate; i processi non
sono di nostra competenza; e non ci piacciono. I malesseri reali, esistenti nei
nostri Istituti, e a volte ingigantiti da reazioni eccessive, hanno cause e
origini molteplici, di provenienza diversa. E si corre anche il rischio di dare
origine a situazioni nelle quali la comunità vive in un clima
di appiattimento, massificazione o incuria e disinteresse, quando non di rifiuto
e di rigetto, forse di cinismo. L’orizzonte dei singoli e dell’insieme viene
ristretto alla quotidianità. Non è poi così raro ascoltare espressioni come
questa: “anche oggi è passato”, e non sempre con la gioiosa e chiara
consapevolezza di aver compiuto nel modo migliore il proprio impegno.
Sappiamo
di superiore, maggiori e non, tutte dedite al servizio di animazione e
formazione, di ricerca di nuove vie, di proposte innovative, perché sono
consapevoli che questo è il servizio di fedeltà che è loro richiesto. Sanno
che il loro compito è quello di guidare e gestire il “lavoro di Dio”. Sanno
che non lavorano in proprio; ma che sono amministratrici dei beni di Dio; suoi
“collaboratori per il vangelo”. Sanno di dover seguire una norma
paradossale: quella di Gesù: chi di voi vuol essere il primo, chi aspira a
essere grande si faccia servitore. “Più il potere è grande, scrive Pierre
Debergé, più l’obbligo di viverlo come servizio è vincolante”.
E’
certo: in politica, come nelle aziende, così nelle nostre istituzioni, alle
funzioni dirigenziali, ci si passi il termine, dovrebbero
essere preposte persone competenti. Non si tratta di collocarvi persone che
sappiano semplicemente suscitare il consenso. Per questo basterebbe essere
leader. Nei nostri istituti, sorti nella fede
e per la fede, la capacità dirigenziale non è sufficiente. L’approccio
autoritario, imperativo, così come il disinteresse, il non affrontare i
problemi, il dilazionare all’infinito le
proposte di soluzione, il lasciare sempre e comunque
le cose come stanno, perché non si ha il coraggio di concretizzare il giusto
provvedimento, generano malcontento, frustrazione e atteggiamenti negativi,
quali delusione, risentimento e rabbia,
chiusure e mutismi.
E’
necessario saper far interagire competenza e saggezza, capacità comunicativa e
di coinvolgimento, lungimiranza e pazienza,
chiaroveggenza ed equilibrio; risolutezza e tenacia, ma sempre nell’ambito e
alla luce della fede. Myron Rush, nel suo libro “L’arte di essere leader
alla luce della Bibbia” parlando della torre di Babele, sostiene anche la
necessità di “un efficace sistema di comunicazione”. E commenta che, non
avendo i costruttori un fine approvato da
Dio, egli manda in fumo i loro progetti: “Scendiamo dunque e confondiamo la
loro lingua”. Sconvolge il loro sistema di comunicazione. Interrotte le comunicazioni, l’impegno per il progetto e
l’unità del gruppo vanno in frantumi. Chi regge il tutto è lui. Se salta - o
si fa saltare - il piano di Dio a vantaggio
dei progetti personali, tutto il resto si trasforma in vanità, apparenza,
quando non in esibizionismo od ostentazione.
Esattamente
il contrario di quanto succederà a Gerusalemme nell’era nuova. Lo Spirito
“scende” sugli Apostoli. Essi danno inizio all’annuncio e tutti gli
uditori, pur nella moltepicità delle loro lingue, parti, medi, elamiti,
abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e
dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della
Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, ebrei e proseliti, cretesi e arabi,
con loro grande stupore, “li odono annunziare nelle loro lingue le grandi
opere di Dio”.
La
liturgia della Parola del tempo pasquale, quasi tutta estratta dagli Atti, è
stata ricchissima - pur nella semplicità stilistica
della narrazione - nel raccontarci le gesta, anche miracolose,
compiute dagli Apostoli. Nel mercoledì della terza settimana riporta le
pericope in cui è narrata la discesa di Filippo da Gerusalemme “in una città
della Samaria”, dove comincia a predicare
il Cristo. Compie anche miracoli: da “molti” indemoniati uscivano spiriti
immondi, “molti” paralitici e storpi furono risanati. Suggestiva è la
conclusione del brano: “E vi fu grande gioia in quella città”.
Avevano
accolto il messaggio salvifico ed era sbocciato lo slancio, dono dello Spirito.
Tenere
alto il clima non è facile; ma non inattuabile. Vivere ad alta tensione non è
un utopia.
Forse
questo nostro è il momento estremamente bisognoso di rendere personalizzata la
preghiera di Gesù: prego per loro perché tutti, in gergo ormai quasi non più
ammesso, superiori e sudditi, siamo una cosa sola; in altri termini, come la
comunità cristiana dei primi tempi, costruita attorno e sulla Parola, nella
condivisione dei beni; non v’era chi aveva di più o di meno secondo
il piacere o il gusto, o la visione esclusivamente personale,
ma secondo i bisogni di ciascuno; così che nelle nostre comunità si viva la
sororità che è espressione del saperci
tutte convocate dallo stesso Signore. Con una stessa identica idealità
motivante: “Gloria a Dio e pace agli uomini che il Signore ama”.Essere
tutte, come scriveva Pietro nella sua Prima Lettera destinata ai cristiani della
diaspora, quelle pietre vive con cui si costruisce l’edificio spirituale per
un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di
Gesù Cristo.
In
sintesi, come scrive, augurandoselo, suor Marian Ambrosio, dp, sulla rivista
Convergência:
“Essere presenza gratuita del Padre, coraggiosa incarnazione del
Figlio, entusiasmo realista dello Spirito”. Perché è l’amore comunitario,
continua la scrivente, quello che rifonda la nostra consacrazione.
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