n. 10
ottobre 2002

 

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Silenzio: sorgente di comunione?
di Maria Pia Giudici
 

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Un giorno un  certo Rabbi passò davanti alla sinagoga. I suoi discepoli osservarono che, contrariamente a quello che era solito fare, non vi entrò. Gliene chiesero il motivo. Egli disse:

- Non vedete quanto è ingombra?

- Ma no! – replicarono – Sono usciti solo poco fa gli ultimi devoti.

- Il Rabbi rispose:

- Sì, hanno detto parole su parole. Ma poiché la loro preghiera non era maturata nel silenzio e non veniva dal cuore, le parole non andavano oltre il soffitto. E così sono tutte lì, a ingombrare la sinagoga. Io non ci posso entrare.

In effetti, se le parole sono solamente un articolare suoni della voce, non c’è preghiera. E il cuore di Dio non è raggiunto.

  

Urge ritrovare il silenzio

 Nel diventare Chiesa: umanità che ha trovato come dialogare con Dio e coi fratelli, bisogna dunque asserire la necessità del silenzio. Non certo un silenzio che è sostanzialmente mutismo: un tacere apatico, segno del fuoriuscire dalla vita e dalla storia. Tanto meno un silenzio “armato”: dove si congetturano pensieri negativi e si sta sulle difensive, prendendo le distanze dal prossimo col chiudersi nell’arsenale della propria mente giudicante e diffidente.

Nel suo recente documento: “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, il magistero della Chiesa italiana ha affermato: “La Chiesa è casa, edificio, dimora ospitale che va costruita mediante l’educazione a una spiritualità di comunione. Ciò significa far spazio costantemente al fratello, portando ‘i pesi gli uni degli altri’ (Gal 6,2). Ma ciò è possibile solo se, consapevoli di essere peccatori perdonati, guardiamo a tutta la comunità come alla comunione di coloro che il Signore santifica ogni giorno”1.

Nel documento ecclesiale che fortemente ha segnato il magistero di Giovanni Paolo II, leggiamo: “Spiritualità della comunione significa anzitutto sguardo del cuore portato sulla Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto” (NMI 43).

Ecco: è su questo tipo di argomentazioni, che s’innesca il rapporto serio, oggi più che mai urgente, tra indispensabilità di silenzio e vera comunione.

 

 Senza capacità di silenzio: la follia

 Qualche mese fa uno psichiatra scriveva: “Senza capacità di silenzio l’uomo è un folle che si agita per le strade senza sapere dove va e perché si muove” (Vittorio Andreoli).

Nella sua lunga dissertazione, questo pensatore e scienziato denuncia il nostro tipo di società che si perde su strade di confusione sempre più “globale” perché va uccidendo dappertutto il silenzio, perfino – dice – nei monasteri.

Rendersi consapevoli che ciò purtroppo è vero, non significa deprimersi o, per reazione opposta, abbandonarsi alla corsa di un attivismo sfrenato che ci prende nel vortice del “fare” e delle “parole” a svantaggio dell’“essere” e del “comunicare”.

Attenzione! Oggi si parla molto di comunicazione, dell’urgenza e dell’utilità del comunicare. Ma senza contenuti fortemente impregnati di un Amore nato da quella contemplazione che chiede di diventare in noi vita di carità, che cosa comunichiamo? Forse anche a causa di sempre più prestigiosi mezzi tecnologici, la comunicazione avviene, ma spesso a base di uno scintillio a volte quasi psichedelico d’idee aberranti o fredde o comunque incapaci di penetrare nel cuore, di ravvivarlo, di sospingerlo sulle strade della Vita che è Cristo Signore.

 

 C’è un nesso segreto tra silenzio e parole vere

 Il silenzio alimentato dalla Parola di Dio è fucina di idee e comunicazione di ciò che è vivificato al fuoco dello Spirito, dentro una vita guidata dallo Spirito. “Non ci facciamo illusioni: – scrive Giovanni Paolo II nel documento già citato – senza un vero cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (NMI 3).

E dove si radica un vero cammino spirituale se non, anzitutto, nel silenzio? Scrive il Cardinal Carlo Maria Martini: “Se in principio c’era la Parola e dalla Parola di Dio, venuta tra noi, è cominciata la nostra redenzione, è chiaro che, da parte nostra, all’inizio della nostra storia personale di salvezza, ci deve essere il silenzio”2.

E’ nel silenzio, silenzio colmo di attenzione reciproca, che avviene l’incontro tra due che si amano. Non è al mercato che, gli occhi negli occhi, due amanti si cercano. Non è nel chiasso che avviene l’intesa profonda. Così è nel nostro intimo rapporto con Dio. Senza interiorità, senza dimorare con Lui in silenzio, non c’è unione.

In principio di tutto è dunque il silenzio. E se il silenzio è vero, cioè vivo del nostro contemplante sguardo su Colui che ci ama e da cui siamo amati, tutto il resto viene come necessaria conseguenza.

  

Coltivare il silenzio per essere comunità

 L’intesa di una comunità, il dialogo tra sorelle e lo sforzo di crescere nonostante il ritrovarsi spesso diverse nelle idee e nella sensibilità, ha assolutamente bisogno di un fiume sotterraneo: il silenzio contemplativo del cuore di ciascuna e di tutte. Questo è stato sempre vero e la lunga tradizione degli scrittori spirituali ce lo conferma. Oggi però, per il moltiplicarsi dei mezzi d’informazione e di comunicazione e per il prevalere della vita esteriore su quella interiore, c’è una grande inflazione di parole che soppianta il silenzio.

Il 2 marzo 1966, nel suo diario, Thomas Merton denunciava questa “nostra epoca soffocata dalle parole, da dibattiti insensati e inconcludenti in cui, in ultima analisi, nessuno ascolta nulla se non quello che si accorda con i propri pregiudizi.

Eccessiva questa dichiarazione? Comunque è importante fare chiarezza. Spesso il malessere che si vive in certi ambienti comunitari ha questa causa prioritaria: ognuna gira come una trottola dentro il proprio gran “da fare”, ma non è se stessa. Anzi, non sapendo come diventare se stessa  o provando sofferenza per gli inutili sforzi su strade non “assolate” da Cristo-Amore, finisce per cercare lo stordimento di quello che, sulle prime, sembra realizzazione di sé: pseudo apostolato, assistenza sociale, interessi vari.

Naturalmente, dentro questi meccanismi psicologici, ciò che sembra valvola di sicurezza è il girare alla larga dalle sorelle. Cercare comodi sentierini d’individualismo dove, se mai, l’incontro con chi sta fuori della comunità può, sulle prime, gratificare. Il guaio è che la vita sempre più è all’insegna dell’esteriorità e il cuore profondo, il vero “sé” viene esiliato, soffocato.

Etty Hillesum, stupenda giovane ebrea, i cui scritti dal campo di concentramento nazista stanno illuminando molti, scrive: “La nascita di un’autentica autonomia interiore è la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli altri, mai: che gli altri sono altrettanto insicuri, deboli, indifesi. E ancora: “Quando hai una vita interiore, poco importa da quale lato del cancello di un campo di concentramento ti trovi”. Una “vita bella e ricca di significato anche e soprattutto nella nostra epoca (così Etty si esprime) è possibile solo se la persona sta maturando nella propria vita interiore”. Ed è a causa della sua vita interiore che questa giovane è una grande comunicatrice di pace a tutti.

Che cos’è questo maturare per noi se non scoprire gli itinerari del Cantico dei Cantici nel nostro cuore sposato a Dio? E ciò non può avvenire senza spazi di silenzio!

La Parola di Dio, contattata a mo’ di Lectio Divina ogni mattino, non solo orienta su questi percorsi, ma dice – giorno dietro giorno – quello che va approfondito o sfrondato nella propria vita: non appoggiata agli altri, ma a servizio degli altri.

“Abbiate sale in voi e pace tra voi” (Mc 9,50). Il monito di Gesù è un’indicazione precisa per i nostri percorsi comunitari.

  

Sale come sapore di vangelo

 “Sale” è sapore sapienziale alle nostre giornate, viene dal saperci aprire a tutto il messaggio di Gesù, accettando la sfida rivoluzionaria del discorso della montagna. Se lo Sposo è con noi perché gli facciamo spazio negl’indispensabili tempi di silenzio lungo la giornata (almeno al mattino e alla sera), come non avvertiremo che “se amiamo solo quelli che ci amano, siamo come i pagani?”.

Se la Parola dello Sposo, durante la partecipazione all’Eucarestia, viene “assorbita” e poi ruminata nelle “zone rubate” all’invadenza del chiasso durante il giorno, come a poco a poco non percorreremo le vie della vita? Accetteremo allora con gioia di “perdere la nostra falsa vita” gonfia di risentimenti e suscettibilità, di pretese competitive, di attaccamenti indebiti a realtà caduche, per trovare la nostra vita autentica: la profondità del cuore abitato dallo Sposo, illuminato e guidato dallo Spirito Santo e dalla sua pace?

  

Pace tra noi: atmosfera di comunione

 “E abbiate pace tra voi” dice Gesù. Ecco la chiave segreta per entrare in un ambito di comunione. Se la rosa apre i suoi petali al sole, è se stessa. E profuma. Quando tu apri fiduciosa il cuore allo Sposo, sei te stessa. E la sua pace ti abita. Il suo profumo si comunica intorno a te. Proprio di cuori abitati personalmente dalla pace di Dio è fatta la pace tra sorelle che, insieme, cercano il Signore su percorsi di Vangelo, anzi di Beatitudini del Regno.

Non sono le affinità elitarie, il cercarsi per realizzare cose anche buone insieme, schiacciando il pedale della simpatia, del sintonizzare solamente su parametri umani ciò che fa delle nostre comunità degli ambienti di comunione. E’ piuttosto il sedere insieme, nella gioia, al convito del “vino nuovo”, accettando che tutto diventi “nuovo” in me e tra noi: dentro gli “otri nuovi” che sono parametri, mentalità, logiche di Vangelo, senza annacquamento (e avvelenamenti!) del cedere alla mentalità di questo mondo.

 Sale di sapienza evangelica dunque è ciò che fruttifica pace in noi e attorno a noi. Il silenzio è la radice che le acque del pregare la Parola fortificano e fanno sprofondare nella terra del nostro incontro sponsale con Gesù. E il “sale” è ciò che detta al nostro agire anche le potature del caso. Se la mente si educa a un pensare positivo, la calma ci abita e le parole sono quelle che devono essere: pacate e non eccitate, aggressive. Non spilli di provocazioni sottili, non lance di spade di difesa e offesa, non zavorra di inutili notizie perdigiorno.

Le nostre parole saranno di benevolenza di mitezza di comprensione di sintonia con quello che l’altra sta provando, dentro la sua pena o la sua gioia. Parole e atteggiamenti da beati i puri di cuore, beati i miti, beati i misericordiosi, beati quelli che preferiscono essere a volte perseguitati ma non perseguitare; beati, beati! Noi felici già in terra, perché percependoci amate da Te, Signore, non avremo proprio più nulla da chiedere, tanto meno da esigere dagli altri, ma verseremo anzitutto in comunità l’essenza profonda della nostra femminilità: un limpido amore di tenerezza.

 

  Concludendo

Mai da forzate parole, ma proprio dal silenzio fluisce la comunione nelle comunità di quante sono davvero consacrate al Signore. Quando il silenzio è “grembo” della Parola ascoltata e pregata, Gesù nasce dalla persona che, come Maria, ha imparato a custodirlo a lungo nel suo cuore.

E se siamo configurate a Gesù, nel silenzioso ascolto della sua Parola si realizza attraverso i nostri silenzi e le nostre parole, quello che Egli ha invocato: Ti prego, o Padre, perché essi siano in comunione: una cosa sola tra loro come io e Te siamo uno (cf Gv 17,11).

 

1. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 65

2. La dimensione contemplativa della vita II,1

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