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E’ sopravvissuto ai secoli e
sopravviverà, Ulisse, simbolo della insaziabile sete di sapere e di
ricerca dell’uomo. E’ sopravvissuto perché in ognuno di noi c’è un po’
di Ulisse, della sua ansia di scoprire sempre nuovi orizzonti, di
rinnovarci e di andare oltre le colonne d’ Ercole delle nostre giornate
quotidiane, dei nostri piccoli perimetri di vita per aprirci a paesaggi
e a contatti umani più ampi che ci arricchiscano, che ci permettano di
sentirci meno limitati di fronte alle inesauribili meraviglie
dell’universo. E’ un rovello quello dell’eroe di Omero, che per fortuna
cresce con noi, ha momenti intensi nella giovinezza, ma spesso riesce a
mantenersi vivo anche nella maturità.
Ho nel cuore e nella mente tante
persone, molte donne in particolare, che hanno fatto del «tempo del
cercare» la loro abitudine di vita. L’ultima incontrata, una giovane
ragazza torinese, una ragazza “comune” che, spinta dal desiderio di
trovare un senso per la propria vita, è andata in Africa come turista,
vi è tornata una seconda e una terza volta per cercare di capire la
situazione di un’umanità sofferente e crocifissa, le drammatiche
disparità fra il nord e il sud del mondo, poi ha lasciato tutto per
vivere con la gente del Mozambico, accanto alle donne che combattono in
solitudine disperate battaglie di sopravvivenza, mescolata fra gli
abitanti di un bairro dove ogni giorno ha cercato di capire e di
conoscere il volto sempre nuovo di una folla delle beatitudini
dimenticata da tutti. «Perché hai fatto tutto questo, hai lasciato una
vita interessante, un lavoro gratificante, parenti ed amici?» le ho
chiesto. «Perché sentivo di dover dare un senso più profondo alla mia
vita, a quella inquietudine che mi mordeva dentro e che non riuscivo ad
appagare negli orizzonti quotidiani della mia esistenza pur ricca di
tante soddisfazioni e prospettive. Nella mia ricerca ho incontrato
l’Africa e soprattutto nel volto e negli sguardi degli ultimi ho visto
quel Cristo che fino allora mi era sconosciuto».
Laura oggi ha trentatré anni e
ogni mattina ricomincia la sua ricerca. Accanto a quella che è diventata
la sua grande famiglia ha aperto una “Lar da Esperança”, una casa della
speranza, per un centinaio di ragazzi di strada, un berçario, un
nido per accogliere i neonati prematuri, rimasti senza mamma, una casa
per le ragazzine incinte e aiutarle a non abortire, una scuola di
alfabetizzazione per le donne dei villaggi, ha collaborato alla nascita
di un lebbrosario, gestito dagli stessi lebbrosi. E non accenna a
fermarsi.
Nelle lettere che ogni tanto
invia c’è l’annuncio di sempre nuove iniziative che nascono dalle
scoperte continue che fa dei bisogni della gente. Il suo segreto
vincente è questa ricerca continua, mai appagata, che ha trovato i ritmi
giusti che sono quelli del non arrendersi mai, dell’aprirsi senza
risparmi agli altri, del diventare viaggiatori della vita, rabdomanti di
tesori nascosti, investigatori della realtà vicina e lontana. Il tempo
del cercare per Laura è il tempo del camminare con Dio.
Ma per realizzare tutto questo
non è necessario andare in Africa o in paesi lontani. Le “chiamate” alla
Laura o consimili non sono per tutti. Il tempo della ricerca può
realizzarsi fra le quattro pareti della nostra casa, del nostro posto di
lavoro, nel quartiere, nella città. Perché è un tempo interiore, della
mente e del cuore, è una scelta di vita e di comportamento che richiede
coraggio, sacrificio, generosità, ma restituisce in ricchezza umana e
spirituale, intellettuale ed emotiva. Evita il più grande rischio che
una persona può correre, quello di chiudersi nelle proprie certezze e
sicurezze in modo definitivo, rifiutando di aggiornarsi, di rimettersi
in discussione, di confrontarsi con gli altri. Ad aiutarci in questa
investigazione c’è la strada, reale e simbolica, luogo teologico
privilegiato per l’incontro con Cristo il quale l’assunse a coordinata
determinante per la sua missione terrena.
La strada (a cominciare da
quella sotto casa), in quanto via evangelica verso la salvezza, in
quanto verità e vita, è il “campo” dove il nostro cercare trova linfa e
nutrimento, possibilità senza fine per diventare promotori del nostro
destino, contemplato in continua relazione con quello degli altri
compagni di strada.
Ma allora perché affiancare il
cercare con il perdere, come proclama il Qohelet? “C’è un tempo per
perdere” può avere due significati contrapposti: quello della perdita
delle ricchezze umane e spirituali, dei patrimoni conquistati, delle
conoscenze accumulate, delle esperienze fatte, a causa di una recessione
provocata da stanchezze, rinunce, abbandono di una ricerca che costa
comunque fatiche, impegno, scelte rischiose, superamento di frontiere.
Capita a tutti di perdere
qualche pezzo del tesoro che abbiamo accumulato in sentimenti, passioni,
conoscenze e affetti. La vita è una traiettoria a curve e a saliscendi.
L’importante è non lasciarsi sommergere da queste zone grigie dove si
smarrisce l’energia acquisita e cercare aiuto per non disperdere tutto
quanto abbiamo accumulato di bene e di prezioso. Cercare aiuto, a
cominciare da Lui, che conosce bene il momento delle perdita che gli
fece sudare sangue e poi lo tenne sepolto per tre giorni. E che è sempre
pronto a stringerci fra le sue braccia perché quei momenti inevitabili
non siano una sconfitta insopportabile. Si aprano alla speranza.
Ma «il tempo per perdere» può
anche essere quello della verifica, della separazione, del patrimonio
che abbiamo accumulato e che continuiamo ad accumulare, di ciò che vale
veramente portare con noi e di ciò che può essere abbandonato per
permetterci di arrivare sulla cima. Come capita agli alpinisti che, a
volte, quando si approssima la vetta, sono costretti per raggiungerla ad
abbandonare parte del loro bagaglio. Ma può anche essere quello della
perdita di noi stessi e dei nostri privilegi, delle nostre sicurezze e
dei nostri piccoli e grandi beni, per essere, senza ipocrisie e
soprattutto con tanto amore, totale disponibilità, vicini a coloro che
vivono sempre in perdita. Per sorte, per mutate condizioni di vita, per
accidenti vari.
Laura, la mia
giovane conterranea, ormai africana, pratica insieme al tempo della
ricerca quello della perdita, privandosi di tutto quanto potrebbe farla
sentire lontana o superiore o privilegiata nei confronti dei suoi nuovi
amici che non hanno nulla di nulla.
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