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La ragion d’essere della vita
religiosa non consiste unicamente né principalmente nell’essere segno
del Regno futuro. Non è soltanto pura e semplice testimonianza di una
vita ‘oltre’. Essa da sempre ha rappresentato uno stile di vita che è in
se stesso contestazione a qualcosa che nella società è assente. E’
presenza che esprime, o dovrebbe esprimere, quello che qui e ora, in
vista della costruzione del Regno, è mancante. E l’autentico dramma per
religiosi e religiose sarà sempre quello dell’omogolazione: seguire la
corrente, adattarsi all’ambiente e aver timore di presentare un volto
proprio, diverso. Ci domandiamo pertanto quali valori oggi sono stati
esiliati dalla società e ai quali la vita religiosa deve ridare la
giusta importanza nel situarsi sul territorio. Scopriremo così quali
sono le sfide che il nostro stile di vita deve affrontare nel contesto
liberale in cui ci troviamo, nostro malgrado, immersi.
In una civiltà di forte
antagonismo, con mondi in continuo contrasto, nord-sud, uomo-donna,
sviluppo-natura, ammessi-esclusi, umano-divino, i religiosi e le
religiose hanno una funzione unitiva. Sono chiamati a essere ponte,
artefici e testimoni di progetti di comunione, soprattutto dando vita al
dialogo con chi vive ai margini e intessendo comunicazione con chi è
diverso. In un mondo dove facilmente è forte la concorrenza per il
potere, e dove la gratuità del servizio è stata estromessa, essi sono
chiamati a essere testimoni di relazione solidale. In un mondo in cui
giustizia e disuguaglianza si scontrano con relazioni egoistiche,
competitive, discriminanti, utilitaristiche, dovranno essere testimoni
di relazioni gratuite, da pari a pari, servizievoli, solidali.
In un mondo in cui le esigenze e
i bisogni si trasformano in consumismo ingiusto e schiavizzante, essi
sono chiamati a uscire dalle loro futilità e andare là dove li porta il
cuore.
La legge del mercato sta
sfornando uomini fatti a norma della legge della selva. E ci ritroviamo
con uomini e donne, religiosi/e, alla ricerca del successo personale,
aggressivi, insicuri, disorientati. Persone senza ideali, senza speranze
né utopie, che cercano comodità e sicurezze e che vivono la loro vita
senza motivazioni valide. Il mercato risecca il loro cuore. Insegna a
competere, a calcolare; ma non a essere persone, soprattutto persone
creative. La nostra società è segnata da un modo di pensare, sentire e
agire affetto da individualismo che si presenta con forti tentacoli
nell’economia (neoliberismo), nella politica (nazionalismo), nella
cultura (autonomia individuale). L’uomo moderno vive in funzione di se
stesso.
Di fronte a questa apologia
dell’individuo, i religiosi devono saper anteporre la logica della
relazione. La vita consacrata deve diventare “casa e scuola di
comunione”. L’essere della vita consacrata ha il suo punto forte nella
qualità della vita comunitaria.
I consacrati, provocati
dall’ambiente socioculturale in cui vivono e possono essere tentati di
seguirne le tracce. Perciò può essere utile, se non necessario,
possederne una certa conoscenza. Classifichiamo queste situazioni come
“rifugi”, ossia luoghi in cui si è tentati di nascondersi per vivere a
proprio agio.
Il rifugio nella tirannia
della superficialità e dell’azione
E’ abbastanza facile rifugiarsi
nell’effimero, nell’inconsistenza, nell’apatia di una vita assicurata,
senza rischi, nella routine del “si è sempre fatto così”. Sentiamo la
tentazione di abbandonare l’utopia a vantaggio del reale e dell’utile. E
ci sentiamo spinti dalla necessità di accettare quanto ci si presenta
come inevitabile. E’ la più grande conquista del neoliberismo. Ne segue
che la speranza svanisce, si dilegua e con essa anche il sapore
evangelico proprio di uno stile di vita che si deve caratterizzare da
valori alti e da impegni definitivi.
Siamo allora invitati a
riorganizzare la speranza, a guardare alla vita religiosa nella
prospettiva della fedeltà e non soltanto a partire da quanto abbiamo
promesso noi, ma piuttosto da quanto ci è stato promesso. La fedeltà ci
porta a guardare la vita nella prospettiva di Dio, che è capace di fare
della nostra fragilità un cammino di fedeltà.
L’ideale espresso nelle parole
“fedeltà creativa” evoca una fedeltà non tanto al passato ereditato,
quanto al futuro. La fedeltà è più sinonimo di coraggio, vigore,
immaginazione, audacia che non di paura, timore, routine, ripetizione.
Qui è messa in questione la nostra fede come fedeltà a Dio e all’umanità
nel presente della storia.
Una domanda: i religiose e le
religiose crediamo veramente nel Dio di Gesù Cristo? Ci consegniamo con
fiducia allo Spirito del Signore che fa nuove tutte le cose?
Il futuro più che uno spazio di
timori, è una possibilità di vita di fede, che immette nell’esperienza
della vita in Dio. Questa fede è necessaria come il pane quotidiano. Ma
richiede la rinuncia a quella armonia tranquilla che porta a vivere nel
letargo della consuetudine.
Oggi più di prima, le comunità
hanno bisogno di animatori e di animatrici, totalmente inserite nella
comunità, che sappiano contagiare ad altri il proprio coraggio. Che
posseggano la forza propria degli audaci, anche perché sanno discernere
le debolezze tipiche degli scoraggiati.
Il rifugio nella mediocrità
Stiamo volando al ribasso, raso
terra. Il poco ci basta. Sentiamo forte la tentazione di vivere senza
illusioni, o ciò attenua la creatività; non si crede sempre nello stile
di vita che si professa. Il problema vero, infatti, sta nello stile di
vita, ossia nella distanza o prossimità che esiste tra i valori che si
professano e la realtà che si vive. Qui affonda le sue radici la
mancanza di senso o di sapore evangelico di nostre comunità, installate
nella mediocrità.
In Oriente il peccato è inteso
non tanto come trasgressione di una legge, quanto come una debolezza
dello spirito; come incapacità di amare e di agire, di porsi al
servizio, come carenza di vitalità e di coraggio… Per questo il perdono
dei peccati significherà recupero della salute, ritorno alla vitalità,
all’energia dell’amore, all’esperienza dello Spirito.
Nella vita consacrata oggi i
veri problemi non consistono tanto nell’invecchiamento, nella mancanza
di vocazioni, nel venir meno della presenze… Il vero problema consiste
nel fatto che il nostro stile di vita non rivela chiaramente la sequela
di Cristo. Siamo seguaci di Gesù di basso profilo. La tiepidezza
camuffata come prudenza o realismo è il nostro vero peccato attuale.
Dobbiamo vivere con passione,
convertirci in uomini e donne appassionati per quel Dio che si è
appassionato per questo nostro mondo per trasformarlo in regno suo. Il
consacrato apatico è un uomo fallito. Non possiamo vivere come
religiosi/e senza incarnare le grandi passioni evangeliche: che la
giustizia e la pace si bacino, che ogni uomo e ogni donna vivano in
pienezza, che la fraternità nelle nostre comunità serva da spinta verso
missioni coraggiose. Sarà necessario pertanto incarnare uno stile di
vita cristianamente dinamico e nel quale la parola diventa vita.
Per decenni ci siamo preoccupati
della ricerca di chiarezze e questo è sbocciato nella elaborazione di
documenti pregevoli. E’ giunta l’ora di porre l’accento sul dinamismo,
sulla vivacità dello spirito. Ciò significa innanzitutto che siamo
chiamati a vivere con entusiasmo quel poco sul quale abbiamo chiarezza e
certezze. Il futuro ci regalerà il dono di camminare su sentieri di
rifondazione della vita consacrata.
Il
rifugio nello sguardo sul passato
Quando le Congregazioni
guardano solo a se stesse, con il terrore di perdere la propria
identità, diventano conservatrici e reazionarie. Guardano al passato e a
nulla più. Spesso si ripensano le origini con il solo obiettivo di
rafforzarne la lettura e la ripetizione. Si pensa al carisma con affanno
storicista, centrato sullo studio dei testi, con l’unica finalità di
scrivere e raccontare le storie di ieri. Rischiamo così di porci in
atteggiamenti difensivi, aggrappati in modo narcisista alla propria
identità di istituto. Viviamo il carisma in modelli vecchi; ci sentiamo
legati a quanto è stato ereditato, ancorati su nostalgie di tempi
passati, attenti a redigere biografie, celebrare centenari, proporre,
forse, canonizzazioni…
Nel parlare del carisma di una
famiglia religiosa dobbiamo ripensare all’esperienza di fede dei
fondatori o fondatrici, alla vitalità e all’energia del tempo degli
inizi. Ripetiamo con forza che la fedeltà al carisma fondazionale è
questione più del futuro che del passato. Se davvero siamo preoccupati
dell’incarnazione del carisma, siamo protesi verso il futuro. Se non
siamo capaci di incarnarne la forza nel contesto della realtà in cui
viviamo, il carisma sarà sterile e infecondo. Più che dall’affanno della
difesa dell’identità, ci dobbiamo caratterizzare per l’inquietudine e il
desiderio di costruirla e rifletterla attorno a noi.
Concretamente nostro dovere è
favorire tutto ciò che profuma di desiderio di rinnovamento tanto nella
formazione, come nel lavoro apostolico, nella vita comunitaria, onde
poterci aprire alla novità dell’incontro con Dio e alla ricerca
comunitaria con i fratelli o le sorelle.
Il rifugio in comunità
terapeutiche
Il cammino del rinnovamento
iniziato a partire dal Concilio Vaticano II per molte comunità ha avuto
come intento primo quello della realizzazione personale e così ha posto
in secondo piano o addirittura ai margini l’urgenza missionaria
dell’annuncio. La comunità si è trasformata in luogo di rifugio e non di
sostegno per la vita e la missione. In alcune comunità sembra quasi che
le esigenze individuali siano diventate il paradigma di ogni scelta. In
esse vige uno stile di vita che concretamente dimostra come la comunità
esiste soltanto in vista dei propri interessi, il “ben-essere” degli
individui. Si vive e si respira una forte dipendenza dall’affermazione
di sé. Sono vere e proprie comunità terapeutiche, centrate su se stesse;
pongono in secondo piano il principio della sussidiarietà, della
responsabilità, della evangelizzazione.
Non possiamo e non dobbiamo
dimenticare che sempre e comunque ogni forma di vita religiosa è
apostolica; non esiste per se stessa; non è in funzione di se stessa. La
sua ragion d’essere è il Regno, la passione per Dio e questa deve essere
così forte da informare di sé le relazioni umane in modo tale che
richiamino e siano un riverbero della comunione trinitaria. La comunità
religiosa o è comunità di fede e di missione o non ha ragion d’essere.
Le comunità che vivono solo per se stesse non hanno una finalità
giustificativa e diventano un agglomerato di persone. L’unica via,
infatti, per minimizzare i drammi è essere capaci di immettersi nelle
tragedie dell’umanità e vivere per gli interessi di Dio, della Chiesa,
del mondo. La sfida di questo XXI secolo è quella dell’impegno effettivo
nella costruzione di un progetto di vita che risponda al contesto
sociale e culturale in cui si è inseriti.
Il
rifugio nel professionismo, nelle opere e nelle attività
Anche questo stile di vita è
espressione dell’individualismo e può minacciare le comunità religiose.
Si vive alla mercé del fare. E il molto fare non è necessariamente segno
di una missione viva e vivace. Forse inconsciamente rispondiamo a ciò
che la società vuole e che istituzioni ecclesiastiche attendono dalla
vita religiosa.
Nella società odierna, infatti,
l’economia si muove con le sole categorie del rendimento e
dell’efficienza. Gli interessi vertono sull’utile, su ciò che incrementa
il valore economico. Il valore della persona viene ridimensionato sulla
pura rendita. Così che essere bambino può costituire un pericolo; essere
anziano una disgrazia. Per la gratuità non c’è spazio. Gli stessi
religiosi possono essere accolti e valorizzati per ciò che fanno, non
tanto per ciò che sono.
Immerse in questa atmosfera,
forse senza avvedersene, alcune comunità stanno disperatamente cercando
il proprio ruolo nella società immergendosi nelle opere. Eppure…
l’identità della persona consacrata non consiste in ciò che ella fa,
perché non vi sono attività specifiche proprie della vita consacrata, ma
nel modo, nello stile, nelle finalità con cui e per cui opera. La fede,
la passione per Dio che si trasforma in passione per gli uomini: questi
sono i valori-punti d’appoggio dello stesso essere della vita
consacrata. Quando l’accento è posto sul fare, con facilità si arriva a
identificare la missione con le opere che si compiono e la loro
organizzazione.
Nonostante il nostro attivismo
sfrenato e le nostre mega-campagne vocazionali non riusciamo a
raccogliere i frutti desiderati. Non sarà che questo attivismo scatenato
nasconde la perdita di identità contemplativa? E se non siamo
contemplativi, ciò che facciamo non sarà mai un segno credibile ed
efficace.
La vita consacrata, mossa dallo
Spirito, ci chiede apertura e docilità a questo stesso Spirito. Si
formeranno allora comunità dove si darà importanza alla gratuità, alla
contemplazione, alla semplicità, alla fraternità. Questi valori sono
quel lievito che trasforma la massa, sono il sale che da sapore
autentico. Sale e lievito trovano facilmente la loro sede nell’essere
più che nel fare.
Con la spiritualità profetica
del piccolo resto siamo chiamati a essere testimonianza della debolezza
di Dio. Una vita religiosa, quindi, senza gloria, minoritaria, che
accompagna il popolo nel suo andare verso il Regno. Abbiamo di fronte a
noi la sfida di essere testimoni del Signore e non meri funzionari del
vangelo. La vita religiosa non può limitarsi a essere notizia verbale;
deve convertirsi in notizia vivente. Non professionismo, ma esperienza
di Dio: solo questa costituisce la fonte che alimenta la nostra
identità. Essere religioso è possedere una vita, non semplicemente un
impiego.
Il
rifugio in spazi di pace, lontano dai conflitti della società
Altro problema della vita
religiosa oggi è il suo distacco dalla realtà sociale. Viviamo troppo
staccati, nei nostri rifugi, insensibili a quanto la società sta vivendo
senza la nostra partecipazione. Proviamo la tentazione di rifugiarci nel
tempio, come il sacerdote o il levita della parabola del buon
samaritano: assenti ed estranei.
Viviamo con l’illusione che il
santuario reale delle nostra città sia ancora la cattedrale… Invece i
nostri templi, le preghiere, le offerte, i riti, i simboli… sono
sostituiti dal mercato, dalla competenza, dalla forza, dall’immagine,
dallo spettacolo. Gli uomini oggi hanno di fronte a sé il potere, frutto
degli interessi economici. L’economia è la piattaforma su cui si gioca
oggi la vita. I valori economici costituiscono il punto di riferimento
in tutto e per tutto. Si valutano le esperienze senza passarle al vaglio
della critica. Il metro di misura è il sentimento, il “mi piace”, o il
“mi sento”, la sensazione immediata, istantanea. Tanto è vero che oggi
spuntano qua e là con molta frequenza movimenti che portano a vivere in
spazi di pace, di quiescenza. Danno somma importanza all’interiorità,
alla sacralità, alle attività religiose. Cercano nel culto il luogo del
riposo e della tranquillità e non sono capaci di compiere gesti
socialmente utili. Questi movimenti negli ultimi decenni sono entrati
nella stessa Chiesa. Se ci lasciamo abbagliare, lo spiritualismo
potrebbe risultare un’autentica tentazione per la vita religiosa.
La fuga mundi potrebbe essere
interpretata come un rinchiudersi comodamente all’interno della
comunità, senza alcun interesse per le sofferenze altrui, con patente
incapacità di partecipazione con chi soffre violenza di ogni specie. Le
nostre case, alcune molto grandi, ora sono attorniate da palazzi,
uffici, banche, negozi… e questo facilita la separazione dalla gente,
ormai lontana anche logisticamente. Per questo è opportuno aprire le
case, facendole diventare centri di preghiera, di fraternità, di
vicinanza, di comunione, di conoscenza reciproca. Il mondo deve essere
al centro delle nostre preoccupazioni, dei nostri studi, delle nostre
analisi, della nostra preghiera. Le comunità più aperte e vicine alla
gente sogliono essere anche più vivaci nella preghiera, nella
convivenza, nello zelo, nella solidarietà.
Il
rifugio nella parola
Discorsi e documenti oggi non
convincono più di tanto; suscitano sentimenti, ma non portano a cambi
nello stile di vita. E’ il rifugio in un fondamentalismo etico-verbale:
la parola non si incarna nella storia reale.
Quando nelle comunità si cerca
soprattutto l’ordine e la stabilità, quando si vive sulla difensiva per
poter sopravvivere in tanta confusione, allora facilmente ci si
rinchiude in poche idee più etiche che dogmatiche senza alcuna visione
di futuro. E’ la situazione delle persone insicure. Per questo si impone
l’invigorimento di una formazione teologica profonda, in modo che si
possa effettivamente porre la sicurezza nel Dio di Gesù Cristo. Sarebbe
il frutto dell’esperienza dello Spirito nella propria vita.
Il moralismo è sempre stato e
continua a essere un pericolo nella vita religiosa. Dimostra che lo
stile di vita si appoggia sulla norma, anziché sul progetto. Ciò suppone
una mentalità volontaristica, senza sbocco nella vita reale. Il discorso
verte su valori teorici, e che possono suscitare emozioni e sentimenti,
senza coinvolgimento nella vita concreta. Incapace di fermarsi sul
presente, normalmente è inefficace, non scuote, non incide. Il lavoro,
la solidarietà, la gratuità, sono belle idee ma non coinvolgono la vita
concreta.
Eppure nelle nostre istituzioni
esistono documenti belli e impegnativi. Per questo è necessario calarli
nella vita concreta; urge che i documenti facciano il passaggio dalla
testa al cuore e da qui alle mani. E’ opportuno ricordare che la
distanza che separa la mente dal cuore è più lunga di quanto possa
sembrare. Di fronte a documenti splendidi esiste il pericolo di
confondere i desideri con le realizzazioni, la proclamazione delle
nostre opzioni con la loro concretizzazione. Respiriamo aria e desideri
di rifondazione e non scarseggiano idee nuove. Si tratta di vedere come
trasformarle in realtà, quali passi dobbiamo compiere come persone e
come comunità. Saper cosa fare è sapienza, saper come farlo è arte;
farlo è virtù. Nella vita religiosa abbiamo bisogno di saggi, di
artisti, ma innanzitutto di gente virtuosa, uomini e donne disposti a
vivere comunitariamente il contenuto dei documenti elaborati.
Conclusione
Siamo coscienti che non risulta
facile per nessuno orientare uno sguardo penetrante sulla società. Più
che in altri tempi ci troviamo disorientati. Se viviamo staccati, essa
diventa per noi muta e incomprensibile. Per questo una grossa sfida per
noi oggi è credere in questo momento della storia, in questo mondo,
anche se non riusciamo a comprenderlo. Del resto i tempi incerti e
confusi sono favorevoli alle nostalgie, e queste ci spingono a camminare
dietro la storia e non dentro di essa; come gli ebrei, sulle sponde del
fiume di Babilonia quando ricordavano gli splendori del passato.
Vogliamo fare nostra la
preghiera del cieco di Gerico: Signore, che io veda, per poter
accogliere lo Spirito presente in queste nostre situazioni.
Lo stile di vita dei religiosi e
delle religiose deve essere configurato dalla mistica degli occhi
aperti, ossia da quella capacità seria, non ingenua, che aiuta a vedere
e capire le cose come sono. Il vangelo testimonia che soltanto
spiritualità forti, radicate nell’esperienza e nella vita dei poveri,
saranno alternative vere e durature nel cammino della rifondazione.
Dobbiamo lasciare che la nostra vita sia orientata e guidata dalla
misericordia; dobbiamo guardare il mondo nella prospettiva della
misericordia, così come lo guarda Dio. Questo è il paradigma della vita
religiosa oggi.
Essa deve formare un gruppo
compatto di donne e di uomini che si muova nel campo della relazione,
della convivenza, del rispetto; della pace, dell’incontro come
espressione di tenerezza; che sappia esprimersi con competenza su
ecologia ed ecumenismo; che faciliti una religiosità festiva e gioiosa.
Il nostro Dio è il Dio della vita e della gioia.
Essere religiosa/o oggi comporta
incarnare uno stile di vita che sia segno di una cultura planetaria.
L’uomo e la donna consacrati sono il luogo teologico del dialogo e
dell’incontro, di relazione e non di divisione, di fraternità, di
carisma e di significanza.*
* L’articolo è stato
ripreso dalla rivista TESTIMONIO, Cile n. 9/2001
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