n. 11
novembre 2002

 

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Vita religiosa e società: sfide e proposte
di Carlos Del Valle
 

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La ragion d’essere della vita religiosa non consiste unicamente né principalmente nell’essere segno del Regno futuro. Non è soltanto pura e semplice testimonianza di una vita ‘oltre’. Essa da sempre ha rappresentato uno stile di vita che è in se stesso contestazione a qualcosa che nella società è assente. E’ presenza che esprime, o dovrebbe esprimere, quello che qui e ora, in vista della costruzione del Regno, è mancante. E l’autentico dramma per religiosi e religiose sarà sempre quello dell’omogolazione: seguire la corrente, adattarsi all’ambiente e aver timore di presentare un volto proprio, diverso. Ci domandiamo pertanto quali valori oggi sono stati esiliati dalla società e ai quali la vita religiosa deve ridare la giusta importanza nel situarsi sul territorio. Scopriremo così quali sono le sfide che il nostro stile di vita deve affrontare nel contesto liberale in cui ci troviamo, nostro malgrado, immersi.

In una civiltà di forte antagonismo, con mondi in continuo contrasto, nord-sud, uomo-donna, sviluppo-natura, ammessi-esclusi, umano-divino, i religiosi e le religiose hanno una funzione unitiva. Sono chiamati a essere ponte, artefici e testimoni di progetti di comunione, soprattutto dando vita al dialogo con chi vive ai margini e intessendo comunicazione con chi è diverso. In un mondo dove facilmente è forte la concorrenza per il potere, e dove la gratuità del servizio è stata estromessa, essi sono chiamati a essere testimoni di relazione solidale. In un mondo in cui giustizia e disuguaglianza si scontrano con relazioni egoistiche, competitive, discriminanti, utilitaristiche, dovranno essere testimoni di relazioni gratuite, da pari a pari, servizievoli, solidali.

In un mondo in cui le esigenze e i bisogni si trasformano in consumismo ingiusto e schiavizzante, essi sono chiamati a uscire dalle loro futilità e andare là dove li porta il cuore.

La legge del mercato sta sfornando uomini fatti a norma della legge della selva. E ci ritroviamo con uomini e donne, religiosi/e, alla ricerca del successo personale, aggressivi, insicuri, disorientati. Persone senza ideali, senza speranze né utopie, che cercano comodità e sicurezze e che vivono la loro vita senza motivazioni valide. Il mercato risecca il loro cuore. Insegna a competere, a calcolare; ma non a essere persone, soprattutto persone creative. La nostra società è segnata da un modo di pensare, sentire e agire affetto da individualismo che si presenta con forti tentacoli nell’economia (neoliberismo), nella politica (nazionalismo), nella cultura (autonomia individuale). L’uomo moderno vive in funzione di se stesso.

Di fronte a questa apologia dell’individuo, i religiosi devono saper anteporre la logica della relazione. La vita consacrata deve diventare “casa e scuola di comunione”. L’essere della vita consacrata ha il suo punto forte nella qualità della vita comunitaria.

I consacrati, provocati dall’ambiente socioculturale in cui vivono e possono essere tentati di seguirne le tracce. Perciò può essere utile, se non necessario, possederne una certa conoscenza. Classifichiamo queste situazioni come “rifugi”, ossia luoghi in cui si è tentati di nascondersi per vivere a proprio agio.

  

Il rifugio nella tirannia della superficialità e dell’azione

 E’ abbastanza facile rifugiarsi nell’effimero, nell’inconsistenza, nell’apatia di una vita assicurata, senza rischi, nella routine del “si è sempre fatto così”. Sentiamo la tentazione di abbandonare l’utopia a vantaggio del reale e dell’utile. E ci sentiamo spinti dalla necessità di accettare quanto ci si presenta come inevitabile. E’ la più grande conquista del neoliberismo. Ne segue che la speranza svanisce, si dilegua e con essa anche il sapore evangelico proprio di uno stile di vita che si deve caratterizzare da valori alti e da impegni definitivi.

Siamo allora invitati a riorganizzare la speranza, a guardare alla vita religiosa nella prospettiva della fedeltà e non soltanto a partire da quanto abbiamo promesso noi, ma piuttosto da quanto ci è stato promesso. La fedeltà ci porta a guardare la vita nella prospettiva di Dio, che è capace di fare della nostra fragilità un cammino di fedeltà.

L’ideale espresso nelle parole “fedeltà creativa” evoca una fedeltà non tanto al passato ereditato, quanto al futuro. La fedeltà è più sinonimo di coraggio, vigore, immaginazione, audacia che non di paura, timore, routine, ripetizione. Qui è messa in questione la nostra fede come fedeltà a Dio e all’umanità nel presente della storia.

Una domanda: i religiose e le religiose crediamo veramente nel Dio di Gesù Cristo? Ci consegniamo con fiducia allo Spirito del Signore che fa nuove tutte le cose?

Il futuro più che uno spazio di timori, è una possibilità di vita di fede, che immette nell’esperienza della vita in Dio. Questa fede è necessaria come il pane quotidiano. Ma richiede la rinuncia a quella armonia tranquilla che porta a vivere nel letargo della consuetudine.

Oggi più di prima, le comunità hanno bisogno di animatori e di animatrici, totalmente inserite nella comunità, che sappiano contagiare ad altri il proprio coraggio. Che posseggano la forza propria degli audaci, anche perché sanno discernere le debolezze tipiche degli scoraggiati.

  

Il rifugio nella mediocrità

 Stiamo volando al ribasso, raso terra. Il poco ci basta. Sentiamo forte la tentazione di vivere senza illusioni, o ciò attenua la creatività; non si crede sempre nello stile di vita che si professa. Il problema vero, infatti, sta nello stile di vita, ossia nella distanza o prossimità che esiste tra i valori che si professano e la realtà che si vive. Qui affonda le sue radici la mancanza di senso o di sapore evangelico di nostre comunità, installate nella mediocrità.

In Oriente il peccato è inteso non tanto come trasgressione di una legge, quanto come una debolezza dello spirito; come incapacità di amare e di agire, di porsi al servizio, come carenza di vitalità e di coraggio… Per questo il perdono dei peccati significherà recupero della salute, ritorno alla vitalità, all’energia dell’amore, all’esperienza dello Spirito.

Nella vita consacrata oggi i veri problemi non consistono tanto nell’invecchiamento, nella mancanza di vocazioni, nel venir meno della presenze… Il vero problema consiste nel fatto che il nostro stile di vita non rivela chiaramente la sequela di Cristo. Siamo seguaci di Gesù di basso profilo. La tiepidezza camuffata come prudenza o realismo è il nostro vero peccato attuale.

Dobbiamo vivere con passione, convertirci in uomini e donne appassionati per quel Dio che si è appassionato per questo nostro mondo per trasformarlo in regno suo. Il consacrato apatico è un uomo fallito. Non possiamo vivere come religiosi/e senza incarnare le grandi passioni evangeliche: che la giustizia e la pace si bacino, che ogni uomo e ogni donna vivano in pienezza, che la fraternità nelle nostre comunità serva da spinta verso missioni coraggiose. Sarà necessario pertanto incarnare uno stile di vita cristianamente dinamico e nel quale la parola diventa vita.

Per decenni ci siamo preoccupati della ricerca di chiarezze e questo è sbocciato nella elaborazione di documenti pregevoli. E’ giunta l’ora di porre l’accento sul dinamismo, sulla vivacità dello spirito. Ciò significa innanzitutto che siamo chiamati a vivere con entusiasmo quel poco sul quale abbiamo chiarezza e certezze. Il futuro ci regalerà il dono di camminare su sentieri di rifondazione della vita consacrata.

 

 Il rifugio nello sguardo sul passato

 Quando le Congregazioni guardano solo a se stesse, con il terrore di perdere la propria identità, diventano conservatrici e reazionarie. Guardano al passato e a nulla più. Spesso si ripensano le origini con il solo obiettivo di rafforzarne la lettura e la ripetizione. Si pensa al carisma con affanno storicista, centrato sullo studio dei testi, con l’unica finalità di scrivere e raccontare le storie di ieri. Rischiamo così di porci in atteggiamenti difensivi, aggrappati in modo narcisista alla propria identità di istituto. Viviamo il carisma in modelli vecchi; ci sentiamo legati a quanto è stato ereditato, ancorati su nostalgie di tempi passati, attenti a redigere biografie, celebrare centenari, proporre, forse, canonizzazioni…

Nel parlare del carisma di una famiglia religiosa dobbiamo ripensare all’esperienza di fede dei fondatori o fondatrici, alla vitalità e all’energia del tempo degli inizi. Ripetiamo con forza che la fedeltà al carisma fondazionale è questione più del futuro che del passato. Se davvero siamo preoccupati dell’incarnazione del carisma, siamo protesi verso il futuro. Se non siamo capaci di incarnarne la forza nel contesto della realtà in cui viviamo, il carisma sarà sterile e infecondo. Più che dall’affanno della difesa dell’identità, ci dobbiamo caratterizzare per l’inquietudine e il desiderio di costruirla e rifletterla attorno a noi.

Concretamente nostro dovere è favorire tutto ciò che profuma di desiderio di rinnovamento tanto nella formazione, come nel lavoro apostolico, nella vita comunitaria, onde poterci aprire alla novità dell’incontro con Dio e alla ricerca comunitaria con i fratelli o le sorelle.

 

Il rifugio in comunità terapeutiche

 Il cammino del rinnovamento iniziato a partire dal Concilio Vaticano II per molte comunità ha avuto come intento primo quello della realizzazione personale e così ha posto in secondo piano o addirittura ai margini l’urgenza missionaria dell’annuncio. La comunità si è trasformata in luogo di rifugio e non di sostegno per la vita e la missione. In alcune comunità sembra quasi che le esigenze individuali siano diventate il paradigma di ogni scelta. In esse vige uno stile di vita che concretamente dimostra come la comunità esiste soltanto in vista dei propri interessi, il “ben-essere” degli individui. Si vive e si respira una forte dipendenza dall’affermazione di sé. Sono vere e proprie comunità terapeutiche, centrate su se stesse; pongono in secondo piano il principio della sussidiarietà, della responsabilità, della evangelizzazione.

Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che sempre e comunque ogni forma di vita religiosa è apostolica; non esiste per se stessa; non è in funzione di se stessa. La sua ragion d’essere è il Regno, la passione per Dio e questa deve essere così forte da informare di sé le relazioni umane in modo tale che richiamino e siano un riverbero della comunione trinitaria. La comunità religiosa o è comunità di fede e di missione o non ha ragion d’essere. Le comunità che vivono solo per se stesse non hanno una finalità giustificativa e diventano un agglomerato di persone. L’unica via, infatti, per minimizzare i drammi è essere capaci di immettersi nelle tragedie dell’umanità e vivere per gli interessi di Dio, della Chiesa, del mondo. La sfida di questo XXI secolo è quella dell’impegno effettivo nella costruzione di un progetto di vita che risponda al contesto sociale e culturale in cui si è inseriti.

 

 Il rifugio nel professionismo, nelle opere e nelle attività

 Anche questo stile di vita è espressione dell’individualismo e può minacciare le comunità religiose. Si vive alla mercé del fare. E il molto fare non è necessariamente segno di una missione viva e vivace. Forse inconsciamente rispondiamo a ciò che la società vuole e che istituzioni ecclesiastiche attendono dalla vita religiosa.

Nella società odierna, infatti, l’economia si muove con le sole categorie del rendimento e dell’efficienza. Gli interessi vertono sull’utile, su ciò che incrementa il valore economico. Il valore della persona viene ridimensionato sulla pura rendita. Così che essere bambino può costituire un pericolo; essere anziano una disgrazia. Per la gratuità non c’è spazio. Gli stessi religiosi possono essere accolti e valorizzati per ciò che fanno, non tanto per ciò che sono.

Immerse in questa atmosfera, forse senza avvedersene, alcune comunità stanno disperatamente cercando il proprio ruolo nella società immergendosi nelle opere. Eppure… l’identità della persona consacrata non consiste in ciò che ella fa, perché non vi sono attività specifiche proprie della vita consacrata, ma nel modo, nello stile, nelle finalità con cui e per cui opera. La fede, la passione per Dio che si trasforma in passione per gli uomini: questi sono i valori-punti d’appoggio dello stesso essere della vita consacrata. Quando l’accento è posto sul fare, con facilità si arriva a identificare la missione con le opere che si compiono e la loro organizzazione.

Nonostante il nostro attivismo sfrenato e le nostre mega-campagne vocazionali non riusciamo a raccogliere i frutti desiderati. Non sarà che questo attivismo scatenato nasconde la perdita di identità contemplativa? E se non siamo contemplativi, ciò che facciamo non sarà mai un segno credibile ed efficace.

La vita consacrata, mossa dallo Spirito, ci chiede apertura e docilità a questo stesso Spirito. Si formeranno allora comunità dove si darà importanza alla gratuità, alla contemplazione, alla semplicità, alla fraternità. Questi valori sono quel lievito che trasforma la massa, sono il sale che da sapore autentico. Sale e lievito trovano facilmente la loro sede nell’essere più che nel fare.

Con la spiritualità profetica del piccolo resto siamo chiamati a essere testimonianza della debolezza di Dio. Una vita religiosa, quindi, senza gloria, minoritaria, che accompagna il popolo nel suo andare verso il Regno. Abbiamo di fronte a noi la sfida di essere testimoni del Signore e non meri funzionari del vangelo. La vita religiosa non può limitarsi a essere notizia verbale; deve convertirsi in notizia vivente. Non professionismo, ma esperienza di Dio: solo questa costituisce la fonte che alimenta la nostra identità. Essere religioso è possedere una vita, non semplicemente un impiego.

 

 Il rifugio in spazi di pace, lontano dai conflitti della società

 Altro problema della vita religiosa oggi è il suo distacco dalla realtà sociale. Viviamo troppo staccati, nei nostri rifugi, insensibili a quanto la società sta vivendo senza la nostra partecipazione. Proviamo la tentazione di rifugiarci nel tempio, come il sacerdote o il levita della parabola del buon samaritano: assenti ed estranei.

Viviamo con l’illusione che il santuario reale delle nostra città sia ancora la cattedrale… Invece i nostri templi, le preghiere, le offerte, i riti, i simboli… sono sostituiti dal mercato, dalla competenza, dalla forza, dall’immagine, dallo spettacolo. Gli uomini oggi hanno di fronte a sé il potere, frutto degli interessi economici. L’economia è la piattaforma su cui si gioca oggi la vita. I valori economici costituiscono il punto di riferimento in tutto e per tutto. Si valutano le esperienze senza passarle al vaglio della critica. Il metro di misura è il sentimento, il “mi piace”, o il “mi sento”, la sensazione immediata, istantanea. Tanto è vero che oggi spuntano qua e là con molta frequenza movimenti che portano a vivere in spazi di pace, di quiescenza. Danno somma importanza all’interiorità, alla sacralità, alle attività religiose. Cercano nel culto il luogo del riposo e della tranquillità e non sono capaci di compiere gesti socialmente utili. Questi movimenti negli ultimi decenni sono entrati nella stessa Chiesa. Se ci lasciamo abbagliare, lo spiritualismo potrebbe risultare un’autentica tentazione per la vita religiosa.

La fuga mundi potrebbe essere interpretata come un rinchiudersi comodamente all’interno della comunità, senza alcun interesse per le sofferenze altrui, con patente incapacità di partecipazione con chi soffre violenza di ogni specie. Le nostre case, alcune molto grandi, ora sono attorniate da palazzi, uffici, banche, negozi… e questo facilita la separazione dalla gente, ormai lontana anche logisticamente. Per questo è opportuno aprire le case, facendole diventare centri di preghiera, di fraternità, di vicinanza, di comunione, di conoscenza reciproca. Il mondo deve essere al centro delle nostre preoccupazioni, dei nostri studi, delle nostre analisi, della nostra preghiera. Le comunità più aperte e vicine alla gente sogliono essere anche più vivaci nella preghiera, nella convivenza, nello zelo, nella solidarietà.

 

 Il rifugio nella parola

 Discorsi e documenti oggi non convincono più di tanto; suscitano sentimenti, ma non portano a cambi nello stile di vita. E’ il rifugio in un fondamentalismo etico-verbale: la parola non si incarna nella storia reale.

Quando nelle comunità si cerca soprattutto l’ordine e la stabilità, quando si vive sulla difensiva per poter sopravvivere in tanta confusione, allora facilmente ci si rinchiude in poche idee più etiche che dogmatiche senza alcuna visione di futuro. E’ la situazione delle persone insicure. Per questo si impone l’invigorimento di una formazione teologica profonda, in modo che si possa effettivamente porre la sicurezza nel Dio di Gesù Cristo. Sarebbe il frutto dell’esperienza dello Spirito nella propria vita.

Il moralismo è sempre stato e continua a essere un pericolo nella vita religiosa. Dimostra che lo stile di vita si appoggia sulla norma, anziché sul progetto. Ciò suppone una mentalità volontaristica, senza sbocco nella vita reale. Il discorso verte su valori teorici, e che possono suscitare emozioni e sentimenti, senza coinvolgimento nella vita concreta. Incapace di fermarsi sul presente, normalmente è inefficace, non scuote, non incide. Il lavoro, la solidarietà, la gratuità, sono belle idee ma non coinvolgono la vita concreta.

Eppure nelle nostre istituzioni esistono documenti belli e impegnativi. Per questo è necessario calarli nella vita concreta; urge che i documenti facciano il passaggio dalla testa al cuore e da qui alle mani. E’ opportuno ricordare che la distanza che separa la mente dal cuore è più lunga di quanto possa sembrare. Di fronte a documenti splendidi esiste il pericolo di confondere i desideri con le realizzazioni, la proclamazione delle nostre opzioni con la loro concretizzazione. Respiriamo aria e desideri di rifondazione e non scarseggiano idee nuove. Si tratta di vedere come trasformarle in realtà, quali passi dobbiamo compiere come persone e come comunità. Saper cosa fare è sapienza, saper come farlo è arte; farlo è virtù. Nella vita religiosa abbiamo bisogno di saggi, di artisti, ma innanzitutto di gente virtuosa, uomini e donne disposti a vivere comunitariamente il contenuto dei documenti elaborati.

  

Conclusione

 Siamo coscienti che non risulta facile per nessuno orientare uno sguardo penetrante sulla società. Più che in altri tempi ci troviamo disorientati. Se viviamo staccati, essa diventa per noi muta e incomprensibile. Per questo una grossa sfida per noi oggi è credere in questo momento della storia, in questo mondo, anche se non riusciamo a comprenderlo. Del resto i tempi incerti e confusi sono favorevoli alle nostalgie, e queste ci spingono a camminare dietro la storia e non dentro di essa; come gli ebrei, sulle sponde del fiume di Babilonia quando ricordavano gli splendori del passato.

Vogliamo fare nostra la preghiera del cieco di Gerico: Signore, che io veda, per poter accogliere lo Spirito presente in queste nostre situazioni.

Lo stile di vita dei religiosi e delle religiose deve essere configurato dalla mistica degli occhi aperti, ossia da quella capacità seria, non ingenua, che aiuta a vedere e capire le cose come sono. Il vangelo testimonia che soltanto spiritualità forti, radicate nell’esperienza e nella vita dei poveri, saranno alternative vere e durature nel cammino della rifondazione. Dobbiamo lasciare che la nostra vita sia orientata e guidata dalla misericordia; dobbiamo guardare il mondo nella prospettiva della misericordia, così come lo guarda Dio. Questo è il paradigma della vita religiosa oggi.

Essa deve formare un gruppo compatto di donne e di uomini che si muova nel campo della relazione, della convivenza, del rispetto; della pace, dell’incontro come espressione di tenerezza; che sappia esprimersi con competenza su ecologia ed ecumenismo; che faciliti una religiosità festiva e gioiosa. Il nostro Dio è il Dio della vita e della gioia.

Essere religiosa/o oggi comporta incarnare uno stile di vita che sia segno di una cultura planetaria. L’uomo e la donna consacrati sono il luogo teologico del dialogo e dell’incontro, di relazione e non di divisione, di fraternità, di carisma e di significanza.*

 

* L’articolo è stato ripreso dalla rivista TESTIMONIO, Cile n. 9/2001

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