n. 11
novembre 2004

 

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«Posso contare totalmente su di voi» (2 Cor 7,16)
La vita consacrata oggi: un cammino di perenne conversione dall'idolatria del fare alla via della mistica "feriale"
di Rossana Leone*

 

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L'idolatria del fare

Nell'universo vegetale alligna uno strano fusto carnoso: il rizoma. Interrato a poca profondità, dirama solo orizzontalmente le sue radici e ha uno stelo infecondo che non riesce ad elevarsi verso l’alto. Questo suo attecchire solo a fior di terra sembra la metafora della nostra società globalizzata, schiava di pseudobisogni, piatta nei suoi desideri, dominata da un ego avido e strisciante che costringe all’esilio il sé profondo. Non è forse vero che viviamo in “superficie” e ci muoviamo su reti di comunicazione “solo” orizzontale, tessendo fitte trame di interessi egocentrici, sempre alla ricerca di gratificazioni immediate? E che questo smanioso procedere su vie di esasperati particolarismi ci trascina in un limbo di frammentazione interiore, lasciando sopite in noi quelle energie divine che invece spingono continuamente verso l’alto?

Purtroppo a questo assopimento – come avvertiva profeticamente Vladimir Solov’ev (1853-1900) nel suo Breve racconto dell’Anticristo – non sfugge neanche «la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice»1. «E questa», aggiungeva l’illuminato pensatore russo, «l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo».

In particolare, riferendoci alla vita consacrata, potremmo dire che troppo spesso «è ridotta a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura»2. Tutte cose in sé buone, ma di fatto fuorvianti, e nel tempo addirittura mortifere, se asservite all’idolatria del fare e sganciate dalle radici profonde dell’essere in Cristo nuove creature (cfr. 2Cor 5,17), abitate e fecondate dallo Spirito per divenire sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (Rm 12,1).

 

Le radici profonde dell’essere

Stando così le cose e apparendo a volte quasi affetta da una sorta di schizofrenia che tende a dissociare mente e cuore, azione e contemplazione, la vita consacrata ha bisogno di ricontattare lo Spirito, di captarne l’azione interiore «sia che preghi in noi, sia che ci inviti a compiere l’opera del Padre»3. Ciò avviene riscoprendo i tratti evangelici di Marta e Maria come «le due guance di uno stesso volto» (Cassiano), evitando di disperdersi nei meandri di futili questioni intorno alla superiorità della contemplazione sull’azione o viceversa, e riconoscendo piuttosto che solo nella loro inseparabile complementarità si coglie e si accoglie in pienezza il volto dell’Amore.

Certo, bisogna fare estrema chiarezza su un presupposto qualificante: l’azione apostolica dà frutto solo se suscitata da un’autentica disposizione interiore che matura, individualmente e comunitariamente, a contatto con la Parola ruminata e pregata nella fedeltà dei giorni, mai ridotta a formali codicilli di comportamento, ma “respirata” come lieta notizia del Regno che, grazie a Dio, è qui…, nel mio cuore abitato da Lui!

In sintesi, dunque, si tratta di sgomberare il terreno dall’ambiguità di certe catalogazioni del passato, cogliendo come, nella molteplicità delle forme di vita consacrata, «cambia il quadro esteriore, il terreno d’azione, il ritmo di vita; ma questi non sono altro che segni di un’esperienza interiore, che si sviluppa a livello della vita battesimale e di fede, e che è comune a tutti»4, “attivi” e “contemplativi”. Ci riferiamo, come già accennato, alla misteriosa esperienza della vita spirituale: la vita stessa di Dio che dimora in noi.

Di conseguenza, quali che siano le coordinate che specificano l’identità di ciascun Istituto, bisogna lasciar ardere in noi la passione per la santità di Dio, accoccolati nell’intimità della Sua amicizia, fisso lo sguardo sulla Sua infinita bellezza. Così, nel ritmo del tempo che diventa kairós di salvezza, aspiriamo continuamente purezza d’amore ed espiriamo pacificati le adulterazioni dell’ego, radicati nella vita autentica e veramente liberi di mettere in gioco la nostra esistenza donandola senza riserve, fino alla fine, al di là dei risultati.

Colto l’essenziale che ci identifica come consacrate/i, appare chiaro ora come questo atteggiamento di fondo scardini tutte quelle «superficiali valutazioni di funzionalità»5 che pretendono di giudicare la vita di un Istituto più in base alla sua efficienza che non alla «sovrabbondanza di gratuità e d’amore»6 che vi si respira. Al di là del numero e della “visibilità”.

 

“Voi, come vivete?”

Permettetemi un ricordo personale. Accogliendo in Diocesi una nuova comunità religiosa, il mio vescovo, mons. Giancarlo Bregantini (la comunità in cui vivo è inserita nella Diocesi di Locri-Gerace, in Calabria), a primo acchito, non domandò loro: «Voi, che cosa fate?», quanto piuttosto: «Voi, come vivete?»

Ecco il punto! La sfida che il terzo millennio pone alla vita religiosa si gioca sul terreno del “come viviamo”, prima e più ancora che del “cosa facciamo”.

Come viviamo: nello spirito delle Beatitudini, a partire dal quale tutto in noi e attorno a noi diventa trasparenza e riflesso del Regno. Voi siete il sale della terra (Mt 5,13), dice Gesù nel discorso della montagna. Badate bene: non dice “date” sale, ma “siete” sale!7 Così come dinanzi alle folle stanche e affamate non dice ai discepoli: date pane, ma date voi stessi da mangiare (Lc 9,13)! Ossia, insaporite e sfamate il mondo con l’offerta sapida della vostra vita perché anche di noi possa dirsi: «In mezzo al fuoco stava non come una carne che brucia, ma come un pane che cuoce» (Martirio di Policarpo di Smirne). In quel fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra per riscaldare il cuore del mondo.

 

La via della mistica “feriale”

Dalla saggezza dei chassidim, un movimento spirituale ebraico sorto in Europa orientale nel ‘700, cogliamo questa piccola perla: «Disse Rabbi Bunam: “Il Talmud paragona questo mondo a uno sposalizio. E’ come se un uomo facesse ogni preparativo per il suo matrimonio, ma dimentica di comprare l’anello nuziale; perciò la cerimonia non può andare avanti. La stessa cosa accade a un uomo che lavora tutta la sua vita, ma dimentica di santificarsi attraverso la Torah e i suoi comandamenti. Quando giunge alla vita eterna non vi può entrare e nulla gli giovano tutte le sue fatiche”»8.

E’ dell’anello nuziale che, come consacrate/i, non dobbiamo dimenticarci! Ossia del custodire in noi il dono d’Alleanza, riconoscendo, nelle profondità del cuore, i tratti «della Sposa che sta davanti allo Sposo, partecipe del suo mistero, avvolta dalla sua luce»9. Altrimenti «la cerimonia non può andare avanti», la vita spirituale s’affloscia e torna l’insidia del fare smanioso, come deterrente al vuoto interiore che finisce per gettarci nell’angoscia del non-senso.

In concreto, la vita consacrata ha ragion d’essere ed è veramente “sale” che insaporisce la terra nella misura in cui, senza evadere dall’ordinarietà, diventa esperienza “mistica”. Che – badate bene! – non è una forma di santità elitaria, squarciata da visioni straordinarie, ma autentica apertura «al Mistero di Dio, di Cristo: via al Padre nello Spirito santo, al mistero dell’uomo e della realtà, di tutta la realtà nella sua profonda essenza»10. E’, insomma, il nostro impasto di fango che, consegnandosi fiducioso tra le mani del Divino Vasaio, si lascia plasmare docilmente, mentre accoglie con gioia il mistero del quotidiano tralucere dell’Amore, nel suo manifestarsi al fuoco della Parola che libera e salva. Lì dove siamo, nelle cose che facciamo in forza dell’amore che ci brucia dentro come «fiamma del Signore» (Ct 8,7).

 

Nel dono dell’alleanza nuziale 

E’ bene scavare più a fondo su questa sponsalità che percorre vie ordinarie di autentica mistica e s’innerva nelle congiunture della storia, ponendosi come alternativa evangelica e terapia riabilitativa contro l’asfissia spirituale che grava sull’uomo contemporaneo.

Ripeschiamo l’immagine dell’anello nuziale. Di cosa è segno? Dell’amore accolto e donato nel sigillo della fedeltà sponsale. Un amore che, tra due coniugi davvero uniti sotto lo stesso “giogo” lieve e soave di Cristo, non si esaurisce con il tramonto della luna di miele, quando si stempera la magia dei sogni e s’affaccia una realtà ordinaria ma, al contrario, matura tra gioie e fatiche nell’incessante quotidiano reciproco accogliersi.

A questo indefettibile amore allude Gesù quando, volgendosi ai discepoli nell’intimità dell’ultima cena, dice: Rimanete in me…, rimanete nel mio amore (Gv 15,4-9). E per concretizzare la portata e gli effetti di queste sue parole, pone sotto i loro occhi i segni tangibili del suo amare usque ad finem, intensamente, fino all’ultimo respiro, gli umili segni del catino e dell’asciugatoio, che ispireranno all’indimenticabile vescovo di Molfetta, don Tonino Bello, l’icona della “Chiesa del grembiule”, come «servizio, condiscendenza, condivisione, coinvolgimento in presa diretta nella vita dei poveri»11.

 

L’amore “in azione”: i tre fotogrammi del servizio

Gesù, annota l’evangelista Giovanni, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, […] si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. […] e disse loro: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,1ss).

Ecco: di questo amore è gravida la vita consacrata!

E’ l’amore dello Sposo che si concede “fino alla fine”, nella totalità del tempo, nell’intensità dell’affetto, traboccante di oblatività feconda. Umile e compassionevole. Ma è anche l’amore della sposa, il mio e il tuo, che ci spinge ad uscire da noi stessi perché “conquistati” e “afferrati” da Cristo, casti nel cuore e nella mente, docili e sobri, messa in fuga la tentazione di asserragliarci in sterili elucubrazioni cerebrali o di sprofondare nel magma di continue frustrazioni.

Dunque, liberi di amare. Ma anche liberi di servire. Perché questo amore, custodito nel cuore e trasfuso nella vita, vince le nostre paure fin nei recessi dell’anima e della psiche e ci abilita a concederci “definitivamente” alle esigenze di una perenne conversione, rendendoci, al contempo, capaci di mettere a fuoco nitidamente i tre fotogrammi dell’amore “in azione”:

- «Si alzò da tavola», che significa andare incontro all’altro accogliendo la sfida di un perenne dinamismo missionario, mai sedentario né ingessato;

- «depose le vesti», ossia assumere la trasparenza della semplicità e la nudità della comunione che depongono ogni giorno nella terra dell’umiltà le maschere dell’orgoglio e del tornaconto;

- «si cinse un asciugatoio», cioè farsi tutto a tutti (cfr. 1Cor 9,22), perché il nostro servizio sia autentico «segno della tenerezza di Dio verso il genere umano»12, come aveva ben intuito Basilio il Grande: «Non bisogna che alcuno sia padrone di se stesso, ma in ogni cosa deve sentire e deve agire come consegnato da Dio al servizio dei fratelli, che sono con lui un’anima sola»13.

 

Conclusioni

Come ci è dato di constatare qua e là, ma soprattutto dentro di noi, neanche la vita religiosa, almeno in alcune sue frange, è riuscita a sottrarsi alla “corrosione” prodotta dalla mentalità dominante, consumistica ed arrivista. Sono i segni latenti di un procedere fiacco, destinato alla morte. Ma, grazie a Dio, c’è dell’altro. Sono i segni della profezia impressi sulla fronte di uomini e donne che sulla via della mistica “feriale” hanno detto “sì” all’azione dello Spirito. Pochi o molti che siano, sono la prova della fedeltà di Dio e la certezza che, anche oggi, la Chiesa può dire: «Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7,16).

E poiché nel coinvolgermi in questa riflessione sul senso della vita religiosa mi è stato chiesto a mo’ di provocazione se abbia ancora senso oggi consacrarsi al Signore, rispondo: sì, oggi più che mai! Ma ad una condizione: che ogni consacrata/o diventi chi è: «amore in Dio-Amore»14.