L'idolatria del fare
Nell'universo
vegetale alligna uno strano fusto carnoso: il rizoma. Interrato a
poca profondità, dirama solo orizzontalmente le sue radici e ha uno
stelo infecondo che non riesce ad elevarsi verso l’alto. Questo suo
attecchire solo a fior di terra sembra la metafora della nostra società
globalizzata, schiava di pseudobisogni, piatta nei suoi desideri,
dominata da un ego avido e strisciante che costringe all’esilio il sé
profondo. Non è forse vero che viviamo in “superficie” e ci muoviamo su
reti di comunicazione “solo” orizzontale, tessendo fitte trame di
interessi egocentrici, sempre alla ricerca di gratificazioni immediate?
E che questo smanioso procedere su vie di esasperati particolarismi ci
trascina in un limbo di frammentazione interiore, lasciando sopite in
noi quelle energie divine che invece spingono continuamente verso
l’alto?
Purtroppo a questo assopimento – come
avvertiva profeticamente Vladimir Solov’ev (1853-1900) nel suo Breve
racconto dell’Anticristo – non sfugge neanche «la Chiesa del Dio
vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per
un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice»1.
«E questa», aggiungeva l’illuminato pensatore russo, «l’insidia mortale
che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di
Cristo».
In particolare, riferendoci alla vita
consacrata, potremmo dire che troppo spesso «è ridotta a pura azione
umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del
filantropismo, della cultura»2.
Tutte cose in sé buone, ma di fatto fuorvianti, e nel tempo addirittura
mortifere, se asservite all’idolatria del fare e sganciate dalle radici
profonde dell’essere in Cristo nuove creature (cfr. 2Cor 5,17), abitate
e fecondate dallo Spirito per divenire sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio (Rm 12,1).
Le radici profonde
dell’essere
Stando così le cose e apparendo a volte quasi
affetta da una sorta di schizofrenia che tende a dissociare mente e
cuore, azione e contemplazione, la vita consacrata ha bisogno di
ricontattare lo Spirito, di captarne l’azione interiore «sia che preghi
in noi, sia che ci inviti a compiere l’opera del Padre»3.
Ciò avviene riscoprendo i tratti evangelici di Marta e Maria come «le
due guance di uno stesso volto» (Cassiano), evitando di disperdersi nei
meandri di futili questioni intorno alla superiorità della
contemplazione sull’azione o viceversa, e riconoscendo piuttosto che
solo nella loro inseparabile complementarità si coglie e si accoglie in
pienezza il volto dell’Amore.
Certo, bisogna fare estrema chiarezza su un
presupposto qualificante: l’azione apostolica dà frutto solo se
suscitata da un’autentica disposizione interiore che matura,
individualmente e comunitariamente, a contatto con la Parola ruminata e
pregata nella fedeltà dei giorni, mai ridotta a formali codicilli di
comportamento, ma “respirata” come lieta notizia del Regno che, grazie a
Dio, è qui…, nel mio cuore abitato da Lui!
In sintesi, dunque, si tratta di sgomberare
il terreno dall’ambiguità di certe catalogazioni del passato, cogliendo
come, nella molteplicità delle forme di vita consacrata, «cambia il
quadro esteriore, il terreno d’azione, il ritmo di vita; ma questi non
sono altro che segni di un’esperienza interiore, che si sviluppa a
livello della vita battesimale e di fede, e che è comune a tutti»4,
“attivi” e “contemplativi”. Ci riferiamo, come già accennato, alla
misteriosa esperienza della vita spirituale: la vita stessa di
Dio che dimora in noi.
Di conseguenza, quali che siano le coordinate
che specificano l’identità di ciascun Istituto, bisogna lasciar ardere
in noi la passione per la santità di Dio, accoccolati nell’intimità
della Sua amicizia, fisso lo sguardo sulla Sua infinita bellezza. Così,
nel ritmo del tempo che diventa kairós di salvezza, aspiriamo
continuamente purezza d’amore ed espiriamo pacificati le adulterazioni
dell’ego, radicati nella vita autentica e veramente liberi di mettere in
gioco la nostra esistenza donandola senza riserve, fino alla fine, al di
là dei risultati.
Colto l’essenziale che ci identifica come
consacrate/i, appare chiaro ora come questo atteggiamento di fondo
scardini tutte quelle «superficiali valutazioni di funzionalità»5
che pretendono di giudicare la vita di un Istituto più in base
alla sua efficienza che non alla «sovrabbondanza di gratuità e d’amore»6
che vi si respira. Al di là del numero e della “visibilità”.
“Voi, come vivete?”
Permettetemi un ricordo personale.
Accogliendo in Diocesi una nuova comunità religiosa, il mio vescovo,
mons. Giancarlo Bregantini (la comunità in cui vivo è inserita nella
Diocesi di Locri-Gerace, in Calabria), a primo acchito, non domandò
loro: «Voi, che cosa fate?», quanto piuttosto: «Voi, come
vivete?»
Ecco il punto! La sfida che il terzo
millennio pone alla vita religiosa si gioca sul terreno del “come
viviamo”, prima e più ancora che del “cosa facciamo”.
Come viviamo:
nello spirito delle Beatitudini, a partire dal quale tutto in noi e
attorno a noi diventa trasparenza e riflesso del Regno. Voi siete il
sale della terra (Mt 5,13), dice Gesù nel discorso della montagna.
Badate bene: non dice “date” sale, ma “siete” sale!7
Così come dinanzi alle folle stanche e affamate non dice ai discepoli:
date pane, ma date voi stessi da mangiare (Lc
9,13)! Ossia, insaporite e sfamate il mondo con l’offerta sapida della
vostra vita perché anche di noi possa dirsi: «In mezzo al fuoco stava
non come una carne che brucia, ma come un pane che cuoce» (Martirio di
Policarpo di Smirne). In quel fuoco che il Signore è venuto a portare
sulla terra per riscaldare il cuore del mondo.
La via della mistica
“feriale”
Dalla saggezza dei chassidim, un
movimento spirituale ebraico sorto in Europa orientale nel ‘700,
cogliamo questa piccola perla: «Disse Rabbi Bunam: “Il Talmud paragona
questo mondo a uno sposalizio. E’ come se un uomo facesse ogni
preparativo per il suo matrimonio, ma dimentica di comprare l’anello
nuziale; perciò la cerimonia non può andare avanti. La stessa cosa
accade a un uomo che lavora tutta la sua vita, ma dimentica di
santificarsi attraverso la Torah e i suoi comandamenti. Quando giunge
alla vita eterna non vi può entrare e nulla gli giovano tutte le sue
fatiche”»8.
E’ dell’anello nuziale che, come
consacrate/i, non dobbiamo dimenticarci! Ossia del custodire in noi il
dono d’Alleanza, riconoscendo, nelle profondità del cuore, i tratti
«della Sposa che sta davanti allo Sposo, partecipe del suo
mistero, avvolta dalla sua luce»9.
Altrimenti «la cerimonia non può andare avanti», la vita spirituale
s’affloscia e torna l’insidia del fare smanioso, come deterrente al
vuoto interiore che finisce per gettarci nell’angoscia del non-senso.
In concreto, la vita consacrata ha ragion
d’essere ed è veramente “sale” che insaporisce la terra nella misura in
cui, senza evadere dall’ordinarietà, diventa esperienza “mistica”. Che –
badate bene! – non è una forma di santità elitaria, squarciata da
visioni straordinarie, ma autentica apertura «al Mistero di Dio, di
Cristo: via al Padre nello Spirito santo, al mistero dell’uomo e della
realtà, di tutta la realtà nella sua profonda essenza»10.
E’, insomma, il nostro impasto di fango che, consegnandosi fiducioso tra
le mani del Divino Vasaio, si lascia plasmare docilmente, mentre
accoglie con gioia il mistero del quotidiano tralucere dell’Amore, nel
suo manifestarsi al fuoco della Parola che libera e salva. Lì dove
siamo, nelle cose che facciamo in forza dell’amore che ci brucia dentro
come «fiamma del Signore» (Ct 8,7).
Nel dono dell’alleanza
nuziale
E’ bene scavare più a fondo su questa
sponsalità che percorre vie ordinarie di autentica mistica e s’innerva
nelle congiunture della storia, ponendosi come alternativa evangelica e
terapia riabilitativa contro l’asfissia spirituale che grava sull’uomo
contemporaneo.
Ripeschiamo l’immagine dell’anello nuziale.
Di cosa è segno? Dell’amore accolto e donato nel sigillo della fedeltà
sponsale. Un amore che, tra due coniugi davvero uniti sotto lo stesso
“giogo” lieve e soave di Cristo, non si esaurisce con il tramonto della
luna di miele, quando si stempera la magia dei sogni e s’affaccia una
realtà ordinaria ma, al contrario, matura tra gioie e fatiche
nell’incessante quotidiano reciproco accogliersi.
A questo indefettibile amore allude Gesù
quando, volgendosi ai discepoli nell’intimità dell’ultima cena, dice:
Rimanete in me…, rimanete nel mio amore (Gv 15,4-9). E per
concretizzare la portata e gli effetti di queste sue parole, pone sotto
i loro occhi i segni tangibili del suo amare usque ad finem,
intensamente, fino all’ultimo respiro, gli umili segni del catino e
dell’asciugatoio, che ispireranno all’indimenticabile vescovo di
Molfetta, don Tonino Bello, l’icona della “Chiesa del grembiule”, come
«servizio, condiscendenza, condivisione, coinvolgimento in presa diretta
nella vita dei poveri»11.
L’amore “in azione”: i
tre fotogrammi del servizio
Gesù,
annota l’evangelista Giovanni, dopo aver amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, […] si alzò da tavola,
depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei
discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. […] e
disse loro: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io,
facciate anche voi» (Gv 13,1ss).
Ecco: di questo amore è gravida la vita
consacrata!
E’ l’amore dello Sposo che si concede “fino
alla fine”, nella totalità del tempo, nell’intensità dell’affetto,
traboccante di oblatività feconda. Umile e compassionevole. Ma è anche
l’amore della sposa, il mio e il tuo, che ci spinge ad uscire da noi
stessi perché “conquistati” e “afferrati” da Cristo, casti nel cuore e
nella mente, docili e sobri, messa in fuga la tentazione di
asserragliarci in sterili elucubrazioni cerebrali o di sprofondare nel
magma di continue frustrazioni.
Dunque, liberi di amare. Ma anche liberi di
servire. Perché questo amore, custodito nel cuore e trasfuso nella vita,
vince le nostre paure fin nei recessi dell’anima e della psiche e ci
abilita a concederci “definitivamente” alle esigenze di una perenne
conversione, rendendoci, al contempo, capaci di mettere a fuoco
nitidamente i tre fotogrammi dell’amore “in azione”:
- «Si alzò da tavola», che significa
andare incontro all’altro accogliendo la sfida di un perenne dinamismo
missionario, mai sedentario né ingessato;
- «depose le vesti», ossia assumere la
trasparenza della semplicità e la nudità della comunione che depongono
ogni giorno nella terra dell’umiltà le maschere dell’orgoglio e del
tornaconto;
- «si cinse un asciugatoio», cioè
farsi tutto a tutti (cfr. 1Cor 9,22), perché il nostro servizio sia
autentico «segno della tenerezza di Dio verso il genere umano»12,
come aveva ben intuito Basilio il Grande: «Non bisogna che alcuno sia
padrone di se stesso, ma in ogni cosa deve sentire e deve agire come
consegnato da Dio al servizio dei fratelli, che sono con lui un’anima
sola»13.
Conclusioni
Come ci è dato di constatare qua e là, ma
soprattutto dentro di noi, neanche la vita religiosa, almeno in alcune
sue frange, è riuscita a sottrarsi alla “corrosione” prodotta dalla
mentalità dominante, consumistica ed arrivista. Sono i segni latenti di
un procedere fiacco, destinato alla morte. Ma, grazie a Dio, c’è
dell’altro. Sono i segni della profezia impressi sulla fronte di uomini
e donne che sulla via della mistica “feriale” hanno detto “sì”
all’azione dello Spirito. Pochi o molti che siano, sono la prova della
fedeltà di Dio e la certezza che, anche oggi, la Chiesa può dire: «Mi
rallegro perché posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7,16).
E poiché
nel coinvolgermi in questa riflessione sul senso della vita religiosa mi
è stato chiesto a mo’ di provocazione se abbia ancora senso oggi
consacrarsi al Signore, rispondo: sì, oggi più che mai! Ma ad una
condizione: che ogni consacrata/o diventi chi è: «amore in Dio-Amore»14.