n. 11
novembre 2004

 

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I due volti del conflitto
di Giuseppe Savagnone*

 

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«Il conflitto è padre e signore di tutte le cose», scriveva, cinquecento anni prima di Cristo, il filosofo greco Eraclito. Una formula ambigua, che può prestarsi ad alimentare il più angosciato pessimismo, come pure una tenace prospettiva di speranza. Non per caso da un lato l’autore stesso di questa formula è stato rappresentato, nella tradizione, come un uomo tormentato e disilluso, dall’altro la sua concezione ha fornito la base per tutte le teorie che hanno cercato di rivalutare l’aspetto positivo del conflitto.

In effetti, in questo concetto si possono sottolineare, a seconda dei punti di vista, due aspetti opposti, che secondo alcuni sono anche complementari. Il primo è quello per cui il conflitto implica una violenza distruttiva, che mette in pericolo i beni a cui l’essere umano maggiormente tiene: la vita, la libertà, l’uso delle cose. In questo senso, dire che il conflitto è signore del mondo significa riconoscere che non c’è altra regola che quella della sopraffazione reciproca, da cui scaturiscono gli assetti della vita individuale e collettiva. Il secondo aspetto, invece, privilegia ciò che il conflitto ha di fisiologico e di salutare per l’esistenza della natura e in particolare degli esseri umani. Senza la lotta che gli anticorpi conducono contro gli agenti patogeni l’organismo soccomberebbe alla prima infezione. Qui esamineremo sia l’uno che l’altro aspetto.

  

Il conflitto tra gli individui

L’espressione più tipica del primo volto del conflitto è la guerra. Intesa in senso lato, essa è il tentativo di sopraffazione reciproca che oppone l’individuo agli altri individui. E secondo questa accezione ne parla, all’inizio del Seicento, Thomas Hobbes, quando afferma che la condizione originaria della specie umana è la guerra di ognuno contro tutti. Sviluppata, in Inghilterra, alle origini del capitalismo, la filosofia di Hobbes è la più realistica rappresentazione della logica che già dominava e che sempre più avrebbe dominato la società nascente dell’individualismo e del profitto: la sfrenata volontà di perseguire il proprio interesse e, in ultima istanza, la lotta per la sopravvivenza, portano gli esseri umani a un’aggressività che non conosce altro limite che quello della paura di essere, a propria volta, sopraffatti. Se, alla fine, gli uomini arrivano ad accordarsi, è solo per questa paura, da cui nessuno può essere del tutto immune. La pace è solo un compromesso tra opposte cupidigie che, alla fine, trovano più conveniente e soprattutto più sicuro abdicare alle proprie pretese per mettersi al riparo da una totale distruzione.

È difficile negare che l’amara analisi di Hobbes abbia una carica di spietato realismo. La tendenza a porsi al centro del mondo e a considerare gli altri alla stregua di potenziali strumenti delle proprie aspirazioni e dei propri progetti è antica quanto il genere umano. Ciò non significa che, quando i loro interessi e le loro voglie confliggono, gli uomini siano sullo stesso piano degli animali non umani: sono molto peggiori. Intanto, tra membri della stessa specie, molto raramente i duelli si concludono con la morte di uno dei due. E quando, tra specie diverse, la posta in gioco è la vita, ciò avviene perché un’assoluta necessità biologica costringe il più forte a divorare il più debole per poter sopravvivere. L’odio, la crudeltà, la violenza gratuita delle lotte, che contrappongono fra loro gli esseri umani, sono sconosciuti al regno animale.

Tutto questo si accentua in una cultura come la nostra, dove il singolo si percepisce sganciato da ogni appartenenza, da ogni responsabilità originaria e ritiene che i suoi obblighi verso gli altri scaturiscano solo dagli accordi contrattuali che egli stesso vorrà stipulare ogni qualvolta ciò risulterà per lui vantaggioso. In questa società atomizzata, dominata dai miti del self-made-man e del successo, soggetta ai meccanismi inesorabili del mercato, la logica della concorrenza tende ad estendersi dai processi propriamente economici all’intero arco dell’esperienza umana. Il quadro di riferimento tracciato da Hobbes rivela, a questo punto, la sua drammatica attualità. Ognuno contro tutti, senza regole che non siano quelle imposte dall’esterno e subìte come un prezzo necessario da pagare per garantirsi dalla violenza degli altri.

 

Guerra e terrorismo

Non c’è da stupirsi, a partire da queste premesse, che la guerra in senso lato, come conflittualità permanente tra gli individui, si traduca in quella in senso stretto, che è lo scontro tra i popoli e tra gli Stati. Scontro militare, combattuto con armi ed eserciti. Ma anche guerra diplomatica e guerra economica.

Per quanto riguarda la prima, è appena il caso di segnalare il suo carattere cruento e tendenzialmente spietato. Ma bisogna sottolineare che a lungo, in essa, sono rimasti fermi due punti: il primo era che lo scontro era ristretto a persone appartenenti all’ordine militare e che non si doveva usare la forza nei confronti degli inermi; il secondo era che, anche verso i combattenti, dovevano essere rispettate delle regole di umanità e di lealtà, specialmente nel caso che essi si trovassero nella condizione di vinti. «Da qui la minuziosa regolamentazione della guerra, che ha trovato espressione, ai giorni nostri nelle “convenzioni di Ginevra” del 1864, del 1906, del 1922, del 1949». Queste regole, pur continuamente esposte ad essere violate, hanno comunque segnato il confine tra il lecito e l’illecito, anche in un momento così critico per i rapporti tra i popoli com’è quello bellico.

In complesso, in Occidente, «la guerra del lungo periodo fra XI e XVIII secolo sembra aver costantemente cercato (sia pure con qualche lunga parentesi, specie fra Cinque e Seicento) di non perdere di vista certi valori irrinunziabili, di rimaner circoscritta ai combattenti e alle ragioni per cui era di volta in volta scoppiata, di non coinvolgere la società nel suo complesso arrestandone tutte le funzioni vitali, insomma di autolimitarsi. Gli ideali cavallereschi prima, il diritto internazionale poi, la meditazione dei filosofi settecenteschi infine, sono stati tentativi differenti di umanizzare e limitare i conflitti».

Vi è stato dunque uno sforzo abbastanza costante, volto ad evitare che lo scontro degenerasse in cieca rissa, in brutalità e in ferocia illimitate, e mantenesse la razionalità di fondo che si addice a un grande “gioco”, in cui non ogni mossa è consentita, e non contro chiunque, e in cui rispettare le regole è altrettanto importante che vincere.

Ma nel corso del secolo scorso le guerre hanno assunto una valenza distruttiva nei confronti dei civili così ampia da rendere sempre più difficile la distinzione rispetto alla pura violenza. Emblematico il fatto che, «durante la Prima guerra mondiale il 90% dei morti furono militari; nella Seconda il 50% e nella guerra del Vietnam solo il 10% (il 90% dei morti furono civili)».

Anche quanto alla guerra diplomatica e a quella economica, bisogna dire che sono sempre esistite. Ma anche per esse, soprattutto per la seconda, va segnalata una evoluzione – o involuzione – legata al ruolo sempre maggiore dell’economia e al nuovo contesto della globalizzazione. Dalla fine dell’Ottocento e sempre di più nel corso del Novecento, fino ad oggi, il fattore militare è stato al servizio del controllo dei mercati e delle fonti di energia. Ciò viene cinicamente ammesso nelle sedi competenti e dagli addetti ai lavori, anche se all’opinione pubblica si continua a presentare come giustificazione dei conflitti questo o quell’ideale etico in grado di nobilitarli.

Il figlio mostruoso di queste nuove forme della guerra è il terrorismo, che, portando alle sue estreme conseguenze la logica di una conflittualità sempre meno suscettibile di regole di qualunque tipo, utilizza la violenza senza più porsi alcun limite.

La novità di questa forma di conflitto è che ormai tutti ne siamo coinvolti. La distinzione fra combattenti e civili viene definitivamente cancellata o, peggio, mantenuta solo nel senso che i bersagli preferiti dei terroristi sono i secondi. Così, mentre in passato la guerra era un evento che si svolgeva tendenzialmente, anche se non esclusivamente, all’esterno, alla frontiera, ora esso ha come teatro le vie, gli aeroporti, i centri commerciali delle nostre stesse città. “Fuori” il nemico risulta introvabile. È tra di noi, non ci si stacca di dosso neppure per un momento, neppure quando, per colpire, deve morire insieme a coloro che aggredisce.

A questo si collega un altro carattere del nuovo tipo di guerra, e cioè la maggiore vulnerabilità delle società più evolute rispetto a quelle povere. I mezzi chimici e batteriologici, che costano pochissimo, possono essere molto più efficaci, per mettere in ginocchio una moderna metropoli, di quanto lo siano armi assai più costose e sofisticate, come missili e portaerei, per colpire villaggi o campi di addestramento disseminati nel deserto. Ormai la vittoria del più forte non è affatto scontata.

Da qui un’insicurezza cronica, che nessuna guerra aveva mai prodotto. Siamo al fronte quando andiamo a teatro o a fare la spesa. La pace e la guerra non sono più nettamente distinte. È un luogo comune osservare che il mondo globalizzato è caratterizzato dalla caduta delle frontiere. Ma forse non era previsto che la prima a godere di questa libertà di accesso, nelle nostre società, sarebbe stata la paura.

 

Il conflitto che genera vita

Il significato più ovvio del frammento di Eraclito, alla luce di queste considerazioni, è che la signoria del conflitto è quella della violenza e della morte. Ma è veramente così? Senza voler negare la parte di verità che tale interpretazione contiene, bisogna ammettere che essa esprime solo una faccia di questo complesso fenomeno. Perché è innegabile che il conflitto è anche la molla necessaria della crescita e dell’approfondimento dell’essere umano sotto molteplici profili.

Si pensi al ruolo che esso gioca, in psicologia, nella costruzione delle identità, per esempio nel caso della fisiologica contrapposizione tra figli e genitori, necessaria per completare il distacco dell’individuo dall’utero materno. Qui, anzi, è l’assenza di conflitto che può risultare estremamente pericolosa, causando una eccessiva dipendenza e una tendenziale assimilazione alla figura paterna o materna, con i rispettivi disturbi che ne conseguono sul piano psichico. Più in generale, non esiste un sano consolidamento dell’io che non faccia i conti con un “tu” e con l’inevitabile conflittualità che si sviluppa nei confronti dell’altro in quanto tale. È proprio il rifiuto di vivere questo conflitto a determinare quella sua degenerazione distruttiva che è l’aggressione nei confronti del “diverso” per eliminarlo.

Si pensi, ancora, alla dialettica tra le forze politiche, che, quando è corretta, è l’anima di una società veramente democratica. Certo, il dissenso e la contestazione possono degenerare in rissa scomposta e in schermaglia inconcludente. Ma l’uniformità delle posizioni si realizza solo nei totalitarismi e non ci si dovrebbe meravigliare che, in un regime parlamentare, ci si possa scontrare, in piena buona fede, su idee e programmi.

Strettamente legato a questo tipo di divergenza è quello tra le fonti d’informazione. Fermo restando il dovere di riferire i fatti, è inevitabile che l’interpretazione che se ne dà pesi fortemente su questa presentazione, la quale perciò non può mai essere asettica e “al di sopra delle parti”. La vera portata di un avvenimento emerge proprio dal conflitto tra le varie letture che ne vengono date, lasciando all’opinione pubblica il diritto di dare più credito all’una o all’altra. Scandalizzarsi a causa di ciò significa, senza rendersene conto, auspicare un totalitarismo culturale che privilegi la versione ufficiale come l’unica vera e che sarebbe il contrario della buona informazione.

Altrettanto fecondo e importante è il conflitto tra posizioni filosofiche e scientifiche differenti. La storia del pensiero umano è storia di contrapposizioni feconde tra concezioni differenti, che però non si sono annullate a vicenda, ma hanno tratto da questa permanente tensione di punti di vista lo stimolo ad un processo indefinito di autocorrezioni e di aggiustamenti. Senza il conflitto tra la visione tolemaica e quella galileiana, con ciò che ha avuto di drammatico, non avremmo la moderna astronomia. E la forza di quest’ultima è stata di non chiudersi in una dogmatica autoreferenzialità, ma di lasciarsi rimettere in discussione da nuove sconvolgenti ipotesi, per esempio da quelle legate alla teoria della relatività.

Anche il confronto tra le culture implica inevitabilmente una conflittualità, che però consente anche una reciproca conoscenza e, alla lunga, una comprensione, un arricchimento reciproco che non ci sarebbero stati se l’“altro” non fosse mai comparso nel nostro orizzonte. Una società multiculturale non può a lungo sopravvivere se non diventa interculturale, vale a dire se la molteplicità non dà luogo a una effettiva relazione tra i diversi e non si inaugura uno stile di dialogo tra di essi.

Anche in economia, una tensione tra interessi differenti è l’anima del gioco di mercato, anche se la forma che questa tensione assume nel capitalismo finisce spesso per stravolgere il naturale pluralismo delle posizioni nella logica della legge del più forte che annulla il più debole.

Questo ci ricorda che il conflitto nella sua valenza costruttiva è sempre esposto al rischio di degenerare e di diventare distruttivo. È sbagliato pensare ottimisticamente, come fa Hegel, che la contrapposizione tra tesi e antitesi obbedisca a un’interna necessità, che la conduce inevitabilmente alla sintesi. La libertà degli esseri umani può dare un corso o un altro agli sviluppi del conflitto, con esiti che possono essere esaltanti o devastanti. Dipende da noi, oggi, creare una cultura del conflitto che, mettendone in luce le potenzialità positive, permetta agli uomini e alle donne del nostro tempo di non demonizzarlo.

 È questa la via da percorrere se si vuole evitare che, proprio perché non lo si capisce e non lo si accetta nel suo presentarsi fisiologico, il conflitto assuma il suo volto violento e distruttivo, teso alla cancellazione dell’altro, nell’illusione – sempre smentita dai fatti – di poter così raggiungere la sicurezza e la pace.

 

*Docente di storia e filosofia nei licei statali e responsabile della pastorale della cultura della diocesi di Palermo.

 

   

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