«Il
conflitto è padre e signore di tutte le cose», scriveva, cinquecento
anni prima di Cristo, il filosofo greco Eraclito. Una formula ambigua,
che può prestarsi ad alimentare il più angosciato pessimismo, come pure
una tenace prospettiva di speranza. Non per caso da un lato l’autore
stesso di questa formula è stato rappresentato, nella tradizione, come
un uomo tormentato e disilluso, dall’altro la sua concezione ha fornito
la base per tutte le teorie che hanno cercato di rivalutare l’aspetto
positivo del conflitto.
In effetti, in questo concetto si possono
sottolineare, a seconda dei punti di vista, due aspetti opposti, che
secondo alcuni sono anche complementari. Il primo è quello per cui il
conflitto implica una violenza distruttiva, che mette in pericolo i beni
a cui l’essere umano maggiormente tiene: la vita, la libertà, l’uso
delle cose. In questo senso, dire che il conflitto è signore del mondo
significa riconoscere che non c’è altra regola che quella della
sopraffazione reciproca, da cui scaturiscono gli assetti della vita
individuale e collettiva. Il secondo aspetto, invece, privilegia ciò che
il conflitto ha di fisiologico e di salutare per l’esistenza della
natura e in particolare degli esseri umani. Senza la lotta che gli
anticorpi conducono contro gli agenti patogeni l’organismo soccomberebbe
alla prima infezione. Qui esamineremo sia l’uno che l’altro aspetto.
Il conflitto tra gli individui
L’espressione più tipica del primo volto del
conflitto è la guerra. Intesa in senso lato, essa è il tentativo di
sopraffazione reciproca che oppone l’individuo agli altri individui. E
secondo questa accezione ne parla, all’inizio del Seicento, Thomas
Hobbes, quando afferma che la condizione originaria della specie umana è
la guerra di ognuno contro tutti. Sviluppata, in Inghilterra, alle
origini del capitalismo, la filosofia di Hobbes è la più realistica
rappresentazione della logica che già dominava e che sempre più avrebbe
dominato la società nascente dell’individualismo e del profitto: la
sfrenata volontà di perseguire il proprio interesse e, in ultima
istanza, la lotta per la sopravvivenza, portano gli esseri umani a
un’aggressività che non conosce altro limite che quello della paura di
essere, a propria volta, sopraffatti. Se, alla fine, gli uomini arrivano
ad accordarsi, è solo per questa paura, da cui nessuno può essere del
tutto immune. La pace è solo un compromesso tra opposte cupidigie che,
alla fine, trovano più conveniente e soprattutto più sicuro abdicare
alle proprie pretese per mettersi al riparo da una totale distruzione.
È difficile negare che l’amara analisi di
Hobbes abbia una carica di spietato realismo. La tendenza a porsi al
centro del mondo e a considerare gli altri alla stregua di potenziali
strumenti delle proprie aspirazioni e dei propri progetti è antica
quanto il genere umano. Ciò non significa che, quando i loro interessi e
le loro voglie confliggono, gli uomini siano sullo stesso piano degli
animali non umani: sono molto peggiori. Intanto, tra membri della stessa
specie, molto raramente i duelli si concludono con la morte di uno dei
due. E quando, tra specie diverse, la posta in gioco è la vita, ciò
avviene perché un’assoluta necessità biologica costringe il più forte a
divorare il più debole per poter sopravvivere. L’odio, la crudeltà, la
violenza gratuita delle lotte, che contrappongono fra loro gli esseri
umani, sono sconosciuti al regno animale.
Tutto questo si accentua in una cultura come
la nostra, dove il singolo si percepisce sganciato da ogni appartenenza,
da ogni responsabilità originaria e ritiene che i suoi obblighi verso
gli altri scaturiscano solo dagli accordi contrattuali che egli stesso
vorrà stipulare ogni qualvolta ciò risulterà per lui vantaggioso. In
questa società atomizzata, dominata dai miti del self-made-man e
del successo, soggetta ai meccanismi inesorabili del mercato, la logica
della concorrenza tende ad estendersi dai processi propriamente
economici all’intero arco dell’esperienza umana. Il quadro di
riferimento tracciato da Hobbes rivela, a questo punto, la sua
drammatica attualità. Ognuno contro tutti, senza regole che non siano
quelle imposte dall’esterno e subìte come un prezzo necessario da pagare
per garantirsi dalla violenza degli altri.
Guerra e terrorismo
Non c’è da stupirsi, a partire da queste
premesse, che la guerra in senso lato, come conflittualità permanente
tra gli individui, si traduca in quella in senso stretto, che è lo
scontro tra i popoli e tra gli Stati. Scontro militare, combattuto con
armi ed eserciti. Ma anche guerra diplomatica e guerra economica.
Per quanto riguarda la
prima, è appena il caso di segnalare il suo carattere cruento e
tendenzialmente spietato. Ma bisogna sottolineare che a lungo, in essa,
sono rimasti fermi due punti: il primo era che lo scontro era ristretto
a persone appartenenti all’ordine militare e che non si doveva usare la
forza nei confronti degli inermi; il secondo era che, anche verso i
combattenti, dovevano essere rispettate delle regole di umanità e di
lealtà, specialmente nel caso che essi si trovassero nella condizione di
vinti. «Da qui la minuziosa regolamentazione della guerra, che ha
trovato espressione, ai giorni nostri nelle “convenzioni di Ginevra” del
1864, del 1906, del 1922, del 1949». Queste regole, pur continuamente
esposte ad essere violate, hanno comunque segnato il confine tra il
lecito e l’illecito, anche in un momento così critico per i rapporti tra
i popoli com’è quello bellico.
In complesso, in Occidente, «la guerra del
lungo periodo fra XI e XVIII secolo sembra aver costantemente cercato
(sia pure con qualche lunga parentesi, specie fra Cinque e Seicento) di
non perdere di vista certi valori irrinunziabili, di rimaner
circoscritta ai combattenti e alle ragioni per cui era di volta in volta
scoppiata, di non coinvolgere la società nel suo complesso arrestandone
tutte le funzioni vitali, insomma di autolimitarsi. Gli ideali
cavallereschi prima, il diritto internazionale poi, la meditazione dei
filosofi settecenteschi infine, sono stati tentativi differenti di
umanizzare e limitare i conflitti».
Vi è stato dunque uno sforzo abbastanza
costante, volto ad evitare che lo scontro degenerasse in cieca rissa, in
brutalità e in ferocia illimitate, e mantenesse la razionalità di fondo
che si addice a un grande “gioco”, in cui non ogni mossa è consentita, e
non contro chiunque, e in cui rispettare le regole è altrettanto
importante che vincere.
Ma nel corso del secolo scorso le guerre
hanno assunto una valenza distruttiva nei confronti dei civili così
ampia da rendere sempre più difficile la distinzione rispetto alla pura
violenza. Emblematico il fatto che, «durante la Prima guerra mondiale il
90% dei morti furono militari; nella Seconda il 50% e nella guerra del
Vietnam solo il 10% (il 90% dei morti furono civili)».
Anche quanto alla guerra diplomatica e a
quella economica, bisogna dire che sono sempre esistite. Ma anche per
esse, soprattutto per la seconda, va segnalata una evoluzione – o
involuzione – legata al ruolo sempre maggiore dell’economia e al nuovo
contesto della globalizzazione. Dalla fine dell’Ottocento e sempre di
più nel corso del Novecento, fino ad oggi, il fattore militare è stato
al servizio del controllo dei mercati e delle fonti di energia. Ciò
viene cinicamente ammesso nelle sedi competenti e dagli addetti ai
lavori, anche se all’opinione pubblica si continua a presentare come
giustificazione dei conflitti questo o quell’ideale etico in grado di
nobilitarli.
Il figlio mostruoso di queste nuove forme
della guerra è il terrorismo, che, portando alle sue estreme conseguenze
la logica di una conflittualità sempre meno suscettibile di regole di
qualunque tipo, utilizza la violenza senza più porsi alcun limite.
La novità di questa forma di conflitto è che
ormai tutti ne siamo coinvolti. La distinzione fra combattenti e civili
viene definitivamente cancellata o, peggio, mantenuta solo nel senso che
i bersagli preferiti dei terroristi sono i secondi. Così, mentre in
passato la guerra era un evento che si svolgeva tendenzialmente, anche
se non esclusivamente, all’esterno, alla frontiera, ora esso ha come
teatro le vie, gli aeroporti, i centri commerciali delle nostre stesse
città. “Fuori” il nemico risulta introvabile. È tra di noi, non ci si
stacca di dosso neppure per un momento, neppure quando, per colpire,
deve morire insieme a coloro che aggredisce.
A questo si collega un altro carattere del
nuovo tipo di guerra, e cioè la maggiore vulnerabilità delle società più
evolute rispetto a quelle povere. I mezzi chimici e batteriologici, che
costano pochissimo, possono essere molto più efficaci, per mettere in
ginocchio una moderna metropoli, di quanto lo siano armi assai più
costose e sofisticate, come missili e portaerei, per colpire villaggi o
campi di addestramento disseminati nel deserto. Ormai la vittoria del
più forte non è affatto scontata.
Da qui un’insicurezza cronica, che nessuna
guerra aveva mai prodotto. Siamo al fronte quando andiamo a teatro o a
fare la spesa. La pace e la guerra non sono più nettamente distinte. È
un luogo comune osservare che il mondo globalizzato è caratterizzato
dalla caduta delle frontiere. Ma forse non era previsto che la prima a
godere di questa libertà di accesso, nelle nostre società, sarebbe stata
la paura.
Il
conflitto che genera vita
Il significato più ovvio del frammento di
Eraclito, alla luce di queste considerazioni, è che la signoria del
conflitto è quella della violenza e della morte. Ma è veramente così?
Senza voler negare la parte di verità che tale interpretazione contiene,
bisogna ammettere che essa esprime solo una faccia di questo complesso
fenomeno. Perché è innegabile che il conflitto è anche la molla
necessaria della crescita e dell’approfondimento dell’essere umano sotto
molteplici profili.
Si pensi al ruolo che esso gioca, in
psicologia, nella costruzione delle identità, per esempio nel caso della
fisiologica contrapposizione tra figli e genitori, necessaria per
completare il distacco dell’individuo dall’utero materno. Qui, anzi, è
l’assenza di conflitto che può risultare estremamente pericolosa,
causando una eccessiva dipendenza e una tendenziale assimilazione alla
figura paterna o materna, con i rispettivi disturbi che ne conseguono
sul piano psichico. Più in generale, non esiste un sano consolidamento
dell’io che non faccia i conti con un “tu” e con l’inevitabile
conflittualità che si sviluppa nei confronti dell’altro in quanto tale.
È proprio il rifiuto di vivere questo conflitto a determinare quella sua
degenerazione distruttiva che è l’aggressione nei confronti del
“diverso” per eliminarlo.
Si pensi, ancora, alla dialettica tra le
forze politiche, che, quando è corretta, è l’anima di una società
veramente democratica. Certo, il dissenso e la contestazione possono
degenerare in rissa scomposta e in schermaglia inconcludente. Ma
l’uniformità delle posizioni si realizza solo nei totalitarismi e non ci
si dovrebbe meravigliare che, in un regime parlamentare, ci si possa
scontrare, in piena buona fede, su idee e programmi.
Strettamente legato a questo tipo di
divergenza è quello tra le fonti d’informazione. Fermo restando il
dovere di riferire i fatti, è inevitabile che l’interpretazione che se
ne dà pesi fortemente su questa presentazione, la quale perciò non può
mai essere asettica e “al di sopra delle parti”. La vera portata di un
avvenimento emerge proprio dal conflitto tra le varie letture che ne
vengono date, lasciando all’opinione pubblica il diritto di dare più
credito all’una o all’altra. Scandalizzarsi a causa di ciò significa,
senza rendersene conto, auspicare un totalitarismo culturale che
privilegi la versione ufficiale come l’unica vera e che sarebbe il
contrario della buona informazione.
Altrettanto fecondo e importante è il
conflitto tra posizioni filosofiche e scientifiche differenti. La storia
del pensiero umano è storia di contrapposizioni feconde tra concezioni
differenti, che però non si sono annullate a vicenda, ma hanno tratto da
questa permanente tensione di punti di vista lo stimolo ad un processo
indefinito di autocorrezioni e di aggiustamenti. Senza il conflitto tra
la visione tolemaica e quella galileiana, con ciò che ha avuto di
drammatico, non avremmo la moderna astronomia. E la forza di quest’ultima
è stata di non chiudersi in una dogmatica autoreferenzialità, ma di
lasciarsi rimettere in discussione da nuove sconvolgenti ipotesi, per
esempio da quelle legate alla teoria della relatività.
Anche il confronto tra le
culture implica inevitabilmente una conflittualità, che però consente
anche una reciproca conoscenza e, alla lunga, una comprensione, un
arricchimento reciproco che non ci sarebbero stati se l’“altro” non
fosse mai comparso nel nostro orizzonte. Una società multiculturale non
può a lungo sopravvivere se non diventa interculturale, vale a dire se
la molteplicità non dà luogo a una effettiva relazione tra i diversi e
non si inaugura uno stile di dialogo tra di essi.
Anche in economia, una tensione tra interessi
differenti è l’anima del gioco di mercato, anche se la forma che questa
tensione assume nel capitalismo finisce spesso per stravolgere il
naturale pluralismo delle posizioni nella logica della legge del più
forte che annulla il più debole.
Questo ci ricorda che il conflitto nella sua
valenza costruttiva è sempre esposto al rischio di degenerare e di
diventare distruttivo. È sbagliato pensare ottimisticamente, come fa
Hegel, che la contrapposizione tra tesi e antitesi obbedisca a
un’interna necessità, che la conduce inevitabilmente alla sintesi. La
libertà degli esseri umani può dare un corso o un altro agli sviluppi
del conflitto, con esiti che possono essere esaltanti o devastanti.
Dipende da noi, oggi, creare una cultura del conflitto che, mettendone
in luce le potenzialità positive, permetta agli uomini e alle donne del
nostro tempo di non demonizzarlo.
È questa la via da percorrere se si vuole
evitare che, proprio perché non lo si capisce e non lo si accetta nel
suo presentarsi fisiologico, il conflitto assuma il suo volto violento e
distruttivo, teso alla cancellazione dell’altro, nell’illusione – sempre
smentita dai fatti – di poter così raggiungere la sicurezza e la pace.
*Docente di storia e
filosofia nei licei statali e responsabile della pastorale della cultura
della diocesi di Palermo.