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A
tessere la comunione dei santi è lo Spirito santo: come una spola egli
annoda le anime a Cristo e le une alle altre, intimamente. Tale legatura
si rende visibile nella Chiesa particolare a cui apparteniamo,
specialmente quando si raduna per celebrare i santi misteri. Ma
l’efficacia di questa legatura spirituale va al di là dei confini
visibili: tra me e un battezzato che vive in Nuova Guinea, che non
conosco e mai incontrerò quaggiù, esiste il vincolo di una comunione
inseparabile in Gesù. La Chiesa universale, una, cattolica, diffusa su
tutta la terra, è animata, in tutte le sue membra, dall’unico e medesimo
respiro del Risorto.
Parlare della comunione dei santi significa dunque parlare di noi. Di
ciò che dovremmo essere e non siamo appieno. Di coloro che ci hanno
preceduto nel segno della fede. Di quanti, dopo esser passati attraverso
la grande tribolazione e aver lavato le vesti nel sangue dell’Agnello,
stanno alla sua presenza nel santuario del cielo.
1.
Il circolo santo
L’innesto in Cristo immette nel santo circolo che vivifica i tralci
dell’unica Vite (cfr. Gv
15,1-7). San Paolo lo richiama attraverso l’immagine del corpo: quanti
hanno contratto con il solo Santo il vincolo battesimale, alimentato
dalla comunione eucaristica, sono in intima vicendevole unione.
«Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Con queste parole l’Apostolo esprime la radice comunionale tra i
cristiani, che viene prima delle mille qualificazioni che li
diversificano e li rende invisibilmente ma realmente fratelli, partecipi
della stessa Vita, perché rigenerati dall’unico Padre che sta nei cieli.
Tra due battezzati esiste dunque una comunione che va al di là del
vedersi, frequentarsi, essere amici. Così che la comunione invisibile
che corre tra me e un battezzato è più forte del legame di amicizia che
intrattengo con uno che non lo è. Certo, c’è la condivisione della
medesima natura umana; ma questa non è ancora la comunione dei santi,
alla quale è tuttavia ordinata. Contemplando gli effetti del sangue che
cola dal Crocifisso, san Gregorio Nazianzeno ne scorge tutto il potere
comunionale: « Minime gocce di sangue rinnovanti il mondo intero e
agendo per tutti gli uomini come il succo del fico che fa quagliare il
latte, riunendoci e stringendoci in uno» (Discorso 45, c. 29, pp.
36, 664).
Cristo è venuto nel mondo, infatti, per trasformare la solidarietà
naturale tra gli uomini in comunione dei santi. Il Verbo di Dio non ha
preso soltanto un corpo d’uomo: si è incorporato all’umanità e l’ha
incorporata a sé. «Assumendo una natura umana, è la natura umana che
egli s’è unita, che ha inclusa in lui, e questa tutta intera gli serve
in qualche modo da corpo. Naturam in se universae carnis adsumpsit.
Intera Egli la porterà dunque al Calvario, intera la risusciterà, intera
la salverà. Il Cristo Redentore non offre soltanto la salvezza a
ciascuno: egli è la salvezza del Tutto e per ciascuno la salvezza
consiste nel ratificare personalmente l’appartenenza originale a Cristo,
in modo da non essere respinto, “separato” da questo Tutto» (H. De Lubac,
Cattolicesimo, Roma 1964, p. 23).
Edificati dalla comunione
Da
qui derivano delle conseguenze concrete, in positivo e in negativo.
Vivere la comunione dei santi è sapere che il legame con Dio si riflette
nel corpo ecclesiale. Questo, infatti, non è una realtà statica, ma
dinamica, in crescita verso la pienezza di comunione col tre volte
Santo. L’intimità con Dio non è l’intimismo che rinchiude lo spirito
anziché dilatarlo.
Tradendo la comunione con Cristo, il peccato mortale spezza la comunione
ecclesiale. Per la comunione dei santi, infatti, misconoscere il
fratello, o la sorella, impedisce la comunione con Cristo: ricordiamo
l’ammonimento evangelico: «…lascia lì il tuo dono davanti all’altare e
va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Mt 5,24). Il non vivere
l’evangelica tensione verso “la perfezione del Padre celeste” non è solo
rallentare il mio cammino, ma frenare il progresso ecclesiale a motivo
del mio non essere lì dove dovrei essere.
Se
mi lascio intossicare dall’egoismo, qualcun altro ne risente. Se la mia
respirazione si fa asmatica, il mio apporto all’ossigenazione del corpo
è scarso. Peggio, può diventare tossico. Anche il peccato “veniale” non
è irrilevante: apatia, superficialità, abitudini antievangeliche formano
un deposito di colesterolo che ostruisce, nel dare e ricevere, il flusso
arterioso della santità.
Come il peccato di un membro pesa negativamente sugli altri così, con
intensità maggiore, la santità di un membro giova a tutti i fratelli: la
comunione con i forti facilita il progresso dei deboli. In ragione della
comunione ecclesiale, la mia pigrizia nel vivere il Vangelo viene
compensata dalla solerzia di altri. Il mio meno è compensato dal
più, pagato a caro prezzo, di altri. Pensiamo al dolore
innocente: o non ha senso, oppure se ha valore – noi lo crediamo – deve
fruttificare, come il sangue di Gesù. Il sangue dei martiri è seme di
nuovi cristiani. E’ fonte di purificazione e di rinnovamento per tutti.
Se
uno immette ossigeno in circolo, tutto l’organismo trae beneficio.
Dietro una vita che si converte c’è sempre l’offerta di qualcun altro,
noto soltanto a Dio.
La responsabilità
della comunione
Lo
Spirito che Cristo ha elargito ai discepoli, ossia il suo Spirito, è
Colui che fa penetrare il Vangelo nel fondo dell’anima e insieme Colui
che lo diffonde ovunque. Scava nell’uomo nuove profondità che lo
accordano “con le profondità di Dio” e lo lancia ecclesialmente fuori di
se stesso fino ai confini della terra. Ecco il motivo per cui santa
Teresina è patrona delle missioni. Senza uscire dal Carmelo, restando
nella sua cella, ha contribuito ad evangelizzare i popoli. Per il
principio della comunione dei santi, aveva chiaro che il suo impegno di
oblatività andava immediatamente a sostenere missionari dall’altra parte
del mondo. Così che era l’energia spirituale della piccola Teresa a
manifestarsi in missionari sconosciuti alla vista ma non al suo cuore.
La
santità è nascosta nel cuore, ma non ha nulla del ripiegamento su di sé.
Nessuno è un isolato nell’unico Corpo, ma ognuno è partecipe della
fecondità della Vita e responsabile del calore della Presenza. Creati a
immagine di Dio, e ricostituiti in Cristo a sua somiglianza,
riproduciamo in qualche modo in noi l’impronta della comunione
trinitaria. Non vi sono discepoli isolati, eccetto chi decide di
lasciarsi seccare come tralcio infruttuoso; ciascuno riceve da tutti gli
altri e a tutti deve rendere il suo contributo. «Che cosa», scrive sant’Agostino,
«è più tuo di te stesso? Ma che cosa non è tuo più di te stesso, se ciò
che sei è di un altro?» (cfr. In Io 29,3; PL 35, 1629).
Cristo vive in me e in ogni altra persona. E questo punto “cristico” di
me stesso che coincide con quello di ogni altro battezzato/a, è il segno
della comune origine e del traguardo comune. Occorre imparare ad
ascoltare la propria anima, sentendo palpitare in essa tutte le anime
dei nostri fratelli e sorelle. Questo fanno i monaci e le monache di
clausura. Altrimenti che senso avrebbe il loro separarsi dal mondo per
stringersi a Dio solo? La comunione ecclesiale anima il mistico e, a sua
volta, essa è animata da lui.
Si
tratta di ritrovare nel silenzio interiore l’armonia di una sinfonia
spirituale sempre più presente e vasta, così cantata da Claude nel
Cantique de Palmyre: «…Nessuno dei nostri fratelli, quand’anche lo
volesse, è capace di venirci meno, e nel più gelido avaro, al centro
della prostituta e del più sudicio ubriacone, c’è una anima immortale
che è santamente occupata a respirare e che, esclusa dalla luce, pratica
l’adorazione notturna. Le sento parlare quando noi parliamo, e piangere
quando mi metto in ginocchio. Io accetto tutto! Le ricevo tutte, le
comprendo tutte, non c’è una sola di cui io non abbia bisogno e di cui
sia capace di fare a meno! Ci sono molte stelle in cielo e il loro
numero sorpassa ogni mio potere di calcolarlo, e tuttavia non ce n’è una
sola che non mi sia necessaria per lodare Dio. Ci sono molti esseri
viventi, e a mala pena ne vediamo brillare qualcuno, mentre gli altri si
agitano nel caos e nei vortici d’una oscura melma; ci sono molte anime,
e non ce n’è una sola con cui io non sia in comunione per mezzo di
quella parte sacra in essa, che dice Padre nostro» (citato da H.
De Lubac, Cattolicesimo, Roma 1964, p. 305).
2. Al di là della
morte
La
morte non estingue la vita divina nei cristiani, anzi: è l’ingresso
nella vita non più sottomessa alla caducità presente. «La vita non è
tolta, ma trasformata», recita il prefazio dei defunti. In Cristo vivono
tutti coloro che gli appartengono, al di là dell’essere già usciti dalla
scena di questo mondo o ancora pellegrini verso il cielo.
La
comunione con i nostri morti è ravvivata massimamente nella celebrazione
dell’Eucaristia. E’ il pensiero che, secondo il figlio sant’Agostino,
esprime santa Monica ormai prossima alla morte: «Seppellirete questo
corpo, disse, dove meglio vi piacerà; non voglio che ve ne diate pena.
Soltanto di questo vi prego, che dovunque vi troverete, vi ricordiate di
me all’altare del Signore» (Confessioni IX,11; ufficio letture
del 27 agosto).
Nella Preghiera eucaristica ricordiamo i fratelli e le sorelle defunte,
per dire la comunione con loro e supplicare Dio per loro.
Vincoli familiari
Dal cuore orante della Chiesa, che è l’Eucaristia, il ricordo dei
defunti si estende ad altri momenti. L’ultima intercessione dei Vespri è
sempre per i defunti.
E’
antica consuetudine dei monasteri ricordare, ogni giorno, nella
preghiera comune i fratelli e le sorelle defunti. Anche nelle comunità
religiose sovente si è conservato l’uso quotidiano di leggere i nomi dei
confratelli o delle consorelle che sono morti in questo giorno e di
pregare per loro. Il sentire nominare persone con cui si è condivisa la
medesima vocazione, nella stessa famiglia religiosa, risveglia il flusso
comunionale: tornano alla memoria il loro volto, le loro opere, le loro
virtù, il cammino fatto insieme. Del resto, nel parlare di una famiglia
religiosa, pensando alla sua storia ed attività, sono computati più i
membri defunti che i contemporanei. I nostri confratelli e consorelle
defunti/e sono parte importante della “nostra” odierna comunità.
Il
legame con i defunti è naturalmente vivo nell’ambito familiare.
Ricordarli vuol dire sentire il dolore del distacco, ma insieme la
serenità per le cose belle vissute insieme; talvolta può affiorare il
rincrescimento per inadempienze, offese arrecate, sensi di colpa…
Capita a tutti, in date situazioni, di sentir tornare in mente parole
dei nostri genitori, considerazioni di un amico, consigli di chi ha
accompagnato la nostra vocazione... La comunione con i nostri defunti è
fatta di ricordi, ma anche di attualità: qualcosa di loro vive in noi,
ora, adesso; non saremmo quello che siamo senza di loro, il loro
esempio, la loro presenza nel nostro percorso umano e cristiano.
C’è chi vive un legame rasserenante con i familiari defunti. C’è invece
chi è inquietato e impedito di vivere (ci sono madri che dicono di
essere morte insieme ai loro figli). C’è poi – oggi, come ieri – chi
pretende di prolungare l’improlungabile: non mancano discutibili
tentativi di mettersi in contatto con gli spiriti dei morti mediante
sedute spiritiche, evocazioni, voci registrate.
Alla luce della fede
La
fede ci insegna a vivere da cristiani ogni evento dell’esistenza,
compresa la separazione dai nostri cari e la comunione con loro.
Ricordarli cristianamente vuol dire ringraziare il Signore per averceli
donati, trovare la forza di andare avanti, alimentare la speranza… Vuol
dire affidarci alla loro preghiera presso il trono dell’Altissimo. C’è
da pensare che la vocazione alla maternità e alla paternità non cessi
con la morte: mi piace pensare che i genitori defunti prolunghino, in
altro modo, verso i figli la vocazione ricevuta da Dio. Ciò che crediamo
di Maria, che dal cielo accompagna come Madre i discepoli del Figlio,
non possiamo pensarlo, analogamente, delle nostre madri e dei nostri
padri? La passione di confratelli e consorelle per l’Istituto non
continua anche da lassù?
L’aiuto che i defunti ci danno è “filtrato” dal volere divino: non
possiamo aspettarci che ci soccorrano in richieste che ci allontanano da
Dio anziché avvicinarci a lui. Contemplando i beni eterni, i defunti ci
aiutano a ottenere da Dio ciò che giova al nostro vero bene, non sempre
visto e compreso da noi come tale.
Come i nostri defunti ci guardano e ci seguono, così noi guardiamo e
pensiamo a loro. Hanno bisogno di noi i nostri morti? Sì. Perciò la
Chiesa ci esorta a elevare «una pressante supplica a Dio perché abbia
misericordia dei fedeli defunti, li purifichi con il fuoco della sua
carità e li introduca nel suo Regno di luce e di vita. I suffragi sono
una espressione cultuale della fede nella comunione dei Santi. Infatti,
«la Chiesa di quelli che sono in cammino, riconoscendo la comunione di
tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della
religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti
e poiché “santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché
siano assolti dai peccati” (2Mac 12,45), ha offerto per loro i suoi
suffragi” (LG 50). Essi sono in primo luogo la celebrazione del
sacrificio eucaristico, poi altre espressioni di pietà come preghiere,
elemosine, opere di misericordia, acquisto di indulgenze in favore delle
anime dei defunti» (Direttorio su pietà popolare e liturgia,
Libreria Editrice Vaticana 2002, n. 251).
3.
Davanti all’Agnello in vesti candide
Nell’antichità erano chiamati “santi” tutti coloro che comunicavano ai
“santi misteri”, giacché questi hanno la capacità di santificare
l’esistenza. Il termine fu poi riservato a quanti, nel tempo del loro
pellegrinaggio terreno, avevano dato prova di aver pienamente
accolto la santità di Dio.
Fondato nella Sacra Scrittura, il culto dei martiri è un dato
antichissimo. A differenza dell’uso romano di ricordare i defunti il
giorno della loro nascita alla terra, i cristiani scelsero di onorare i
santi martiri nel giorno della loro nascita al cielo. Al riguardo, san
Pietro Crisologo ha scritto: «I martiri nascono quando muoiono,
cominciano a vivere con la fine, vivono quando sono uccisi, brillano nel
cielo essi che sulla terra erano creduti estinti» (Disc. 108, in
Liturgia delle Ore II, p. 696).
I
martiri e i santi condividono la glorificazione del Capo che, attraverso
la grande tribolazione, li ha guidati alla gloria: hanno partecipato al
suo sacrificio, lavando le vesti nel suo sangue (cfr. Ap 7,9-14).
Pensiamo alla gioia – non fanatica – dei martiri nell’ora della morte,
sentita quale piena conformazione all’amore, momento di perfetta
circolazione della Pasqua di Cristo nei loro corpi oltre che nelle loro
anime. C’è una bella differenza tra il kamikaze che si rallegra di
perdere la vita per dar la morte ai nemici, e il martire cristiano che
accetta di essere ucciso perché non muoia in lui l’amore. Cristo infatti
muore per gli amici, non contro i nemici! Per lui non ci sono nemici da
far fuori: sulla croce egli dà la vita per tutti.
Venerazione e comunione
Dall’inizio, la Chiesa di Roma ha onorato con amore la memoria di Pietro
e Paolo, gli apostoli che l’hanno fondata con l’effusione del loro
sangue. La festa della cattedra di san Pietro, il 22 febbraio, si
richiama al pellegrinaggio che i cristiani di Roma compivano alle tombe
dei santi apostoli sul colle Vaticano e presso la via Ostiense, il
giorno in cui i loro concittadini si recavano sulle tombe di famiglia a
celebrare la cara cognatio, ossia i vincoli di parentela che
neppure la morte può dissolvere. Per la comunità cristiana di Roma, i
capi famiglia erano i santi Pietro e Paolo, e dunque presso i loro
sepolcri si raccoglieva in preghiera per far memoria delle sue origini
ed affidarsi all’intercessione degli apostoli.
Non tardò poi ad onorare anche i martiri che avevano reso illustri altre
Chiese. E oltre ai martiri, fece posto nel culto, dopo la Santa Madre di
Dio e accanto ai dodici apostoli, anche ai dottori d’Occidente, ai
grandi vescovi e ai padri del monachesimo, come Agostino, Martino e
Benedetto. La memoria dei Santi si arricchirà sempre più nel corso del
tempo.
Promovendo il culto, la Chiesa ha illustrato le ragioni teologiche e
disciplinato la venerazione dei Santi (cfr. SC 104). Dalla dottrina e
dalla preghiera liturgica è facile tracciarne l’identikit: sono
discepoli insigni del Signore e quindi modelli di vita
evangelica. Sono cittadini della Gerusalemme celeste. Sono
intercessori ed amici che ci accompagnano nel tribolato
pellegrinaggio terreno. Sono patroni di Chiese particolari, di
cui spesso furono fondatori o pastori illustri. Sono evangelizzatori
di nazioni. Sono fondatori di ordini e comunità religiose.
Una nota forma di esprimere la comunione dei Santi sono le Litanie.
Il rivolgersi a Dio affidandosi alla preghiera dei Santi e delle
Sante del cielo è adottato dalla comunità cristiana in momenti
particolari, quando si fa più fervida la sua supplica: nella Veglia
pasquale; nel rito del battesimo; nel conferimento degli ordini sacri;
nella consacrazione delle vergini e nella professione religiosa; nella
dedicazione della chiesa e dell’altare; nelle rogazioni e nelle
processioni penitenziali; quando si vuole allontanare il Maligno negli
esorcismi e quando si affidano i moribondi alla misericordia di Dio.
Vangelo vissuto
Nella festività di Tutti i Santi, alla celebrazione del “solo Santo” –
come acclamiamo Cristo nell’inno del Gloria – la Chiesa associa
quella dei santificati dal suo sangue. L’incommensurabile schiera dei
discepoli di Gesù – uomini e donne, giovani, anziani e bambini, di ogni
condizione e paese – che han risposto con generosità al dono di Dio
rischiara la solennità del 1° novembre, nella quale celebriamo con
gioia, in un’unica festa, i meriti e la gloria di tutti i Santi (cfr.
colletta). Anche la gloria di coloro che, pur non iscritti nel
Martirologio, si sono addormentati credendo in Cristo e sono assisi con
lui alla mensa del regno dei cieli.
Celebrare la santità di Dio riverberata nei Santi è aprire gli occhi del
cuore per contemplare la beatitudine di un’esistenza consumata per
mettere in pratica il Vangelo. In questa luce vediamo sfilare davanti a
ciascuno di noi i volti di persone care, contemplate in quella
«moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione,
razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e
davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle
mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio
seduto sul trono e all’Agnello”» (Ap 7,9-10).
L’assemblea di fratelli
e sorelle che stanno davanti al trono dell’Agnello ci sprona ad
affrettare il passo verso la comunione inseparabile con Dio. La vita dei
santi è come un catechismo in immagini, un’illustrazione delle varie
virtù proposte nel Vangelo. Dobbiamo imparare, sul loro esempio, ad
ospitare il Vangelo, versetto per versetto, nel nostro intimo, e a
tradurlo con coerenza in vissuto quotidiano. Questa è la via santa che
dalla città terrena porta alla Gerusalemme del cielo.
*Sacerdote
Monfortano, docente di liturgia al Marianum di Roma.
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