La
rivelazione ha portato in evidenza due elementi. Il primo, che il
destino umano non è l’essere soli, ma la comunione
filiale con Dio e la relazione
di fraternità tra gli uomini. E, secondo, che questo destino
relazionale, essendo stato turbato dal peccato, non è il
sogno sentimentale di una fusione
nel comodo appoggiarsi all’altro, ma si realizza attraverso il
distacco dalle false immaginazioni di autorealizzazione mediante le
proprie forze. Il modo filiale vissuto da Gesù, nel distacco da ogni
presunzione di fare da solo, è il luogo teologico cui guardare per
attuare il superamento di ogni forma di solitudine.
L’insegnamento
della rivelazione rischia però, per l’incredulità umana, di essere
relegato nell’ambito dell’inverificabilità delle cose astratte. Nel
fondo del cuore umano infatti preme la reale e sorda sofferenza della
propria e altrui solitudine. Sorge allora inevitabile la domanda se
questo stato sia integrabile nell’esistenza oppure permanga come
fatalità da subire? La domanda equivale a porre la questione se il
fatto della redenzione umana attraverso la croce di Cristo sia un dato
puramente teorico oppure sia verificabile nell’esistenza concreta?
Qui
interviene la sfida propria di ogni credente e, in particolare, del
consacrato. Egli con la sua vita è chiamato a testimoniare nel mondo
delle solitudini umane che il momento della desolazione interiore,
illuminato dalla grazia, può diventare un passaggio propizio per
realizzare quel rientro autentico in se stessi, che prelude alla capacità
di stabilire vincoli autentici di comunione con Dio e di fraternità con
gli altri. Occorre esaminare come ciò possa avvenire.
La
falsa soddisfazione di sé, copertura delle solitudini umane
Iniziamo
con l’osservazione: da dove nasce tanta angoscia da solitudine nel
nostro tempo? A mio parere dal rifiuto della solitudine come condizione
ineliminabile dell’esperienza umana.
L’apparato
iper-protettivo della nostra società stende un velo di onnipresente maternage
su ogni bisogno e ogni problema, tentando di annegare la solitudine del
cuore umano nel rumore dell’affollato “villaggio globale”. Ogni
bambino che cresce nell’opulenta società occidentale cresce con
l’illusione che sia possibile abolire ogni forma di sofferenza. Nella
convivenza sociale l’esistenza viene stemperata nella cortesia e nella
gentilezza. Questa gaia gentilezza
ha le sue forme stereotipe nel volto accattivante delle commesse, nella
cortesia dell’uomo d’affari o nella suadente proposta pubblicitaria.
La
falsa sicurezza che sia possibile vivere senza alcun residuo di
frustrazione, attutisce la capacità di accettare l’inevitabile
delusione della vita. E non appena si scava al di là della facciata si
scopre nel cuore dell’uomo una solitudine amarissima. Di fronte alla
quale peraltro non si riesce ad esprimere niente altro che la fuga,
poiché la delusione dell’insoddisfazione è pesante da sostenere.
Questa
descrizione, un po’ semplicistica ma non lontana dal vero, vuole
mostrare che a provocare il senso di vuoto e di solitudine è il disimpegno con la verità di sé e il contatto puramente esterno
con gli altri. I rapporti con l’altro - e tra questi il primo è
il rapporto con il Mistero di Dio - diventano significativi soltanto
nell’ordine della verità e dell’autenticità. Se si sta insieme
soltanto in ordine a cose da fare o a compiti da espletare, ma non c’è
attenzione da parte nostra o degli altri alla propria interiorità
personale, è allora che si fa più acuto un senso di frustrazione
vitale. La solitudine è un disagio endogeno che non nasce
necessariamente dall’assenza di persone vicine, ma può persino
sorgere dall’eccesso della loro vicinanza.
Fuga dalla solitudine
Questo
sentirsi soli è l’esito di
una visione dell’uomo centrata su di sé. L’uomo sganciato dal
rapporto con il Mistero è votato alla solitudine amara
dell’esistenza. Può tentare di risolverla, proiettando la propria
anima nella apparentemente esaltante avventura del fare e del possedere,
ma alla fine del percorso ritrova soltanto il suo limite. Ciò sgomenta.
E poiché come acutamente osserva san Tommaso “nessuno può abitare
nella tristezza” (De malo,
11,4) quello sgomento è l’inizio di un’inquietudine dello spirito,
che innesca la spasmodica acquisizione di qualcosa al
di fuori quale antidoto al
vuoto in sé.
L’uomo
allora si mette in fuga. Fugge dall’essere verso il fare o l’avere.
Fugge dal pensare nel parlare. Fugge dall’esistere nell’apparire.
Fugge dall’autentico nel surrogato. Fugge e sostituisce. Sostituisce
il nuovo al vero. Sostituisce la ripetizione all’inesauribile.
Sostituisce l’effimero all’eterno. E così, in questo processo
di estraneazione, l’uomo vive una forma più o meno grande di
smarrimento, poiché nessuna comparsa sulla platea del mondo può
competere con la dignità di sentirsi vivo dentro all’anima.
Nell’attuale
cultura dell’esteriorità lo smarrimento non è più solo un momento
dell’esistenza, piuttosto è diventato
sistema. Un attento lettore del nostro tempo ha interpretato la
civiltà della modernità occidentale con la metafora della perdita del centro.6 Smarrito il centro, la dinamica
dell’essere è polarizzata sugli estremi. Il soggetto di conseguenza
si trova dilaniato: tirato di qua e di là, senza un perno interiore
attorno a cui far ruotare la propria anima. Anima, peraltro, totalmente
assorbita dall’attività, e perciò spodestata dalla sua funzione di
unificazione di tutte le sensazioni che penetrano l’orizzonte
dell’esistere. La figura umana di arlecchino,
osservava con un’altra efficace metafora M. Blondel già alla fine del
secolo XIX, rispecchia la condizione dell’uomo nel frammentato e
variopinto vestito delle sensazioni subite e delle cose fatte.7
Dal
deludente panorama di chiassosità del mondo emerge un vuoto e un
bisogno che restano insopprimibili nel cuore umano. E quel vuoto, nella
lunga catena dei surrogati in cui si tenta di annegarlo, ritorna con
tutto il suo potenziale di interrogazione sul senso dell’esistenza.
Ma
che fare quando questo sentimento interviene? E’ possibile trasformare
la sua carica negativa in fattore positivo di maturazione di sé?
Elaborazione della solitudine
La
sofferenza della solitudine è un’esperienza che si può occultare e
allontanare per un certo tempo, ma non eliminare. E’ una forma
d’angoscia che prende l’esistenza e fa sentire se stesso inadeguato
nella vita. Di fronte ad essa si aprono due strade: o la paura crescente
di non potervi opporre alcuno sbarramento se non l’ingenuo tentativo
di occultamento oppure la sua assunzione, riducendone l’angoscia fino
a renderla produttiva. Non basta immergersi nei rapporti sociali per
scongiurare questa sofferenza. Forse mai come oggi è facilmente
comprensibile quanto si possa essere soli in mezzo alla folla. Occorre
invece guardarsi interiormente, accettare e fare i conti con il vuoto
esistenziale per approfondire la propria identità personale. Perciò la
solitudine esprime la condizione umana che esige di essere assunta ed
elaborata per diventare creativa.
Che
lo si voglia o meno, il sentimento di solitudine accompagna
l’esistenza dell’uomo, in quanto tale. Ognuno, che s’impegni
seriamente con la sua dinamica esistenziale, con i suoi desideri e le
sue attese, esperimenta, poco o tanto, l’insoddisfazione cui conducono
i tentativi di realizzare quei desideri e quelle attese. Alla fine si
esperimenterà sempre di essere soli. A meno che non si dimezzino le
attese o ci si accontenti di quella soddisfazione momentanea che è però
il preludio di un ricominciamento di altri desideri e attese. In un
circolo senza fine, che riproduce altra umana insoddisfazione in una
specie di impotente rimando a se stessi, insomma, ancora una volta, in
un sentimento di solitudine.
Quando
una fatica giunge al suo culmine e la gioia ricca di soddisfazione del
risultato ottenuto si spegne nella noia del già
visto e conosciuto, nasce l’interrogativo: A che serve? E’ chiaro allora che non si può sempre rimandare
tutto al futuro, dal momento che ogni futuro diventato presente mostra
di non poter colmare l’attesa ultimativa del cuore. Il cuore è
inquieto. Il cuore, il povero e grande cuore dell’uomo, esperimenta
sempre il momento della tristezza e della solitudine proprio perché nel
culmine di un compimento o di una riuscita, come finemente osservava C.
Pavese, resta sempre l’inquietudine della fine. Scriveva
all’indomani del conferimento di uno dei più ambiti riconoscimenti
letterari, il Premio Strega: “Hai ottenuto il dono della fecondità.
Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca di
esserlo. Eppure tutto ciò finirà”. E qualche mese dopo nel
ritirarlo: “Apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla”.8
Non
serve difendersi con una forma più o meno larvata di pessimismo
scettico sulla vita. Non ci si libera da un problema sfuggendolo, ma
attraversandolo.
Dalla solitudine alla scoperta di Dio e
dell’altro
Ecco
allora che il momento della delusione e della solitudine può
trasformarsi in un’occasione preziosa. Quando infatti si prova la
dolorosa sensazione della propria impotenza avviene un
fenomeno importante nella vita. E’ il momento di spoliazione che
conduce a vedere se stessi nella verità. L’io che di solito nel
momento favorevole si esalta - e quindi rischia di ingannarsi -, nel
momento della desolazione dello spirito ha a che fare con la giusta
misura delle cose e di sé. In tale circostanza può scoprire la verità
di sé.
Nella
sofferenza della solitudine l’io può diventare umile e predisporsi ad
accogliere l’alterità, così come la terra riarsa è attesa
dell’acqua. L’uomo deve scendere negli abissi della propria
solitudine e della propria miseria per liberarsi dall’orgoglio (o,
come pittorescamente lo descrivono gli psichiatri, dal delirio
di onnipotenza) e sgonfiarsi dall’illusione dell’auto-possesso.
Solo così l’uomo può accedere alla verità di sé e venire
introdotto al rapporto con gli altri.
La
prova della solitudine, dunque, non è solo dannazione: mentre brucia,
illumina. Porta a galla la verità profonda del cuore di essere povero e
debole. Purifica da tutte le forme con cui idolatricamente possediamo il
reale. Fa chiaramente vedere che cosa conta e ciò per cui vale la spesa
di vivere. Porta ad evidenza la nostra natura profonda quale è uscita
dal progetto di Dio, mostrando che solo un rapporto autentico con la
paternità di Dio e fraterno con gli altri può realizzare la propria
personalità.
Soltanto
chi ha provato l’amarezza della solitudine percepisce anche la gioia
di una solidarietà senza finzioni e di un rapporto che rompe la
monotonia delle relazioni sociali stereotipe. Chi si sente povero può
facilmente stringersi all’altro senza pretesa o presunzione. L’altro
diventa in tal modo compagno alla propria stessa povertà, favorendo una
relazione di reciproca appartenenza, non più in base a ciò che si può
dare o ricevere, ma nella luce del medesimo destino che libera entrambi.
Anche
il volto di Dio, infine, s’illumina per chi ha attraversato in prima
persona l’intricato rovo della solitudine. Allora appare il volto di
un Padre che porta in luce quella figliolanza che si era smarrita nella
presunzione di poter esistere da soli. Un volto che sa abbracciare con
lo sguardo e rispettare nella libertà: appunto, il volto di un Padre
che sa amare senza imporre e aspettare senza stancarsi delle giravolte
della libertà ribelle.
La testimonianza del consacrato
Al
consacrato non è risparmiata la fatica della solitudine. Forse è una
solitudine ancora più amara, poiché essa segnala un clima spirituale
abortito. Essa nasce sovente da un’incomprensione tra fratelli che non
dovrebbe esserci o da tiepidezze spirituali che rendono insipida la vita
comunitaria. Forse però, se si avesse il coraggio di guardare con
realismo questa miseria accostandola alla misericordia di Dio,
accadrebbe un evento di rinascita della propria persona. Evento che
nella vita matura occorre attendere e preparare.
Questo
è il miracolo da chiedere per ogni comunità di consacrati: che si
impari a leggere, alla luce della fede evangelica, la profonda forza
della miseria assunta nella
misericordia di Dio Padre, nella croce del Figlio amato e
nell’energia bruciante d’amore dello Spirito. Per questa via può
dischiudersi la forza di testimonianza di una solitudine
redenta.
Nella
nostra epoca così ferita nella sua umanità, un’esistenza trasformata
dalla consuetudine del rapporto con il Cristo sofferente e
nell’ascolto umile e generoso della propria e altrui solitudine,
diventa uno spazio di refrigerio per ogni persona su cui si abbatta il
doloroso disagio di sentirsi solo.
Continua
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