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1.
“… e si prese cura di lui”
«La comunità
cristiana, come comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata per prima
a mettersi alla scuola del Dio buon samaritano per continuare e
attualizzare la sua azione risanante. Come Lui avere occhi per vedere,
cuore per farsi vicino a chi soffre e prendersene cura»1.
Sono parole che ci invitano a guardare al buon samaritano come modello
del nostro prenderci cura del malato, ma sono anche provocazioni a un
agire che ne sia oggi un’adeguata incarnazione e a una formazione che
lo renda possibile.
Ma il tipo di sapere
che deve guidare oggi il nostro saper fare nel mondo sanitario, non può
eludere alcune domande “antropologiche” fondamentali: Chi è il
partner della nostra relazione? Cosa chiede il malato che chiede di
essere curato e guarito? Quale tipo di relazione dobbiamo intessere con
lui per rispondere, in modo efficace, alla sua domanda di salute? A
quali modelli, ad esempio, ci rifacciamo nel modulare la nostra
relazione di cura? A modelli militari (combattiamo una malattia e il
malato è il campo di battaglia), sportivi (non si può che vincere o
perdere la partita e il malato ne è il trofeo della vittoria o il segno
della sconfitta), tecnologici (legati all’efficienza dei mezzi a
disposizione, non sempre nostri preziosi aiuti ma troppo spesso nostri
sostituti e padroni), economici (c’è chi fornisce una prestazione e
chi la deve pagare e i conti devono sempre tornare) o politici (è un
luogo dove esprimiamo un servizio alla comunità o dove ci istalliamo
per gestire un potere)? O, pur non demonizzando tutto ciò, la nostra
relazione di cura ha un più ricco modello antropologico che la fonda e
che, nel riconoscimento, non solo teorico ma pratico, di una reciprocità
relazionale, ci invita a essere rispettosi della ricchezza di chi fa la
domanda di cura e a essere “critici” sulla nostra (a volte riduttiva
e povera) modalità di porci in relazione?
Non c’è
contraddizione tra la critica di una “ideologia della tecnica” e il
riconoscimento di una sua importanza per un miglioramento della cura. «Non
c’è contraddizione nella misura in cui ogni forma tecnica di
intervento sia immersa nel contesto di una intersoggettività radicale e
di un’atmosfera psicologica e umana: che consentano ai pazienti di
sentire intorno a sé, non fredde applicazioni di categorie tecniche, ma
presenze umane capaci di ascoltare e di fare, contemporaneamente
assistenza e terapia», capaci di ad-sistere (stare accanto) e
therapeuein (servire e curare)2.
La terapia e l’assistenza, però, non possono essere tali se non
all’interno di rapporti in cui la dignità umana della persona malata
è pienamente riconosciuta in tutti i momenti e contesti del percorso di
cura.
Nel nuovo contesto
socio-sanitario «in cui da una parte la persona vive il fascino della
moderna tecnologia applicata alla medicina e dall’altra avverte il
disagio, sia per l’impersonalità delle procedure, specialmente a
livello ospedaliero e della medicina specialistica, sia di fronte al
vissuto di disorientamento legato alla settorializzazione degli
interventi conseguente il predominio del concetto di competenza che al
massimo giunge a preoccuparsi del dolore fisico ma molto raramente delle
condizioni soggettive di benessere-malessere e quindi della sofferenza,
è riemerso anche qui in modo evidente il bisogno di soggettività»3.
Il malato vive spesso,
sulla sua pelle, un sentimento di frantumazione, di essere guardato e
curato da vari operatori sanitari, ognuno dal suo punto di vista, senza
il dovuto rispetto della sua interezza. Gli viene rimandata nella
relazione di cura, come in uno specchio, un’immagine frantumata e
parziale. Perché la risposta curante ridia unità al soggetto che la
chiede e continuità narrativa a una biografia che la malattia
interrompe, c’è bisogno, anche nella relazione terapeutica, di
riscoprire il modello di alleanza, di un patto in cui i due partner si
prendano sul serio nell’interezza della loro personalità e
dell’implicito esperienziale cui sia la domanda di cura che la
risposta a essa rimandano: non solo l’interezza del malato ma anche di
chi lo cura.
2.
Un’alleanza “attenta”
Alleanza terapeutica è
il nome che si può dare alla relazione tra chi soffre e chi lo prende
in cura quando tale relazione è intesa nella sua dimensione più
radicalmente esistenziale: all’interno di un’esperienza di malattia
si solleva una domanda di cura, cui un soggetto competente promette di
prestare aiuto. La malattia non è però semplicemente alterazione di
una parte dell’organismo e l’impegno terapeutico non si esaurisce in
un organo da far funzionare, in un virus-nemico da combattere, in
qualcosa che possa venir totalmente oggettivato.
La domanda di cura, la
richiesta di aiuto che il sofferente fa a chi gli sta intorno, è carica
di un’attesa più ampia della semplice prestazione tecnica, è ricerca
della propria vera identità e del senso che l’esperienza della
malattia ha all’interno della sua vita. Rispondere alle attese del
malato non può dunque ridursi alla sola offerta di servizi tecnici. La
domanda di cura è richiesta da parte di chi soffre di un suo
riconoscimento come persona e di una salute che gli interventi tecnici
da soli non possono pienamente soddisfare4.
La persona umana è una
realtà integrale, complessa e articolata espressione di più dimensioni
distinguibili ma non separabili: la dimensione somatica, quella
psichica, quella relazionale e quella spirituale. E tutto ciò ha
profonde implicazioni nel rapporto con il malato (a livello medico,
infermieristico, psicologico, tecnico e pastorale) e nel tipo di
formazione che deve rendere capaci di ri-conoscere la sua unità
globale, pur attraverso un approccio specialistico (e quindi dovutamente
parziale) che si concentra su qualcuna di queste dimensioni.
Nell’esperienza di
crisi della malattia colui che soffre viene chiamato a riscoprire la sua
unità globale pur nell’emergere differenziato delle sue dimensioni, a
cogliere la sua autotrascendenza ossia la sua incessante ricerca di
senso che lo porta a uscire da sé stesso per andare oltre l’attuale
condizione, a concepire la sua esistenza come dialogicità e
relazionalità all’interno di un progetto di alleanza con Dio e con
coloro che, prendendosi cura non solo della sua malattia ma di lui come
malato, colgano le voci della speranza nella sua invocazione di cura e
gestiscano con competenza e discrezione il suo affidarsi a loro5.
Non poche volte questo affidamento dà luogo a una relazione
paternalistica (e infantilizzante) se non proprio a un rapporto di
potere.
Se nel parlare di
alleanza terapeutica il riferimento è al modello biblico di alleanza,
c’è bisogno di qualche attenzione, non ultima quella di non
identificare l’operatore sanitario con Dio e il malato con il popolo
al quale Dio offre la sua alleanza: nell’alleanza terapeutica tra il
malato e chi lo cura ognuno dei due partner è immagine espressiva di
caratteristiche di Dio e del suo popolo, della presenza del
Cristo-samaritano e del Cristo-malato.
Quando la persona si
ammala, e chiede aiuto, affida se stessa agli altri, mettendo nelle loro
mani la sua vita e anche la sua autonomia. Il rischio è che i vari
operatori sanitari si facciano “padroni della sua vita” azzerando la
sua autonomia e rendendola sempre più dipendente anche sul piano
psicologico e funzionale.
Aiutare, guarire o
anche solo curare e riabilitare significa accettare l’affidamento
della persona in difficoltà, vivendolo come temporaneo e limitato anche
quando, per vari motivi, tende a durare nel tempo; vuol dire difendere
la vita del paziente, soprattutto la dignità e qualità della sua vita,
attenti a non mascherare dietro “il bene del paziente” la
soddisfazione di qualcosa che si radica altrove, come ad esempio
motivazioni, spesso inconsce, di controllo e di potere.
Nella malattia e nella
disabilità la situazione di dipendenza e la capacità di essere
autonomi subisce continue fluttuazioni, ma anche il bisogno di essere
protetti non è sempre assoluto e definito una volta per sempre. Se la
relazione terapeutica deve essere rispettosa della “soggettività”
del paziente e attenta al mantenimento di una buona qualità di vita, il
principio fondamentale è il riconoscimento della sua autonomia che
resta sempre “possibile” anche in presenza di una dipendenza che
rimane6.
Il malato è
estremamente “vulnerabile”, già ferito dalla malattia e dal dolore
ma reso ancor più fragile da inadeguate modalità relazionali: le
“ferite” di chi cura il malato, le sue in-consistenze non
riconosciute, le sue ansie, i suoi conflitti non risolti e le sue
in-competenze relazionali rischiano di debordare anche in forme, più o
meno celate, di controllo, di violenza e di potere.
La relazione di cura è
salutare solo quando l’operatore sanitario non si identifica
rigidamente nel “guaritore” ma si riconosce ferito ed è, per
questo, capace di “vibrare alle sofferenze altrui”, senza indebite
identificazioni, risvegliando nel paziente la sua forza di guarigione7.
3.
Soggetti in relazione
Nel rapporto
terapeutico è importante essere attenti a non “oggettivare” nessuno
dei due partner della relazione. Nella ricerca di ricostruzione di
un’identità che la malattia mette in crisi la persona chiede aiuto a
chi lo cura. Ma se questi “riduce” (e impoverisce) la sua identità
dentro un ruolo, o si fa rappresentare o sostituire dalla tecnica, non
può cogliere questo bisogno di identificazione del malato. Lo obbliga,
anzi, a stare dentro un ruolo - il ruolo di malato - con il quale
(soltanto) sa porsi in relazione.
La relazione
dell’operatore sanitario con il malato non è allora che una relazione
tra personaggi (tra maschere), tra ruoli funzionali tra loro, ma non tra
persone. Solo accettando la domanda di identificazione che il malato fa,
l’operatore sanitario può scoprire, o riscoprire, la ricchezza della
sua stessa identità, e solo così la sua risposta di cura può
esprimere il ricco modello antropologico di curante che, nella persona
del Cristo, buon Samaritano, il Vangelo ci affida.
Un’articolata
formazione umanistica è quindi importante, ma non deve ridursi a far
apprendere tecniche relazionali per convincere il malato ad aderire alla
cura, ma deve aiutare a saper stare nella relazione, a essere attenti
all’integralità esperienziale e comunicativa del malato senza fughe
ma anche senza illusioni. È la persona-curante il farmaco principale ed
è un farmaco che sviluppa la sua forza terapeutica nella relazione.
La guarigione della
persona attraverso i percorsi della malattia «richiede che si ascolti
non soltanto quello che preme per essere ascoltato (spesso si tratta di
un’organizzazione di sintomi che fa da paravento alla vera causa del
malessere, impedendo alla persona di modificarsi in profondità), ma
anche e soprattutto quello che è stato “scomunicato”, cioè
sottratto alla comunicazione. Si può, in altre parole, usare la propria
competenza nel guarire per “tenere a distanza” ciò che è veramente
importante»8,
ma che può risvegliare nell’operatore sanitario il difficilmente
gestibile, e quindi rimosso, mondo interiore.
Un certo uso della
tecnica può rispondere nei curanti a questo bisogno di difesa. Ne
deriva un regime terapeutico caratterizzato dal trascurare tutto ciò
che può riportare al centro il malato, la sua storia, i suoi problemi,
le sue emozioni e cioè tutti gli aspetti esperienziali presenti nel
rapporto di cura. Questo è raramente intenzionale, ma porta
automaticamente al risultato che (più ancora degli stress-indotti-dalla
malattia) siano gli stress-indotti-dal-rapporto-di-cura a inserirsi come
fattore patogeno (e fonte di sofferenza aggiunta) nell’esperienza di
malattia.
C’è bisogno, se si
vuole migliorare la relazione di cura, di rivedere (già a livello di
curriculum formativo) il modello terapeutico di riferimento passando da
un modello centrato sulla malattia, che diviene facilmente centrato sul
medico, sull’infermiere o sull’istituzione a un modello centrato sul
malato. Nella medicina centrata sul malato la relazione diventa un
momento del processo di cura che ha come protagonista il malato, perché
attenta a cogliere quali siano i significati che egli dà alla malattia,
i sentimenti da essa generati, le aspettative e i desideri con cui si
rivolge al medico e all’istituzione sanitaria, il contesto familiare,
sociale e culturale in cui è inserito9.
E questo avviene solo
all’interno di una relazione empatica in cui l’operatore sanitario
è capace di decentrare il fuoco dell’attenzione da sé stesso (dalle
proprie categorie mentali e dalle proprie emozioni) al malato e al suo
vissuto, cogliendo anche l’implicito delle sue comunicazioni, della
sua domanda di cura e del suo dolore: un messaggio in codice che non
sempre viene decifrato e al quale si risponde troppo spesso in maniera
puramente tecnica, senza averne prima decifrato il senso che ha per
quella persona, il posto che tiene nella sua vita e in quella della sua
famiglia10.
Una visione
antropologica integrale della persona (e una formazione che ne tenga
conto) ci aiuta a leggere la sua malattia come rottura di un equilibrio
che, se pur ha la sua matrice a livello somatico, interessa la persona
nella sua globalità e tocca le sue varie dimensioni. La riflessione
etica, e il tipo di formazione che essa motiva, deve quindi sempre più
interessarsi della difesa e promozione della vita e della salute della
persona in tutto il suo percorso vitale e, quando debole e malata, in
tutto il percorso terapeutico perché tutta la cura sia rispettosa del
malato, della sua dignità, della sua soggettività, dei suoi diritti e
doveri, primo fra tutti quello di essere partner attivo nel processo di
cura e nell’elaborazione di un senso a ciò che vive.
Se l’uso della
tecnica e del farmaco diventa sostitutivo della relazione impoverisce
non solo il malato ma anche chi lo cura. La riscoperta del soggetto non
vale solo per il malato ma anche per chi lo cura e non può non
influenzare i modelli formativi che vengono proposti.
4.
Responsabilità condivisa
Nonostante nuove
definizioni e dichiarazioni, riguardo alla salute non è ancora
avvenuto, sia in ambiti sanitari che nel più largo mondo sociale, un
vero cambiamento culturale. Troppo spesso le varie dimensioni che
costituiscono la salute vengono viste come separate, al massimo
confinanti, forse solo sommabili, ma non tra loro interagenti, in un
dinamico equilibrio in cui il soggetto è chiamato (e aiutato se
occorre) a trovare un suo baricentro. Se un cambiamento deve avvenire
nella pratica terapeutica, esso non può non partire da una formazione
che la deve preparare: una formazione che renda capaci di dialogare, non
solo con il malato e con i suoi familiari, ma anche con i vari
professionisti con i quali si lavora: un dialogo tra persone ma anche
tra prospettive scientifiche e professionali diverse.
Dovrebbe essere chiaro
che non è possibile per un singolo operatore sanitario rispondere alle
profonde ed esigenti domande di guarigione del malato, fare con lui
un’alleanza terapeutica che non lo deluda, o che non debordi in una
relazione paternalistica o di potere, se non facendo alleanza con tutti
quelli che hanno in cura il malato (e ne hanno a cuore la sua salute
integrale), condividendo competenze e sensibilità, accettando di essere
tutti insieme tasselli di un unico mosaico terapeutico, senza la pretesa
che siano la propria visione e forme di intervento professionale a
gestire o dominare il processo di cura.
La malattia come la
salute interessano la persona nella sua interezza e perciò rimandano a
una grande alleanza di fattori. Anche la terapia deve essere frutto di
un riuscito mosaico di conoscenze e competenze professionali. Solo
insieme i vari operatori sanitari realizzano un’adeguata terapia. Solo
insieme diventano comunità terapeutica e salutare in cui il malato,
viene curato nella sua interezza, in tutte le dimensioni in cui la sua
salute entra in crisi. Solo insieme possono prendersi cura del malato
come persona11.
In un nuovo modello
antropologico di salute e di cura, la collaborazione tra i vari
operatori sanitari non può essere frutto di “benevolenza” o
semplice amicizia ma preciso dovere morale se si vuol rispondere
all’integralità della domanda del malato e alle profondità del suo
bisogno di salute, di cura e guarigione. Per rimanere attenti ai vari
aspetti della domanda di cura da parte del malato (e di chi gli sta
accanto) ed essere capaci, per rispondere ad essa, di “con-laborare”
c’è bisogno di una formazione, per molti aspetti nuova, che renda
capaci di cogliere l’interezza della persona malata dietro alle sue
espressioni parziali e di dialogare rispettosamente con tutte le altre
professioni sanitarie, “con-dividendo” con i vari protagonisti della
cura conoscenze e relazioni. «Nel tessuto quotidiano della nostra vita,
nella realtà del territorio, della parrocchia e della famiglia si
incontrano le domande, le ansie, i bisogni della cura della salute. È
in questa realtà concreta che si vivono situazioni di malattia, di
sofferenza, di disabilità, di servizio sanitario. Tutti nella comunità
cristiana sono chiamati a prendere coscienza di queste diverse
situazioni, per conoscerle, interpretarne insieme le domande e i
bisogni, per rispondervi con una responsabilità condivisa»12.
La cura del malato
presuppone la capacità di cogliere la ricchezza della sua domanda,
saper leggere il suo dolore, i suoi vissuti emotivi, le sue relazioni,
la sua sete di significati e la sua tensione verso la trascendenza e
attuare (perché formati a farlo) un tipo di cura che risponda
integralmente, pur da diversi cammini specialistici, alla sua domanda di
guarigione. C’è bisogno, quindi, di “deprivatizzare” l’alleanza
terapeutica, senza nulla togliere all’importanza di alcune figure
professionali.
La relazione operatore
sanitario-malato, per essere sanante, non può che essere dentro a una
più ampia relazione comunità terapeutica-malato nella quale il
rapporto con il malato è anche relazione con la sua famiglia e con il
contesto socio-culturale in cui vive. La risposta al bene del paziente
non può essere “monopolio” di un singolo professionista. E, di
questo, anche la formazione deve farsene carico. L’alleanza
terapeutica deve diventare, quindi, anche alleanza tra tutti coloro che
del malato si prendono cura.
La salute non è uno
“stato”, un equilibrio dato, ma continuamente riconquistato in un
confronto interno ed esterno. Educare alla salute e alla sua cura
significa quindi educare all’umiltà intellettuale e alla libertà e
responsabilità: la nostra visione, proprio perché umana, è
necessariamente prospettica e dobbiamo affrontare i vari problemi
“dialogando” con chi si pone da altre prospettive, proprio perché
non siamo Dio e non possiamo avere il suo occhio. La dignità della
medicina olistica sta nella sua esigenza nobile di curare tutto
l’uomo, ma nella coscienza che ciò è un’utopia, una speranza e non
una certezza, che la salute è un già di salvezza di un non ancora che
mai potrà essere espresso completamente su questa terra. Il sapere, che
sta alla base di una cura salutare non può essere centralizzato e, a
volte, può essere trovato anche in luoghi insospettati e in voci poco
autorevoli, nel malato e in chi gli sta amorevolmente accanto.
L’umiltà
intellettuale, la capacità di interagire e la responsabilità sono
presupposti di carattere intellettuale e morale che forniscono i criteri
per la formazione, la collaborazione e la condivisione delle specifiche
competenze a servizio di chi soffre.
Formare buoni operatori
sanitari significa allora formare maestri della contingenza, esperti nel
curare “insieme” le ferite ma anche nel saperne fare buon uso,
mettendo in comunione valori e progetti come membri di una comunità
morale che non si limita semplicemente a condividere delle abitudini ma
fa appello alla responsabilità di ciascuno e alla con-responsabilità
di tutti: una comunità che condivide modalità simili d’azione perché
si pone dei fini comuni e cerca di attualizzare gli stessi valori.
La comunità ha
continuamente bisogno di essere salvata dal rischio di relazioni
non-sane, dalla strumentalizzazione dell’altro e dal dominio, e il
farmaco universale per questo è il dialogo. E “ragionando insieme”
si possono discutere e stabilire compiti e competenze, diritti e doveri.
Per questo motivo i professionisti della salute, nel loro cammino
formativo, sono chiamati oggi a “ri-scoprire insieme” i valori e i
significati della propria relazione di cura e soprattutto a far propria,
attraverso una formazione iniziale e continua, una “cultura
dell’intersoggettività” che non è, anche nelle sue fondazioni
umane, se non “cultura dell’umiltà”.
Come ci ricorda il
documento ecclesiale per la Giornata mondiale del malato di quest’anno
«l’esperienza della malattia e della sofferenza, pur nella sua
oscurità, può diventare momento di riscoperta di se stessi e di
intensa crescita umana. In altre parole una scuola di vita per chi la
vive e per chi sta accanto. Una comunità cristiana che non sappia
mettersi in atteggiamento di ascolto e di accoglienza del
“magistero” della persona malata e sofferente, si priva di una
grande possibilità di conversione spirituale e pastorale». La
relazione di alleanza, nel segno dell’interdipendenza e della
reciprocità, ci rivela il volto del Buon samaritano sia nel volto di
chi soffre che nel volto di chi se ne prende cura e apre «a una
esperienza di comunione non solo umana, ma, in un certo senso, divina,
nella partecipazione alla stessa comunione trinitaria»13.
Il discorso non deve
interessare solo i singoli. È tutta la comunità cristiana (se vuol
essere la chiesa di Cristo) che deve esprimersi, in tutto il suo agire
pastorale, come chiesa samaritana14.
Ma questo è un dono
del Risorto. “Quando si fa sera” (dentro all’esperienza della
malattia e della relazione di cura), come nella via di Emmaus, è il
Cristo che si fa nostro compagno di viaggio, ci svela il senso delle
scritture e scalda la speranza del nostro cuore.
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