n.9
settembre 2007

 

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La profezia non invecchia. Un percorso nella Bibbia
di Elena Bosetti

 

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A Claudia che ringiovanisce invecchiando

Non si può dire che invecchiare sia desiderabile, ma imparare a bene invecchiare è un’arte davvero apprezzabile. E di essa la Bibbia è maestra. Basti pensare al fatto che sorprendentemente sono uomini e donne avanti negli anni ad aprire cammini di vita e di futuro. In questa prospettiva seguiremo la carovana che lascia Ur dei Caldei guidata dalla Voce che sempre di nuovo mette in cammino, anche all’età di cent’anni. È giovane il Dio della Bibbia e non si stanca di camminare, provocando non solo fatica ma immensa gioia e sorriso che Isacco porta iscritti nel suo nome. Chi cammina al seguito del Signore rinnova le sue forze come l’aquila e leggermente nella vecchiaia insegna a danzare. Come Miriam, la profetessa dell’esodo. Come Debora, che desta il suo vigore e canta. Come Anna, la profetessa che mai si allontanava dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. E con immensa gioia. Le è dato infatti di godere della consolazione di Israele abbracciando l’Atteso.

La carovana guidata dal vecchio Terach

Da Ur dei Caldei parte una carovana di gente segnata dalla morte. La conduceva Terach, il padre di Abramo, che doveva essere vicino ai cent’anni stando alle indicazioni offerte da Genesi 11,26. Più che l’età doveva pesargli il dolore per la morte improvvisa del figlio Aran, avvenuta in sua presenza. Ma Terach guarda avanti, si fa carico del futuro. Prende con sé Lot, il figlio di Aran, e il proprio figlio Abram che in verità non lascia presagire un gran futuro, essendo sua moglie Sarai "sterile e senza figli" (cf Gn 11,27-32).

Scommette sulla vita quella strana carovana e parte e non sa che va aprendo un futuro di salvezza per l’intera umanità. Ma il Dio della Bibbia è giovane e fantasioso, e di certo non si annoia giocando con gli anziani. Anzi impedisce ai suoi fedeli di invecchiare.

Però gli anni passano, la bellezza di Sara avvizzisce e il suo grembo continua a restare terribilmente chiuso. Abramo stava perdendo la speranza di avere un figlio dalla sua amata Sara, tanto che gli viene da dire: "Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!". Ma Dio rispose: "No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco".

Come credere a parole che sembrano irrisorie? Ci vuole la fede di Abramo che tuttavia non può trattenersi dal ridere: "Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: "Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novanta anni potrà partorire?"" (Gn 17,17).

Un Dio che provoca il sorriso

Nel capitolo successivo la scena del sorriso si ripete per Sara. Era l’ora più calda del giorno, quando giunsero tre uomini presso la tenda di Abramo. Il vecchio patriarca li accolse con squisita ospitalità. Mentre mangiavano lui "stava in piedi presso di loro" (Gn 18,8) come uno che serve. Poi gli chiesero: "Dov’è Sara, tua moglie?" e Abramo rispose: "È là nella tenda". Il testo passa quindi dal plurale al singolare come se i tre fossero uno: "Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio" (v. 10). Sara stava dietro la tenda ad ascoltare, e come udì quelle parole "rise dentro di sé" (v. 12). Non propriamente un riso di gioia, ma d’incredulità. E Dio ci restò male. Vuole che Sara rida di gusto, rida davvero, rida nel raccontare che l’impossibile non esiste per chi crede: "C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio" (vv. 13-14).

E così avvenne. Sara concepì nella sua vecchiaia e partorì un figlio e cominciò a ridere di gusto, un riso pieno e liberatorio, un riso contagioso che si diffonde in tutto il vicinato: "Dio mi ha dato di che ridere; chiunque l’udrà riderà con me". E aggiunse: "Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure io gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia" (Gn 21,6-7).

Comincia così la profezia che non consente d’invecchiare, comincia facendoti entrare nella gioia dell’Eterno. Occorre che la vita consacrata non smetta di sognare, occorre mantenere viva la speranza anche se il grembo avvizzisce senza generare. Isacco verrà, il figlio della promessa ti farà cantare. E sarà gioia universale.

La profetessa che a novant’anni fa danzare

La Bibbia e le antiche fonti giudaiche riservano a Miriam/Maria, sorella di Aronne e di Mosè, un’importanza tutta particolare. La designano con il titolo di profetessa e la salutano come un autentico leader. È lei che sulle rive del Mar Rosso, alla bella età di novant’anni, prende in mano i tamburelli e coinvolge nel canto e nella danza le ragazze e le donne del suo popolo. Ma la storia di Miriam comincia assai prima. Aveva poco più di dieci anni quando, nascosta tra i giunchi del Nilo, vigilava a distanza sul piccolo Mosè. Il libro giudaico dei Giubilei aggiunge un grazioso dettaglio: "Tua madre veniva di notte per allattarti e durante il giorno Miriam, tua sorella, ti proteggeva contro gli uccelli" (47,5).

Circa ottant’anni dopo, Mosè e Miriam sono di nuovo insieme sulle rive del Mar Rosso. Insieme cantano e fanno cantare in onore di Jhwh. È "il canto del mare", una delle pagine più antiche della Bibbia: "Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze" (Es 15,20). È lei che insegna il ritornello: "Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!" (v. 21). Sembra nel pieno vigore della sua giovinezza questa donna che canta e danza con tanto entusiasmo, e invece è novantenne. Suscita perciò ammirazione ancora più grande e il suo entusiasmo è contagioso, trascina l’intero corteo femminile.

Miriam conosce l’arte che non fa invecchiare. L’apprende direttamente da Dio che "rinnova la giovinezza", rafforza le ginocchia vacillanti e pone sulle labbra un canto nuovo: "Ho pazientemente aspettato il Signore, ed egli si è chinato su di me e ha ascoltato il mio grido. Mi ha tratto fuori da una fossa di perdizione, dal pantano fangoso; ha fatto posare i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi. Egli ha messo nella mia bocca un nuovo cantico a lode del nostro Dio" (Sal 40,1-3).

Senza di lei non si può partire

Indubbiamente non basta passare il Mar Rosso per trovarsi capaci di libertà. Per vivere da uomini e donne libere non basta intonare canzoni di vittoria. La libertà la si impara con pazienza giorno dopo giorno. In tal senso i 40 anni di cammino nel deserto costituiscono una specie di apprendistato della libertà. Il popolo deve imparare a fidarsi di Dio anche nelle avversità, quando manca il pane e l’acqua. Cosa tutt’altro che facile! Puntualmente, quando manca l’acqua o il cibo, il popolo si lamenta e rimpiange l’Egitto. Per quanto sembri paradossale, la schiavitù riesce a dare infatti una certa sicurezza, mentre la libertà comporta rischio e avventura. In questo contesto si rivela assai preziosa la guida carismatica di Miriam che sostiene il popolo con il suo carisma profetico.

Nel libro dei Numeri troviamo un racconto che a prima vista non le fa onore. Si tratta di un peccato di gelosia nei confronti di Mosè, complice Aronne. Miriam paga le conseguenze del peccato anche per Aronne che viene risparmiato dalla lebbra a causa della sua dignità sacerdotale (cf Nm 12,11-13). Per sette giorni dovrà stare isolata fuori dall’accampamento. Nel frattempo la marcia si arresta: "Il popolo non riprese il cammino, annota la Scrittura, finché Miriam non fu riammessa nell’accampamento" (Nm 12,15).

Questo dettaglio dei sette giorni d’attesa è interpretato dalla tradizione giudaica come un segno della dignità di questa donna, tutti l’aspettano: dal popolo, ai sacerdoti, alla stessa nube gloriosa, cioè Dio. Proprio come si aspetta una donna importante! Lei ha meritato di essere "aspettata" per avere a sua volta saputo aspettare sulle rive del Nilo, finché la vita di Mosè non fosse in salvo: "Miriam attese un’ora … e Dio fece attendere a causa di lei, nel deserto, l’arca e la Shekinah, i sacerdoti, i leviti e tutto Israele, con la nube della gloria per sette giorni".

Miriam donna importante non perché senza difetti, ma nonostante i suoi limiti e difetti. Senza di lei non si può partire! Dovrà ricordarlo anche la profezia di voce maschile. Dice infatti il Signore per bocca di Michea: "Popolo mio, che ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Ti ho condotto fuori dal paese d’Egitto, ti ho liberato dalla casa di schiavitù, ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria" (Mi 6,3-4). Dio conduce il cammino dell’esodo per mano di due fratelli e una sorella piuttosto anziani (Mosè aveva ottant’anni!) e tuttavia giovanissimi, capaci di sognare il futuro e la libertà. La profezia della vita consacrata non consente di invecchiare perché fissa lo sguardo su Dio, sorgente dell’eterna giovinezza.

Sotto la palma di Debora

Quando il popolo di Dio entrò nella terra promessa si affacciarono presto le tentazioni preannunciate da Mosè, il fascino del benessere, la presunzione dell’autosufficienza e la conseguente dimenticanza del Signore (cf Dt 8,12-14). Il popolo volge il cuore a divinità pagane, ma sperimenta nuove forme di oppressione. Allora torna a invocare il suo Dio che si lascia muovere a compassione e fa sorgere i "Giudici" per ristabilire le sorti di Israele,

Si tratta di capi politico-militari piuttosto improvvisati, che fanno fronte alla situazione difficile. Essi non praticano attività di tipo forense, come la designazione a prima vista lascerebbe intendere, ma c’è un caso in cui ciò si verifica: è il caso di Debora, giudice e profetessa. Una donna che indubbiamente non brilla per riflesso di luce maschile, quale moglie o sorella di un uomo illustre. Semmai è lei che getta luce perfino sul generale Barak, il cui nome significa "raggio" (di sole).

Il libro dei Giudici la introduce come moglie di Lappidot (Gdc 4,4). Ma del marito non è detto nulla oltre il nome, mentre Debora che in ebraico significa "ape", è famosa come profetessa e giudice sapiente. Anticipa Salomone nella sapienza e dirime, lei donna, le controversie degli Israeliti: "Lei sedeva sotto la palma di Debora, fra Rama e Betel, nella regione montuosa di Efraim, e i figli d’Israele salivano da lei per le controversie giudiziarie" (Gdc 4,5).

La palma è un albero carico di simbolismo; nell’antico oriente era un albero sacro indicante la gloria di Dio. Infatti le pareti del Santo dei Santi nel tempio di Salomone erano ornate da palme, e lo erano anche i battenti (1Re 6,29-35). Ma in prossimità di Betel la gloria di Dio non si rivela nel chiuso di un santuario bensì all’aperto, nel tempio del creato, sotto una palma che accoglie i lamenti e i dissapori della gente. Sotto la palma di Debora la gloria di Dio illumina la vita quotidiana, si fa ascolto orante e poi giustizia e forza di liberazione.

La Profetessa che guida il Generale

Debora è profetessa audace che non teme il confronto coi potenti. Prende l’iniziativa di convocare Barak e gli ordina a nome dell’Altissimo di arruolare diecimila uomini per affrontare l’agguerrito esercito del re cananeo Iabin, che da vent’anni opprimeva duramente gli Israeliti. Barak tentenna, paventa il fallimento e pone infine un’ardita condizione: "Se vieni con me, andrò; ma se non vieni con me, non andrò" (Gdc 4,8).

Così il Generale si accaparra la possibilità di consultare Dio durante la battaglia e può contare sull’appoggio carismatico della Profetessa. Sarà lei a dare coraggio a un esercito improvvisato che deve affrontare il super agguerrito esercito cananeo (ben novecento carri da guerra!) capeggiato dal generale Sisara. Debora accetta, andrà con Barak alla battaglia, ma annuncia che la palma per l’uccisione di Sisara non andrà al Generale: sarà gloria di un’altra donna.

Ed eccola al fianco di Barak sulla cima del monte Tabor, certa dell’intervento del Signore che uscirà in campo come nell’esodo davanti al suo popolo. E infine Debora canta a Dio l’inno di vittoria. Il torrente Kison, come già il Mar Rosso, è testimone di un grande spettacolo: ancora una volta il Dio d’Israele capovolge le sorti, travolge i potenti e libera gli oppressi. Ancora una volta la profezia femminile dà voce ai sentimenti più profondi e intona il canto: "Io voglio cantare al Signore, voglio cantare inni al Signore, Dio d’Israele! ... Dèstati, dèstati, Debora! Dèstati, dèstati, intona un canto!" (Gdc 5,3.12).

Anna e Simeone, il vegliardo e la profetessa del Nuovo Testamento

Nel tempio, cuore pulsante di Gerusalemme, a Maria e Giuseppe che presentano il neonato Gesù, si fanno incontro un uomo e una donna avanti negli anni e pieni di Spirito santo. Il vecchio Simeone, "uomo giusto e timorato di Dio, aspettava il conforto d’Israele" (Lc 2,25), ovvero la consolazione messianica (cf Is 40,1; 49,13; 52,9). Luca lo presenta come uomo dello Spirito (il termine pneuma ricorre tre volte nel breve passo): lo Spirito di Dio era su di lui; lo Spirito gli aveva rivelato che non sarebbe morto prima di avere visto l’Unto del Signore; mosso dallo Spirito, si reca al tempio (cf Lc 2,25-27). Simeone è uomo familiare al mondo di Dio, si lascia muovere interiormente dallo Spirito e dunque può cantare: "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele" (Lc 2,29-32).

Gioia degli occhi che vedono ciò che tanto hanno atteso, la luce del Cristo destinata a brillare davanti a tutte le genti. Gioia del servo fedele che può andare nella "pace", secondo la parola del Signore.

Ed eccoci al personaggio femminile che ha fatto del tempio la sua casa: "Anna, profetessa figlia di Fanuel, della tribù di Aser. Era molto avanti negli anni: dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quella stessa ora, anche lei lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (Lc 2,36-38).

Anna ha fatto della lode divina il senso della sua vita quotidiana: "non si allontanava mai dal tempio", dettaglio che va interpretato in senso spirituale più che logistico. Luca la chiama "profetessa" benché non dica una parola. Cosa intrigante. Anna, profetessa silente. La sua profezia sembra affidata al semplice fatto di esserci, testimonianza irrinunciabile, presenza eloquente. Questa donna incarna la lode e uno stile entusiasta di annunciare Gesù. Invecchiata nel digiuno e nella preghiera, Anna oltrepassa la soglia dell’Antico Testamento, è già nel Nuovo: "parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (Lc 2,38).

E tu? La vita consacrata non consente d’invecchiare

Il nostro percorso attraverso la Scrittura ci ha permesso di cogliere alcuni tratti essenziali per apprendere a bene invecchiare in Colui che rinnova la nostra giovinezza. Mi limito a richiamarne alcuni a modo di conclusione.

1. Esodo da sé alla sequela del Signore. Non si finisce mai di ripartire, di rimettersi in cammino dietro Colui che ci ha chiamati e ci precede. È un tratto che accomuna i personaggi che abbiamo incontrato, dal vecchio Terach a suo figlio Abramo, padre di tutti i credenti; a Sara che strada facendo impara a divertirsi degli scherzi del buon Dio tanto che quando nascerà suo figlio lo chiamerà "sorriso"; a Miriam che mantiene l’allegria per il Signore e la trasmette alla generazione dell’esodo; a Debora che stava seduta sotto la palma ad ascoltare e dirimere le controversie per amore di giustizia e di pace e che, per le stesse ragioni, si alza, ridesta il vigore e chiama alla battaglia; ad Anna, la profetessa figlia di Fanuel, che cresce nel digiuno e nella preghiera fino a quando può stringere fra le braccia l’Atteso e parlare di lui a quanti attendono la redenzione.

La vita consacrata dovrebbe precedere in questo esodo da sé alla sequela del Signore. Non hai tempo di invecchiare, sorella amata, se ogni mattina ti rimetti in cammino dietro colui che è il tuo Futuro. Non hai tempo di lamentarti perché le sorprese del cammino – non importa se in verdissimi prati o in valle oscura – riempiono tutta la giornata… Ti resta invece tempo per lodare e cantare perché non hai da pensare a te ma soltanto ad amare.

2. L’arte di ascoltare. La profezia che non invecchia, e di cui la vita consacrata dovrebbe essere segno luminoso, si nutre di ascolto. Profeta dice infatti rapporto alla Parola, il "Verbo uscito dal silenzio" secondo la bella espressione di Sant’Ignazio: "C’è un solo Dio, il quale si è manifestato per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio, che è il suo Verbo uscito dal silenzio e che in ogni cosa è stato di compiacimento a chi lo ha mandato" (Ai Magnesii 8,2). Chi l’accoglie diventa incandescente. Brucia del fuoco stesso della Parola e non può trattenerla per sé, sente l’urgenza di annunciarla, di farne dono ai suoi fratelli. Così l’arte di ascoltare la Parola è indissociabile dall’arte di ascoltare il fratello e la sorella. Chi si esercita ogni giorno nell’arte esigente dell’ascolto non si appesantisce di cose vane, tiene cinti i fianchi della mente e continua a sperare (cf 1Pt 1,13).

3. La gioia di cantare. La profezia femminile nella Bibbia ha una sua voce peculiare: più che di oracoli è intessuta di canti. La profezia femminile è carica di parola ascoltata, custodita nel cuore, tessuta di carne nel grembo e portata alla vita con gemiti che intrecciano gioia e dolore. Perché la donna "quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’angoscia per la gioia che è venuta al mondo una creatura umana" (Gv 16,21). Canto di gioia e di liberazione, come insegnano la profetessa dell’esodo sulle rive del Mar Rosso (Es 15,20-21) e Maria di Nazaret nel suo Magnificat (Lc 1,46-55).

La profezia al femminile sa che invecchiare cantando è come non invecchiare affatto: è giovane attesa di generare il Figlio che porta con sé l’indicibile gioia.

ELENA BOSETTI
c/o "Figlie della Croce"
Via dell’Arancio, 68
00186 Roma

 

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