n. 4 aprile 2008

 

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Scusa, ti posso parlare di «vocazione»?

Come dire «vocazione» ai giovani d’oggi

di Amedeo Cencini

 

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La crisi vocazionale è anche crisi di comunicazione e di linguaggi, di simboli e gesti, di parole e di parabole. Abbiamo ritenuto per troppo tempo che l’appello vocazionale viaggi quasi automaticamente per mediazioni casuali o si trasmetta per vie misteriose ma che giungono sempre a destinazione, ovvero che non sia così importante l’azione dell’educatore e animatore vocazionale (dai genitori agl’insegnanti, dai vari educatori all’animatore vocazionale ufficiale…), come se a tutto bastasse la voce del Dio-che-chiama, irresistibile e vincente.

Peccato che i fatti non confermino questa allegra presunzione, e che ci ritroviamo, invece, a fare proposte vocazionali sempre più disertate e snobbate dai giovani, o a programmare

progetti di pastorale vocazionale che suscitano interesse, nel migliore dei casi, ma non adesione. Come mai?

Credo che il problema sia duplice: di contenuto e di metodo. E in tale doppio senso lo vorrei affrontare in questa breve riflessione.

Ricerca di senso

Credo che pochi termini abbiano bisogno oggi d’un salutare processo di … ripulitura, per recuperare il loro significato originario, come il termine «vocazione». Il quale suscita immediatamente nell’immaginario collettivo di chi si sente fare un certo tipo di proposta, un’idea ben precisa ed esclusiva, che ha a che vedere con seminari e dintorni, preti o suore, con una scelta dura e anche un po’ strana…

 È un po’ il peccato originale di certa animazione vocazionale, quello d’aver favorito in qualche modo tale restringimento interpretativo, finendo per rendere meno proponibile il messaggio vocazionale e scoraggiare in concreto l’adesione giovanile.

Abbiamo tutto l’interesse a tornare al senso autentico del concetto, poiché ad esso è collegato anche un bisogno originario della persona, del giovane in particolare, e il senso stesso della vita.

Il Dio chi-amante e l’uomo chi-amato

Vocazione vuol dire chiamata- infatti, e rimanda – su un piano psicologico - al significato della propria identità e al percorso che ogni essere umano deve fare per giungere ad avere una percezione sostanzialmente positiva e stabile di sé. L’identità è infatti costituita da un io attuale, ovvero da quello che un individuo è già dal momento della nascita, con le sue doti e i suoi limiti, e da un io ideale, o da quello che uno è chiamato a essere, che ancora non è, ma che percepisce come il proprio progetto ideale da realizzare.

Come si vede, dunque, il concetto di vocazione entra subito a qualificare il senso dell’io, come suo elemento costitutivo, un io che non esiste nella sua integrità né può cogliere la propria positività se non all’interno d’una relazione, con qualcuno (Qualcuno) che lo chiama. D’altronde esattamente questo significa il fatto d’esser chiamati: se qualcuno ti chiama vuol dire che sei importante per qualcuno, sei prezioso ai suoi occhi, c’è qualcuno che si prende cura di te, ti ha preferito alla non esistenza e ora si preoccupa del tuo futuro, ti fa una proposta pensata apposta per te e che ti realizza al massimo grado… Insomma, vocazione vuol dire questo messaggio di positività e dignità, è buona novella che riconcilia con la vita e con te stesso, e prim’ancora fa scoprire la presenza d’un Altro, che ha scritto il tuo nome sul palmo delle sue mani.

Come dire: l’evento della vocazione fa scoprire il volto di Dio come colui che è l’Eterno chiamante (o chi-amante, poiché chiama perché ama), e l’uomo come il chi-amato da Dio da tutta l’eternità (o il prediletto, l’amato da prima), chiamato alla vita e a realizzare un progetto pensato da Dio per lui.

Chiaro che un discorso così va rivolto a tutti, senza discriminazioni: è la verità d’ogni creatura, d’ogni giovane che s’affaccia  alla vita. Ma come realizzare tale progetto?

Grammatica vocazionale della vita

Il dono riflette il donatore, così il dono della vita da parte del Dio chiamante “parla” dello stesso Dio, ne esprime la natura amante, ne manifesta lo stile. Se Dio è amore, allora, la vita donata all’uomo è un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato. Questo è il senso della vita (ma anche della morte, in quanto compimento estremo del dono della vita), e in ogni caso ci sta a dire che la vita ha un suo significato che le viene direttamente dal progetto amante del Creatore, come una regola inscritta profondamente in ogni esistenza umana, una grammatica che ogni vivente ritrova scolpita nel suo spirito e nelle sue membra: la grammatica della vita. Come un processo naturale che non ha bisogno di dimostrazione, perché è del tutto logico che il dono ricevuto conservi integra la sua identità di dono e dunque tutta la propria carica altruista, che lo porta per natura sua a divenire bene donato. Non c’è nessuna forzatura, di alcun tipo, né moralistica né perfezionista, in questo passaggio dal bene ricevuto al bene donato; è una tensione naturale. Essa segna il passaggio dalla prima fase dell’esistenza, quale stagione del bene ricevuto (dalla nascita all’adolescenza), alla seconda fase esistenziale (dalla giovinezza alla vecchiaia), in cui la vita diventa un bene donato, senza che nessuno si senta un eroe. Al contrario, è logico che vi sia questa connessione tra bene ricevuto e bene donato, non potrebbe che esser così.

Ma allora, se le cose stanno in questo modo, è evidente il senso fondamentalmente vocazionale della vita umana. Se la vita è questo bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato, allora la vita stessa è vissuta bene quando la persona sceglie liberamente e responsabilmente di attuare questo passaggio. La vocazione è precisamente questa scelta, dettata dalla natura e assieme decisa dall’individuo. Questi dovrà capire che è libero di fare la scelta che crede per la sua vita futura, ma non è libero di uscire da questa logica vocazionale, dalla logica del dono, perché se ne uscisse, sceglierebbe il proprio male, sarebbe come un mostro, vorrebbe la propria infelicità e sarebbe per sempre infelice.

Ancora una volta, tale proposta del senso vocazionale della  vita sarebbe una proposta “universale”, rivolta a tutti, non semplicemente a qualcuno o a un gruppo ristretto o a quelli che sembrano più buoni e disponibili. Al contrario, tale messaggio vocazionale dovrebbe essere parte d’una catechesi essenziale sul senso elementare dell’esistenza umana, qualcosa che non consenta a nessuno di dirsi non interessato o già diversamente orientato. Allo stesso modo, se questo è il senso vocazionale della vita o se la vita è essenzialmente accoglienza d’un dono che tende per natura sua a divenire bene donato, la vocazione non è più qualcosa che si ha o non si ha: tutti hanno la vocazione per il semplice fatto d’esser viventi e d’esser dunque chiamati a viver il dono fino in fondo!

Ricerca di consenso

Affrontiamo ora il problema del metodo, del come giungere a suscitare nel giovane un interesse per la propria ricerca vocazionale, che si concretizzi poi in una decisione esistenziale.

Alcune attenzioni le abbiamo già indicate, ma molto resta da dire su un argomento che oggi appare sempre più problematico e dall’esito così incerto da scoraggiare chi ci dovrebbe lavorare. Vediamo allora di proporre qualche suggerimento tra i più importanti.

Le convinzioni dell’animatore vocazionale

Anzitutto è fondamentale l’atteggiamento dell’animatore/animatrice vocazionale e la chiarezza con cui interpreta il suo ruolo, che non è certo, essenzialmente, quello di portare vocazioni al suo istituto, bensì quello di aiutare il giovane a scoprire il progetto che Dio ha sulla sua vita. Finalità dell’animazione vocazionale non sono i nostri istituti d’appartenenza, per esser chiari, ma le persone che stanno cercando cosa fare della loro vita. Sarebbe un’animazione vocazionale mercantile quella che mira solo o soprattutto a interessi di parte, con esiti di solito perdenti. È logico che tutti oggi siamo preoccupati per la vita e le opere delle nostre Congregazioni, ma proprio per questo occorre agire con intelligenza e rettitudine, senza prendere scorciatoie o fare gl’interessi propri, ma piuttosto lavorando per la crescita generale della coscienza vocazionale universale. Se nella chiesa aumenta tale coscienza e tutti saranno aiutati a scoprire la propria vocazione, possiamo esser certi che vi sarà anche una crescita delle vocazioni di speciale consacrazione.

Se da un lato, comunque, diciamo no all’animatore vocazionale mercantile, dall’altro diciamo no anche all’animatore vocazionale pauroso e timido, incerto e …fin troppo educato, che si ritira non appena coglie che l’altro non è abbastanza interessato alla sua proposta. Chi lavora nella pastorale vocazionale deve credere …non solo in Dio, ma anche nei giovani, dev’esser animato da questa grande convinzione: che per tutti e ognuno c’è un piano di Dio e che tutti son chiamati a far dono del dono ricevuto, nessuno escluso. Lui - l’animatore - è lì apposta per questo, per promuovere questa coscienza e far sì che diventi scelta di vita, senza arrendersi ingenuamente dinanzi al primo apparente segnale negativo. Altrimenti lasci perdere, perché finirebbe per fare il disanimatore vocazionale.

D’altro canto i dati delle ricerche ci parlano d’un interesse forte in tal senso. Secondo l’inchiesta di Garelli non è affatto in crisi la vocazione di speciale consacrazione, visto che l’11% dei giovani confessa d’averci pensato (e 11 giovani italiani su 100 vuol dire circa un milione che han sentito nella vita la vocazione a farsi prete, religioso o suora); di questi, sempre secondo l’indagine, il 20% vi ha riflettuto per più di 3 anni e senza alcuna provocazione o aiuto da parte di educatori vari (ovvero circa 200mila giovani han coltivato questa idea in una cultura che certamente non va in questa direzione).1

I passi dell’animazione vocazionale

Occorre anche qui molta intelligenza, quella che riesce a coniugare saggezza spirituale e abilità pedagogica. Dovrebb’esser ormai del tutto tramontata l’immagine dell’animatore vocazionale che va ingenuamente subito al dunque, e parla di vocazione come ci fosse solo quella religiosa e sacerdotale, rischiando alla fine di bruciare la proposta stessa. Proprio per questo abbiamo indicato nella prima parte il senso autentico della vocazione cristiana, perché una genuina animazione vocazionale dovrebbe partire proprio da lì, da quella che abbiamo definito “catechesi essenziale sul senso elementare della vita”. Catechesi semplice e subito comprensibile che indica i punti centrali come un kerigma vocazionale, o annuncio che si rivolge a tutti senza escludere nessuno: una semina vocazionale che arriva ovunque, come nella parabola evangelica. Se si rispetta questa intelligente gradualità o se passano certi valori (come il nesso tra bene ricevuto e quello donato) poi si possono fare le proposte le più radicali ed esplicite, con speranza d’ascolto e adesione.

Lo stile dell’animazione vocazionale

È uno stile duplice, individuale e comunitario. Da un lato richiede attenzione alla singola persona, ascolto paziente, cammino su misura del giovane, considerazione del suo vissuto, provocazioni ben ponderate, tempo dedicato…, tutti atteggiamenti non così scontati e che suppongono la presenza d’un fratello o sorella maggiore, che si pone al fianco del fratello/sorella minore per fare assieme un tratto di cammino, o per aiutare a riconoscere la voce del Dio che-chiama e rispondergli.

D’altro canto oggi chi fa animazione vocazionale o chi ha richiamo e suscita interesse, specie se parliamo di vocazione consacrata, è la comunità più che il singolo. Una comunità di consacrati/e è molto più segno vocazionale rispetto all’individuo che vive la sua propria vocazione di consacrato; il fascino esercitato da una fraternità composta da diverse persone che non si sono scelte tra loro, ma che vivono unite nella condivisione dei beni materiali e spirituali, che crescono assieme nella santità, ciascuno facendosi carico dell’altro, del suo limite e del suo peccato, che si fanno dono reciproco della stessa misericordia che viene dall’alto, che assieme annunciano l’evangelo della salvezza per tutti, che sono ospitali e accolgono chiunque alla loro tavola e alla loro preghiera, e fan parte con tutti della gioia dello stare e del lavorare insieme…, ebbene questa comunità di santi e di peccatori ha un fascino vocazionale enorme sul giovane, mai come oggi alla ricerca di spazi vitali, ove la relazione con l’altro diventi via per ritrovare se stessi e Dio, la propria chiamata e l’Eternamente chiamante.

 

1 Cf F. GARELLI (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Cinisello Balsamo 2006. 59

Amedeo Cencini
Docente all’Università Pontificia Salesiana
Via S. Bakhita, 1 - 37030 Poiano (Verona)

 

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