Mi
propongo di articolare la riflessione sotto tre angolazioni: la Chiesa
come soggetto di povertà evangelica; povertà come opzione preferenziale
dei poveri; povertà come “Chiesa in stato di servizio”.
La Chiesa soggetto di «povertà»
evangelica
La povertà per la Chiesa è una
dimensione costitutiva, che esprime la sua connotazione cristologica.
L’aspetto che maggiormente colpisce
nella vita di Cristo è quello di veder attuata in lui la missione
profetica dell’evangelizzare i poveri, non solo affettivamente - con il
distacco del cuore dai beni della terra -, ma anche effettivamente:
Cristo si è fatto povero.
Yves Congar, uno dei grandi esperti
del Vaticano II affermava: «Non si deve, certo, fare di Gesù un
indigente: la famiglia di Nazaret era una famiglia di artigiani che
viveva del suo lavoro. Però, Gesù non sarebbe capibile staccandolo dalla
stalla di Betlemme e dalla croce. L’aspetto interiore, cioè di
disposizione spirituale, e quello esteriore, d’impoverimento effettivo,
appaiono inseparabili. Non è possibile perseguire una semplice povertà
di spirito che non si traduca in alcuna forma d’impoverimento esteriore.
Se è povertà cristiana, vissuta alla sequela di Cristo, non è separabile
da una comunione con la povertà del mondo» (Y. Congar, Chiesa e
povertà, Ave, Roma 1963).
Cosa può significare sul piano
pratico per la vita della Chiesa questa concezione cristologica di
povertà? Cosa può voler dire l’espressione «Chiesa povera»?
Una prima accezione riguarda
proprio l’aspetto dei beni materiali. La Chiesa segue Cristo povero se
affida la propria sicurezza e l’efficacia della propria azione
evangelizzatrice alla presenza di Dio e all’azione della Grazia, più che
ai mezzi materiali, ai beni posseduti, al sostegno delle forze
politiche, alle garanzie derivanti dai vari patti e concordati.
Considera pertanto le risorse materiali puri strumenti; si limita alle
cose necessarie ed elimina quelle superflue o di pura immagine.
Nel caso della Chiesa italiana, ad
es. tutta l’impostazione dell’8‰ legata al nuovo Concordato, comporta
indubbiamente alcuni aspetti positivi, quali la tranquillità economica
per i sacerdoti che consente maggiore libertà nel loro ministero,
l’attuazione di una perequazione tra il clero…
Il sistema attuale però non è il
migliore possibile, giacché comporta anche alcuni rischi per la
pastorale: deresponsabilizzare le comunità cristiane nei confronti del
mantenimento del clero; alimentare l’immagine del sacerdote come “uomo
garantito” e, in qualche modo, privilegiato, rispetto ai molti che
vivono nella flessibilità e nel precariato; c’è anche il rischio di far
apparire la Chiesa come una real-tà sociale ricca e potente, perché
dispone di molti mezzi economici: una Chiesa pertanto che probabilmente
avrà più difficoltà a schierarsi e ad apparire schierata a difesa dei
poveri.
Le persone consacrate, in ragione
della loro scelta radicale di vita, dovrebbero stimolare la Chiesa a
recuperare una maggiore coerenza evangelica. Per farlo, però, dovrebbero
essere e apparire come realtà che hanno fatto la scelta della povertà.
Non va dimenticato infatti il richiamo del Concilio ai religiosi/e a non
dare al loro voto di povertà un’accezione troppo “individuale” e
“spiritualistica”. È vero che i voti sono “personali”, ma è anche vero
che vengono pronunciati nella comunità religiosa, ed è la comunità il
“segno” più eloquente per la gente. Dice il Concilio: «Cerchino di dare
una testimonianza in qualche modo collettiva della povertà e volentieri
destinino qualche parte dei loro beni per le altre necessità della
Chiesa e per il sostentamento dei poveri, che i religiosi tutti devono
amare con l’amore di Cristo […]. Pur avendo diritto di possedere ciò che
è necessario alla vita temporale e alle loro opere […] tuttavia evitino
ogni parvenza di lusso, di lucro eccessivo, di accumulazione di beni» (Perfectae
caritatis, 13).
Una seconda accezione di
povertà della Chiesa è costituita dall’accettazione della propria
debolezza considerata non come limite da sopportare, ma come punto di
forza. La Chiesa è stata rappresentata da Gesù come “soggetto debole”
sotto le immagini del “sale e del lievito” (Mt 5,33). Il lievito è
piccola quantità rispetto alla pasta del pane. Egualmente il sale: non
si mangia, ma si nasconde e scompare: se resta poco, dà sapore, se è
troppo, rende il cibo immangiabile. La forza della Chiesa sta
nell’accettare di essere minoranza: una minoranza autentica, che trae la
sua forza da Dio ed è destinata a dare significato al mondo.
In questo senso la Chiesa oggi è
povera: sia sotto il profilo numerico, cioè in rapporto con la
popolazione del mondo; sia per la tipologia del messaggio che è poco
attraente: la dottrina della croce, la proposta delle beatitudini; sia
in ragione delle insufficienze e deficienze del clero (vocazioni sempre
più scarse) e dei cristiani (scandali, cattivi esempi, incoerenze). La
Chiesa è chiamata non tanto a “rassegnarsi alla propria debolezza”, ma
ad amarla, a considerarla come stimolo a porre solo in Dio la sua
fiducia, e ad accentuare la sua dimensione profetica, che è costituita
dalla santità. Storicamente constatiamo che Dio sa suscitare figure di
santi in tutti i momenti di crisi: Francesco nel periodo delle Crociate;
S. Carlo dopo la tragedia del Protestantesimo; S. Vincenzo de Paoli in
coincidenza alla corruzione della Chiesa; Giovanni XXIII in pieno clima
di secolarizzazione.
La Chiesa sperimenta la propria
debolezza anche nella crisi di vocazioni. Si può essere tentati in
questa congiuntura ad allargare le maglie dell’accoglienza dei
candidati: bisogna invece essere più esigenti nella scelta e più rigidi
nella disciplina. I giovani oggi si spendono per cause grandi e
impegnative (vedi la crescita di vocazioni alla vita contemplativa). Le
vocazioni fioriscono nell’humus della fedeltà alla parola di Dio
e delle forti testimonianze di vita: a San Salvador, dopo il martirio di
mons. Romero, si sono moltiplicate le vocazioni al sacerdozio; Giovanni
Paolo II ha conquistato più con la sua sofferenza che con le assemblee
oceaniche.
La debolezza quantitativa di
vocazioni sacerdotali può diventare un stimolo per abbandonare forme
clericali di gestione della pastorale, valorizzando molto di più i
laici. Si deve inoltre sfuggire al rischio della chiusura in una
spiritualità intimistica e asfittica, che ha come destinatari i pochi, i
soliti, gli anziani fedeli e si concentra nei pellegrinaggi devozionisti,
per aprire invece la comunità cristiana alla “missione” negli ambienti
lontani. Giovanni Paolo II diceva: «Chiesa esci da te stessa, per
ritrovare te stessa». Il lievito e il sale diventano significativi
quando si perdono nella pasta e nelle vivande.
Anche in questo secondo ambito di
povertà le persone consacrate, soprattutto quelle che operano nella
pastorale, possono aiutare la Chiesa. Esse avranno forza propositiva
nella misura in cui avranno affrontato positivamente i problemi
emergenti dalla crisi vocazionale, con scelte coraggiose e innovative.
Scelta preferenziale dei poveri
La seconda angolazione della povertà
ecclesiale è data dall’opzione preferenziale dei poveri, ricalcando
l’esempio del Signore.
È doveroso evidenziare in primo luogo
i motivi di questa scelta. Essa non è dettata da ragioni sociologiche
pure legittime: volontà di favorire l’uguaglianza, dando di più a chi ha
meno; e neppure da cause di opportunità pastorale: accrescere la
credibilità della Chiesa e così più facilmente raggiungere i lontani. La
scelta è dettata esclusivamente da motivi cristologici, cioè di fedeltà
a Cristo. La Chiesa è chiamata a fare la scelta dei poveri, perché è
sacramento di Cristo, e Cristo ha fatto questa scelta. Gli ultimi sono
una categoria evangelica, messianica.
Nella visita alla sinagoga di Nazaret,
Gesù stesso ha applicato a sé le parole del profeta Isaia che
identificavano così il Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me,
perché Egli mi ha consacrato per annunciare ai poveri la buona novella;
mi ha inviato a proclamare la libertà ai prigionieri, ai ciechi la vista
e a rimandare liberi gli oppressi […]. Oggi questa Scrittura si è
compiuta» (Lc 14,18-21).
In Matteo 25,31-46 Gesù ha presentato
il servizio ai poveri come condizione di salvezza. Commentando questo
testo il card. Martini scrive: «Questa pagina ci dice, senza mezzi
termini, che c’è un solo modo possibile per salvarsi: quello di rendere
alcuni servizi essenziali e primari al Signore, al Figlio dell’uomo: e
che questo misterioso Signore è presente nei fratelli più piccoli.
Matteo, parlando di ammalati, affamati, assetati, carcerati, migranti
[…] usa espressamente la parola ‘ultimi’, ‘infimi’». Cristo, perciò,
nell’amare i poveri, è il perché e il modello del cristiano e della
Chiesa.
Senza soffermarmi su chi sono i
poveri e gli ultimi, mi limito semplicemente a ricordare che i poveri
non si esauriscono nelle categorie economiche, anche se l’aspetto
economico ha quasi sempre una rilevanza determinante per le persone e le
famiglie in difficoltà. D’altronde, la tradizione biblica e cristiana ci
ha trasmesso l’elenco delle 14 opere di misericordia, 7 corporali e 7
spirituali, quasi a dire che l’amore dei cristiani deve abbracciare
tutta la persona e i credenti devono essere disponibili a impoverirsi, a
rinunciare al proprio benessere, alle proprie comodità, al proprio
tempo, pur di dare una mano a chi è in difficoltà.
Inoltre va richiamata la doppia
dimensione della povertà. Povero è chi per un verso non ha risorse
sufficienti per una vita dignitosa e per assicurare il proprio sviluppo;
per un altro verso è chi non è messo in grado di collaborare al bene
comune, e quindi sperimenta la sensazione di emarginazione, di
esclusione sociale, d’insicurezza, d’inutilità. Giustamente Paolo VI
definiva i poveri come «coloro che non contano; coloro di cui non si
ascolta il parere; coloro sui quali si decide, senza preoccuparsi che
siano essi a decidere, nemmeno sulle decisioni che li riguardano».
Scegliere i poveri, di conseguenza
costituisce di per sé un annuncio di fede; equivale a dire con i fatti
che la persona – ogni persona, anche l’ultima - è al centro di tutto: lo
è per il Signore, lo è anche per noi.
L’aspetto più legato al nostro tema è
la scelta ecclesiale dei poveri. Scelta ecclesiale - della diocesi,
delle singole parrocchie - significa che l’opzione preferenziale dei
poveri non è un problema “settoriale”, cioè proprio dell’ambito
caritativo assistenziale, ma è “trasversale” a tutti i settori pastorali
e tocca lo stile stesso della pastorale. La comunità cristiana va
concepita come un popolo in cammino, che si muove insieme e ritma i
propri passi nella misura dei più deboli.
Riguarda perciò la catechesi:
chi sono gli ultimi in questo ambito? Chi ha maggior bisogno di
annuncio? Chi è più trascurato? Riguarda l’amministrazione dei
sacramenti: quelli dell’iniziazione cristiana e in particolare il
sacramento del matrimonio. Nella gestione di queste celebrazioni vengono
fatte discriminazioni? I poveri si sentono vera-mente trattati alla
pari? Riguarda la costruzione e l’accessibilità degli edifici sacri
o di uso pastorale: sono comodi anche per le persone anziane e per i
disabili? Riguarda la composizione dei Consigli pastorali: c’è la
preoccupazione che vi siano anche persone di modesta cultura o persone
che vivono particolari disagi? Riguarda la struttura dei bilanci
parrocchiali: esiste la voce “solidarietà” con i poveri? Quale
consistenza ha? Quale impegno esiste per i poveri del Terzo Mondo?
Riguarda infine i servizi sociali gestiti dalla Chiesa: scuole
materne, scuole primarie o medie, servizi socio-sanitari, servizi
sportivi…: sono aperti a tutti, anche a chi dispone di pochi mezzi,
oppure sono una riserva per chi può pagare?
Anche su questo aspetto è importante
l’apporto che possono dare i religiosi e le religiose. Dovrebbe essere
un vanto per le persone consacrate trasmettere all’intera comunità la
loro tensione di “poveri a servizio dei poveri”. Questo però suppone che
per primi/e offrano all’interno della propria comunità un esempio di
attuazione di questa prospettiva. Ad es. i più deboli: i religiosi/e
anziani, malati, meno istruiti, come vengono trattati nella gestione
ordinaria dell’Istituto e nelle scelte strategiche della congregazione?
C’è riconoscenza per il lavoro di una vita svolto da chi oggi è inabile?
C’è l’attenzione ad ascoltarli e a sentirne il parere almeno nelle
scelte che li riguardano? Come si affronta il rischio che il criterio
dell’efficienza e della produttività finisca per diventare dominante
anche nella vita religiosa?
L’altra esperienza che dà forza ai
religiosi/e per una eventuale spinta alla parrocchia viene dalla
testimonianza dei loro servizi. Quasi tutte le congregazioni con una
certa tradizione storica sono sorte con la prospettiva di servizio ai
poveri: asili, scuole, ospedali. Quanto è stato conservato di questo
carisma originario? Sono riconoscibili come scelte prioritarie per i
poveri le nostre opere: scuole, cliniche, centri di aggregazione
sociale?
Una Chiesa in stato di servizio
La terza dimensione della povertà
ecclesiale è di sentirsi come Chiesa a servizio dell’umanità:
espropriarsi di se stessa e sentirsi tutta e solo in funzione della
salvezza del mondo. Due sono le strade che oggi maggiormente s’impongono
alla Chiesa nella sua missione di servizio all’umanità.
La prima strada è di fungere
da “coscienza critica” di fronte alla società civile, all’economia, alla
politica, richiamando quei valori che «a causa dell’accecamento etico,
derivante dal prevalere dell’interesse e del potere, sono in pericolo.
La Chiesa ha il dovere di offrire il suo contributo […] affinché le
esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente
realizzabili» (Deus caritas est, 28).
Si pensi al tema dibattuto negli
ultimi anni sull’autenticità della famiglia, fondata sul matrimonio fra
l’uomo e la donna. Si consideri il tema più recente della vita umana e
dell’aborto. È balzato immediatamente agli occhi dei credenti, ma anche
di molti laici, la contraddizione tra l’impegno doveroso e giusto -
appoggiato anche da forze laiciste e sedicenti tali - contro la pena di
morte e l‘indifferenza per il massacro di milioni di innocenti,
attraverso la pratica dell’aborto. Tanto zelo per la difesa giusta della
vita di chi si è macchiato di delitti gravi e l’indifferenza di fronte
alla soppressione di milioni di vite innocenti.
Si pensi anche al permanere da
decenni di una fascia molto alta di poveri, in un paese come l’Italia,
che è tra i più ricchi del mondo: presenza denunciata dal rapporto
congiunto della Caritas Italiana e Fondazione Zancan. Naturalmente la
Chiesa nel richiamare questi valori umani insidiati dalle scelte
politiche ed economiche non può attendersi applausi. Sono infatti
interventi che “disturbano il manovratore”. Nessun “servo” attende
applausi. È importante però fare bene il servizio.
Una seconda strada per servire
l‘uomo e la società è quello di offrire allo Stato un contributo di
servizi sociali concreti dentro il piano nazionale di Welfare. Si
costruisce il bene comune parlando, ma soprattutto facendo.
Ne tratta Benedetto XVI
nell’enciclica Deus caritas est, quando, dopo aver ricordato che
questo tipo di presenza fa parte della tradizione millenaria della
Chiesa ed è quindi un suo ‘diritto-dovere’, pone il problema
sull’identità specifica dei servizi ecclesiali. Come si distinguono da
altri servizi gestiti dallo Stato o dalle forze sociali? Come rientrano
nella missione di salvezza della Chiesa? Il Santo Padre risponde
indicando quattro caratteristiche:
- la prontezza nel rispondere
al bisogno. Si potrebbe dire che la Chiesa deve esprimere una capacità
profetica nel cogliere i bisogni nuovi, scoperti;
- la competenza professionale:
si potrebbe parafrasare dicendo che “non basta fare il bene: bisogna
farlo bene” e questo implica anzitutto la formazione permanente degli
operatori;
- l’attenzione del cuore: «Non
si limitano ad eseguire in modo abile il servizio… ma si dedicano
all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che (i
pazienti) sperimentino la ricchezza di umanità» (Deus caritas est,
31/A).
- l’impegno per i diritti dei
poveri: «È necessaria la voce comune dei cristiani per uno sviluppo
del mondo verso il meglio, per il rispetto dei diritti e dei bisogni di
tutti, specie dei poveri, degli umiliati, degli indifesi» (Deus
caritas est, 30/B).
In sintesi è richiesto alla Chiesa di
proporsi come modello e battistrada di un vero servizio all’uomo e di
costruzione di una nuova qualità della vita.
Anche in questo ambito i religiosi/e,
in forza del voto di povertà, possono costituire un notevole aiuto alla
Chiesa per vivere la sua identità di Chiesa povera in stato di servizio.
Lo faranno con efficacia nella misura in cui per primi realizzeranno
servizi sociali, educativi, sanitari, in linea con le indicazioni
dell’enciclica papale, e si muoveranno con l’attenzione aperta ai
bisogni del territorio, sottolineando anche la dimensione mondiale dei
problemi. In tal modo, operando insieme, Chiesa e religiosi/e,
realizzeranno un trasferimento dei valori evangelici dal livello della
semplice testimonianza evangelica, a quello dell’animazione della
società civile.
Giuseppe Pasini
Presidente della Fondazione
Emanuele Zancan
Via Andrea Memmo, 49 -
35122 Padova
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