n. 10
ottobre 2008

 

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Il perdono nella comunità

di ANGELO AMATO

 

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Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l'elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

La comunità, casa del perdono

Il perdono è un gesto umano che diventa azione divina. Perdonando, si imita la misericordia del Padre. In ogni comunità è indispensabile avere il coraggio di contraccambiare con il perdono ogni atto d’ingiustizia, perdonando non con parsimonia, ma con generosità. Il perdono è l’azione che più corrisponde alla nostra vocazione di consacrati. A ragione l’apostolo Paolo ammo-niva gli Efesini: “Vi esorto dunque io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ef 4,1-4).

Il perdono è un atteggiamento, che è frutto esclusivo della carità. Senza amore non c’è perdono. Il perdono cristiano è total-mente gratuito e riesce a perdonare quello che umanamente è imperdonabile.

Diana Seggio ha 28 anni quando vede morire i suoi cari, uccisi per una vendetta trasversale a Palermo. Nella chiesa di Santa Teresa, il 28 luglio 1991, davanti alla bara grande del marito Giuseppe e a quella piccola del figlioletto Andrea di quattro anni, recita questa breve preghiera: “Non posso odiare gli assassini, non ho mai odiato nessuno. Il mio cuore sanguina e cerca la pace. Ma la pace si trova solo con il perdono”. Il 25 maggio del 1992, Rosaria Schifani, vedova di un agente della scorta di Giovanni Falcone, durante i funerali si rivolse agli assassini del marito dicendo: “Vi perdono, ma mettetevi in ginocchio”.

Il perdono supera il diritto e la giustizia. È la chiave della riconciliazione familiare, ma anche della pacificazione civile. Senza perdono, si creano muri di divisione, più duraturi e più difficili da abbattere del famigerato muro di Berlino. Persino i politici oggi parlano di perdono e di riconciliazione.1

La nostra offesa quotidiana

Come il pane, anche le offese costituiscono il nostro cibo quotidiano. Le riceviamo e le diamo. Spesso sono conseguenze di un cattivo carattere. Qualche volta

l'ira fa dire cose contro il prossimo, che a mente fredda non si direbbero mai e che non corrispondono al vero.

Il risultato della collera è la devastazione degli animi. È come un campo di grano dopo la grandine o come un villaggio dopo un uragano che ha abbattuto alberi, sradicato piante, sconvolto fiumi, lasciato detriti dapper-tutto. È una desolazione per noi e per gli altri. Ci si sente sconfitti, umiliati e tristi.

Il vero tarlo di una comunità umana non è tanto il peccato-uragano, quanto il peccato-rugiada, quello che non viene rico-nosciuto a prima vista. È l'offesa quotidiana, creata da chi ha la pretesa di aver sempre ragione e di voler giustificare comportamenti iniqui di ostilità, di ironia, di disistima. Comportamenti che diventano spesso parte di personalità distorte, che giungono a ritenere giusto e coerente infierire nei confronti del prossimo, facendo rilevare solo le sue mancanze, i suoi difetti, le sue negligenze. Si crea così una personalità mostruosa che ritiene il perdono una debolezza e la misericordia una ingiustizia: “Io  perdono tutto, ma questo non si può; è ingiusto”.

Quando si arriva a questo punto, allora la coscienza erronea non riesce più a eliminare le sostanze tossiche, che hanno inquinato la nostra anima fino a renderla ammalata grave. Quando il rene non funziona, non c'è più la purificazione del sangue e l'organismo rischia malattie gravi. Così per la nostra anima. Quando manca il filtro del perdono, che elimina le tossine dell’esistenza quotidiana, ci si debilita a poco a poco. Quando ci addormentiamo con il risentimento nel cuore, esso insensibilmente cresce fino a diventare ira, avversione e rigetto del prossimo. E, di conseguenza, le parole e le azioni saranno dettate non dalla carità e dalla misericordia cristiana, ma dal disprezzo e dall'ingiuria.

L'offesa ricevuta accende nell’animo un piccolo fuoco. Se si riesce a perdonare subito, questo fuoco si spegne, altrimenti il rancore aggiunge legna al fuoco, che diventa un grande incendio difficile a spegnersi: “Principiis obsta”. Se non ci si riconcilia subito, la vita diventa un inferno. L’importante non è accertare chi ha iniziato a offendere, ma chi fa il primo passo per la riconciliazione.

Ogni giorno è “dies traditionis”

Ogni giorno può essere un giovedì santo e cioè il giorno del perdono o il giorno del tradimento. Il giovedì santo ospita questi due fatti contrastanti. Da una parte la manifestazione dell'amore di Gesù, che, consegnandosi alla morte, ci perdona e ci redime (Gv 13,15), e dall'altra il tradimento di Giuda, che consegna Gesù ai nemici. Chi tradisce Gesù? Non un estraneo, ma un suo discepolo, anzi un suo amico: “E Gesù gli disse: "Amico, per questo sei qui!"” (Mt 26,50).

Ogni volta che si umilia, si accusa ingiustamente, si calunnia il prossimo, si tradisce il Signore, che, però, risponde col perdono: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Nella quotidiana battaglia delle relazioni umane vince chi perde: “Nella guerra - afferma san Giovanni Crisostomo - viene considerato vinto colui che cade. Non vinciamo quando ci comportiamo male, bensì quando sopportiamo con pazienza il male che ci viene fatto. La più bella vittoria consiste nel vincere con la nostra pazienza tutti coloro che ci fanno del male”.

Il perdono ha due qualità: è secondo verità e secondo giustizia. Perdonare non significa approvare ingiustizie e comportamenti falsi. Perdonare è graziare per amore. “Io ti perdono” è una dichiarazione d’innocenza, paragonabile - mutatis mutandis - all’assoluzione sacramentale. È un gesto solenne di misericordia, che ci avvicina a Dio Padre, secondo l’esortazione di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). E san Pietro, che aveva gustato il perdono sovrabbondante del Signore, così ci esorta: “Siate indulgenti, amatevi da fratelli, siate misericordiosi e umili. Non ricambiate il male col male e l'insulto con l'insulto; anzi, fate proprio il contrario: benedite, poiché siete chiamati ad ereditare la benedizione” (1Pt 3,8-9).

Il perdono, come amore dei nemici

Il perdono abitua ad amare coloro che non ci sono amici. È questo il grande comandamento cristiano, l'amore dei nemici. E il grande scandalo cristiano è la mancanza di questo amore. Per noi, alcuni ci sembrano incorreggibili; per Dio, invece, sono figli da amare e da perdonare. Per noi non c'è più rimedio; per Dio Padre c'è l'attesa del ritorno e il perdono. E questo perché, spesso, si hanno immagini stereotipate del nostro prossimo. Per Bernard Shaw l'unico uomo intelligente era il suo sarto, perché gli prendeva di nuovo le misure ogni volta che andava da lui.

Bisogna invece imitare il comportamento dei medici, che sopportano con comprensione e pazienza le intemperanze degli ammalati: “Una parola soave calma il furore; una parola pungente accresce l'ira” (Pr 15,1); “Se il tuo nemico ha fame, dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere; così facendo, accumulerai la brace sulla sua testa” (Rm 12,20). L'unica vendetta permessa ai cristiani è accumulare, col nostro perdono gratuito e immediato, rimorsi di coscienza nel prossimo. “Gutta cavat lapidem”: la goccia quotidiana del perdono, perfora il cuore di pietra del peccatore.

Ciò non significa che si accetti o si dia ragione alla violenza o all’errore. Un atteggiamento misericordioso è un atto di forza e di coraggio: non far male al fratello è molto meglio che sentire la gioia della rivincita.

Un re aveva promesso di dare il suo regno al figlio che avrebbe compiuto l'impresa più eroica: il primo uccise un drago enorme con la sua spada; il secondo vinse dieci uomini in duello; il terzo trovò il suo peggior nemico addormentato nel bosco e lo lasciò dormire. Il re diede il suo regno al figlio che non si era vendicato: “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano” (Lc 6,28).

Quando Michelangelo guardava un blocco di marmo vedeva solo la bella statua che poteva diventare. Così, quando si guarda una persona che non ci vuole bene e che ci fa del male, occorre abituarci a vedere in lui il santo che può diventare con la conversione. Il perdono e l'amore del nemico sono giustificati unicamente dalla legge della gratuità e cioè della grazia divina. Un santo maestro di spirito soleva dire: “Non bisogna perdonare affinché l'altro cambi col nostro perdono. Questo è un calcolo umano, che non ha niente a che fare con la natura gratuita dell'amore. Si perdona soltanto per seguire le orme di Gesù Cristo”.

Parole di morte

Come si creano le situazioni di conflitto? Con la lingua, col parlare disordinato, con la critica infondata. “Serpente” (Sal 140,4), “coltello affilato” (Sal 52,4), “spada d'acciaio” (Sal 57,5), “flagello” (Sir 28,17): questi sono alcuni attributi che la Scrittura dà, talvolta, alla lingua malevola dell'uomo.

I libri sapienziali esortano spesso a domare la lingua: “Nel parlare ci può essere onore o disonore; la lingua dell'uomo è la sua rovina” (Sir 5,13); “Non meritare il titolo di calunniatore e non tendere insidie con la lingua, poiché la vergogna è per il ladro e una condanna severa per l'uomo falso” (Sir 5,14); “Meglio scivolare sul pavimento che con la lingua; per questo la caduta dei cattivi giunge rapida” (Sir 20,18); “Tre cose teme il mio cuore, per la quarta sono spaventato: una calunnia diffusa in città, un tumulto di popolo e una falsa accusa: tutto questo è peggiore della morte; ma crepacuore e lutto è una donna gelosa di un'altra e il flagello della sua lingua si lega con tutti” (Sir 26,5-6); “Una lingua malèdica ha sconvolto molti, li ha scacciati di nazione in nazione; ha demolito forti città e ha rovinato casati potenti” (Sir 28,14).

I saggi d’Israele sono insistenti nell’educare i giovani a custo-dire la propria lingua, in modo da procurare concordia e pace e non divisione e conflitti: “Un colpo di frusta produce lividure, ma un colpo di lingua rompe le ossa” (Sir 28,17); “Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua” (Sir 28,18); “Un cuore perverso non troverà mai felicità, una lingua tortuosa andrà in malora” (Pr 17,20); “Chi custodisce la bocca e la lingua preserva se stesso dai dispiaceri” (Pr 21,23); “Guardatevi da un vano mormorare, preservate la lingua dalla maldicenza, perché neppure una parola segreta sarà senza effetto, una bocca menzognera uccide l'anima” (Sap 1,11).

Una bocca maleodorante indica che lo stomaco è malato. Una lingua malvagia nasce da un cuore infermo.

Parole di vita

Vi è, però, anche la lingua che loda il Signore, che incoraggia, che edifica: “Il Signore mi ha dato in ricompensa una lingua, con cui lo loderò” (Sir 51,22); “La bocca del giusto esprime la sapienza, la lingua perversa sarà tagliata” (Pr 10,31); “V'è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada; ma la lingua dei saggi risana” (Pr 12,18); “La lingua dei saggi fa gu-stare la scienza, la bocca degli stolti esprime sciocchezze” (Pr 15,2); “Una lingua dolce è un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore” (Pr 15,4); “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).

Il rimedio al parlare malvagio è il silenzio o la lode. Per guarire la malattia della mormorazione bisogna prendere la medicina del silenzio: “L'uomo sia pronto ad ascoltare e lento nel parlare” (Gc 1,19). Nell'aprire la bocca, si dovrebbe avere la stessa difficoltà che si ha nell'aprire il portafoglio per pagare. Un'anfora vuota risuona di più. Una testa vuota parla di più. Per alcuni diffondere notizie false e malevoli sembra una seconda vocazione. Non seguono l’ammonizione del Siracide che dice: “Hai udito qualcosa? Fa' in modo che rimanga custodita dentro di te. Coraggio, non creperai per questo!” (Sir 19,10).

Spesso le critiche sono rivestite di veste psicologica: Tizio è ipocondriaco; Caio narcisista; Sempronio egocentrico; Talaltro un carrierista. Si ha anche l’impudenza di dire che quell'altro è un terribile linguacciuto. La sorgente di tutto ciò è la propria interna insoddisfazione. Si scam-bia per spirito critico e per ragionamento oggettivo quello che in realtà è solo insoddisfazione, gelosia, invidia, risentimento, piccineria, amarezza.

Bisogna guarire gli occhi con il collirio della sapienza e della gioia: “Ti consiglio di comperare da me collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,18). Come la luce non può vedere le tenebre perché con la sua presenza illumina tutto, così il cuore buono non può vedere il male ma solo il bene, se ne nutre e lo diffonde. Se uno critica significa che il suo animo è più tenebre che luce. Ci sono persone che parlano non di qualcuno, ma contro qualcuno. L'oggetto della loro conversazione è la maldicenza. Ogni fratello diventa oggetto di sospetti e di giudizi negativi. Con te parlano male di quello. E con quello parlano male di te.

Il giudizio di San Paolo è molto severo. Ecco la sua raccomandazione a Timoteo: “Questo devi insegnare e raccomandare. Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno” (1Tm 6,3-5). “Sta' lontano dalle dispute e dalle discordie che non servono ad altro che a distruggere coloro che le ascoltano” (2Tm 3,14). “Evita le discussioni sciocche e stupide; sai bene che generano contese. A un servo di Dio non si addicono le dispute, ma l'essere gentile con tutti” (2Tm 2,23-24).

La correzione come espressione di amore

Questo significa che non bisogna correggere i fratelli che sbagliano? Il perdono deve passare sopra all'errore e al peccato? Oltre al perdono, non c’è anche la correzione? Come fare? Il criterio è dato dall’esortazione del Signore al Vescovo di Laodicea: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti” (Ap 3,19). Anche la correzione, come il perdono, è frutto di amore. Nella Lettera agli Ebrei questa indicazione viene ampiamente illustrata, in una pagina raramente meditata. La correzione sorge da un cuore paterno, che vuole il bene dei suoi figli: “Il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli! Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità. Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie storte per i vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,6-13).

Nel vangelo di Matteo troviamo un discorso che riguarda la vita di comunità (cap. 18) e in particolare l’interessamento verso la pecorella smarrita e verso un fratello che sbaglia: “Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,15-17).

L'ammonimento deve scaturire dall'amore, non da altre motivazioni, come gelosia, vendetta, risentimento, rivincita. Il motivo deve essere esclusivamente il bene del prossimo, non la liberazione da una presenza fastidiosa o da una condotta che disturba. Ai Musei Capitolini di Roma c'è una statua che rappresenta lo “Spinario”, un ragazzo intento a togliersi una spina dal piede. La correzione fraterna non è un togliersi una spina dal piede e conficcarla nella carne degli altri.

Chi corregge, e quando?

Prima di correggere bisogna anzitutto verificare la realtà dei fatti: “Non correggere prima di esserti informato” (Sir 11,7); “Non credere a tutto quello che si dice” (Sir 19,15). Ma chi deve correggere? Sempre il superiore? In una comunità spesso tutti sono d'accordo che bisognerebbe correggere Tizio e che dovrebbe farlo chi ha maggiori probabilità di riuscita. Se si tratta di una mancanza pubblica - un cattivo esempio noto a tutti - dovrebbe intervenire, con tatto e carità, chi esercita l’autorità o anche chi gode di maggior fiducia presso quella persona. Molti sanno fare le iniezioni, ma vengono preferiti gli infermieri che non ti fanno sentire la puntura dell'ago. La correzione è sempre penosa, dolorosa, umiliante. Per questo occorre farla con atteggiamento di carità, stima, affetto. E sia uno solo a intervenire e solamente su cose gravi, che danneggiano la comunità (cf. Mt 18,15-17).

 Mai sotto l'emozione dell'ira e del risentimento. Ci vuole serenità, calma e preghiera. La preghiera darà anche la forza di subire le eventuali reazioni negative. Si deve essere pronti anche a non essere compresi. Si deve lasciare il tempo necessario per digerire la correzione. Non correggere, quando ci si accorge che il nostro prossimo è in una situazione di collera e risentimento o di depressione e scoraggiamento.

Come correggere?

A viso aperto. “Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace” (Pr 10,10). Bisogna parlare con semplicità e chiarezza. Bisogna poi ascoltare le eventuali giustificazioni, dando al fratello l'opportunità di giudicare da se stesso la propria condotta. Farlo ammettere di aver sbagliato o che è stato interpretato male.

In ogni caso: “Non rimprove-rare l'uomo che si pente del suo peccato, poiché tutti siamo colpevoli” (Sir 8,5). Il richiamo sia fatto con dolcezza e umiltà: “Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1). Non bisogna presentarsi come i perfetti e i maestri che correggono i piccoli e i discoli. Ma presentarsi con umiltà e consapevolezza della propria situazione di debolezza e di peccato.

Soprattutto il superiore non deve fermarsi alle minuzie. Non essere pignoli nell'intervenire in ogni piccola cosa. Bisogna attenersi alla regola aurea: “omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere” (vedere tutto, dissimulare molto, correggere poco). Se s’interviene continuamente si diventa insopportabili, inutili e si perde in autorevolezza. Inoltre, non si devono correggere tic nervosi o difetti fisici, dal momento che non si possono eliminare, anche con la più grande buona volontà. Se uno ha una voce sgraziata e purtroppo canta anche forte, lo si può solo invitare a moderare il tono, nulla di più.

Come accogliere la correzione?

“Chi rifiuta la correzione disprezza se stesso” (Pr 15,32). Chi ha il velo sporco ringrazierà la consorella che l'ha avvertita con discrezione. La correzione deve essere accolta come un invito opportuno per migliorare la nostra immagine personale, sociale e spirituale. Nel ricevere la correzione non dobbiamo fare come chi entra in gioielleria che compra solo perle perfette, scartando tutte le altre. Non dobbiamo cioè pensare che noi o siamo perfetti o non valiamo niente. Nel ricevere la correzione dobbiamo avere un atteggiamento più distaccato. Dobbiamo imitare l'artista, che apprezza un oggetto anche se è privo di qualcosa. La Venere di Milo, che si trova al Louvre, è una scultura perfetta: eppure manca delle braccia.

La correzione, cioè, va accolta consapevoli che la nostra persona è un capolavoro e resta tale anche se abbiamo qualche difetto o abbiamo mancato in qualche cosa. La correzione non tende a sminuire la nostra persona-lità. La verità ci matura e ci libera. La correzione ci forma alla saggezza. Solo lo stolto non accetta la correzione, perché la considera l'inizio della fine. La correzione ci migliora, ci fa progredire, ci perfeziona. Per questo bisogna addirittura amare chi ci corregge: “Non rimproverare l'arrogante, perché ti odierà; rimprovera il saggio e ti amerà” (Pr 9,8).

Per questo è da valorizzare il servizio della correzione fatta dai superiori: “Abbiate la più alta stima di coloro che lavorano in mezzo a voi, che presiedono nel Signore e vi ammoniscono. Onorateli per il loro lavoro” (1Ts 5,1). Se non si accoglie con riconoscenza la correzione, nessuno più si curerà di noi. Vivremo nell'isolamento e ci sentiremo trascurati.

La dinamica della correzione fraterna

Di fronte alla correzione, i maestri di spirito suggeriscono alcuni atteggiamenti:

1. ascolta la correzione, senza interrompere; bisogna capire di che si tratta per poter fornire delle eventuali risposte;

2. chiedi spiegazioni se ti trovi in disaccordo con quanto è stato detto: più che i nomi delle persone è importante accertarsi della verità dei fatti riferiti;

3. accetta per principio le critiche, consapevole che in noi c'è qualcosa da correggere, che non sempre ci è noto, ma che è ben visibile al nostro prossimo;

4. mantieni la calma e non reagire in modo negativo: anche se i fatti riferiti ti risultano falsi, tratta con gentilezza anche chi ti corregge spinto non da vera carità, ma da invidia o da superficialità;

5. prendi tempo per rispondere: accertati bene dei fatti, prega e poi rispondi con serenità: la tua tranquillità può rassicurare della tua perfetta buona fede e onestà;

6. ringrazia chi ti corregge per la carità dimostrata: invece di sparlare alle spalle, ha avuto il coraggio di parlarti apertamente;

7. non rimproverare chi ti corregge, anche ingiustamente: ringrazialo sia che abbia ragione sia che abbia torto. In tal modo si cresce nella perfezione e si edifica il prossimo col buon esempio.

La correzione: una legge di vita spirituale

Dovremmo meditare questi “mantra” biblici relativi alla correzione. Sono numerosissimi, soprattutto nei libri sapienziali. Il libro dei Proverbi, ad esempio, riporta i seguenti detti: “È sulla via della vita chi osserva la disciplina, chi trascura la correzione si smarrisce” (Pr 10,17). “Chi ama la disciplina ama la scienza, chi odia la correzione è stolto” (Pr 12,1). “Lo stolto disprezza la correzione paterna; chi tiene conto dell'ammonizione diventa prudente” (Pr 15,5). “Punizione se-vera per chi abbandona il retto sentiero, chi odia la correzione morirà” (Pr 15,10). “Chi rifiuta la correzione disprezza se stesso, chi ascolta il rimprovero acquista senno” (Pr 15,32). “Ascolta il consiglio e accetta la correzione, per essere saggio in avvenire” (Pr 19,20). “La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l'allontanerà da lui” (Pr 22,15). “Piega il cuore alla correzione e l'orecchio ai discorsi sapienti” (Pr 23,12). “Correggi il figlio e ti farà contento e ti procurerà consolazioni” (Pr 29,17). E il Siracide conclude saggiamente: “Chi teme il Signore accetterà la correzione” (Sir 32,14).

La gioia del perdono

Il perdono provoca gioia in chi lo dà e in chi lo riceve: è la gioia della conversione, la festa del comune ritorno tra le braccia del Padre. A conclusione della parabola della pecora smarrita e ritrovata e della dramma perduta e ricuperata, Gesù dice: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7); “Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte” (Lc 15,10).

Anche la parabola del perdono del figliol prodigo da parte del padre misericordioso si conclude con la gioia della festa: “Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa” (Lc 15,23-24). E al figlio maggiore, che si lamentava per questo comportamento incomprensibile, il vecchio padre risponde: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32).

Il perdono è la vera festa della comunità. Per questo è un sacramento, che il Signore Gesù ci ha donato a Pasqua (Gv 20,22-23). Sia il fratello che perdona, sia il fratello che viene perdonato sono entrambi sotto il perdono sacramentale del Signore. L'esperienza del perdono di Dio permette sia il perdonare sia l'essere perdonati.

Come è possibile chiedere di essere perdonati da Dio, senza che noi concediamo il perdono al nostro prossimo? Non preghiamo ogni giorno il Padre dicendo: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

1 M. BOUCHARD-F. FERRARIO, Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici, Bruno Mondadori, Milano 2008. Cf anche P. GRIECO, Quando l’amore supera il diritto, in “Il Giornale”, 21 febbraio 2008, 29.

X Angelo Amato
Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi
Piazza Città Leonina, 1 – 00193 Roma

   

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