 |
 |
 |
 |
Si
racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere
il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal
modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo
con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che
un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua
meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo
l'elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed
estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato
in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso,
sarebbe diventato ricco.
La comunità, casa del
perdono
Il perdono è un gesto umano che
diventa azione divina. Perdonando, si imita la misericordia del Padre.
In ogni comunità è indispensabile avere il coraggio di contraccambiare
con il perdono ogni atto d’ingiustizia, perdonando non con parsimonia,
ma con generosità. Il perdono è l’azione che più corrisponde alla nostra
vocazione di consacrati. A ragione l’apostolo Paolo ammo-niva gli
Efesini: “Vi esorto dunque io, il prigioniero del Signore, a comportarvi
in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà,
mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di
conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un
solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale
siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ef 4,1-4).
Il perdono è un atteggiamento, che è
frutto esclusivo della carità. Senza amore non c’è perdono. Il perdono
cristiano è total-mente gratuito e riesce a perdonare quello che
umanamente è imperdonabile.
Diana Seggio ha 28 anni quando vede
morire i suoi cari, uccisi per una vendetta trasversale a Palermo. Nella
chiesa di Santa Teresa, il 28 luglio 1991, davanti alla bara grande del
marito Giuseppe e a quella piccola del figlioletto Andrea di quattro
anni, recita questa breve preghiera: “Non posso odiare gli assassini,
non ho mai odiato nessuno. Il mio cuore sanguina e cerca la pace. Ma la
pace si trova solo con il perdono”. Il 25 maggio del 1992, Rosaria
Schifani, vedova di un agente della scorta di Giovanni Falcone, durante
i funerali si rivolse agli assassini del marito dicendo: “Vi perdono, ma
mettetevi in ginocchio”.
Il perdono supera il diritto e la
giustizia. È la chiave della riconciliazione familiare, ma anche della
pacificazione civile. Senza perdono, si creano muri di divisione, più
duraturi e più difficili da abbattere del famigerato muro di Berlino.
Persino i politici oggi parlano di perdono e di riconciliazione.1
La nostra offesa
quotidiana
Come il pane, anche le offese
costituiscono il nostro cibo quotidiano. Le riceviamo e le diamo. Spesso
sono conseguenze di un cattivo carattere. Qualche volta
l'ira fa dire cose contro il
prossimo, che a mente fredda non si direbbero mai e che non
corrispondono al vero.
Il risultato della collera è la
devastazione degli animi. È come un campo di grano dopo la grandine o
come un villaggio dopo un uragano che ha abbattuto alberi, sradicato
piante, sconvolto fiumi, lasciato detriti dapper-tutto. È una
desolazione per noi e per gli altri. Ci si sente sconfitti, umiliati e
tristi.
Il vero tarlo di una comunità umana
non è tanto il peccato-uragano, quanto il peccato-rugiada, quello che
non viene rico-nosciuto a prima vista. È l'offesa quotidiana, creata da
chi ha la pretesa di aver sempre ragione e di voler giustificare
comportamenti iniqui di ostilità, di ironia, di disistima. Comportamenti
che diventano spesso parte di personalità distorte, che giungono a
ritenere giusto e coerente infierire nei confronti del prossimo, facendo
rilevare solo le sue mancanze, i suoi difetti, le sue negligenze. Si
crea così una personalità mostruosa che ritiene il perdono una debolezza
e la misericordia una ingiustizia: “Io perdono tutto, ma questo non si
può; è ingiusto”.
Quando si arriva a questo punto,
allora la coscienza erronea non riesce più a eliminare le sostanze
tossiche, che hanno inquinato la nostra anima fino a renderla ammalata
grave. Quando il rene non funziona, non c'è più la purificazione del
sangue e l'organismo rischia malattie gravi. Così per la nostra anima.
Quando manca il filtro del perdono, che elimina le tossine
dell’esistenza quotidiana, ci si debilita a poco a poco. Quando ci
addormentiamo con il risentimento nel cuore, esso insensibilmente cresce
fino a diventare ira, avversione e rigetto del prossimo. E, di
conseguenza, le parole e le azioni saranno dettate non dalla carità e
dalla misericordia cristiana, ma dal disprezzo e dall'ingiuria.
L'offesa ricevuta accende nell’animo
un piccolo fuoco. Se si riesce a perdonare subito, questo fuoco si
spegne, altrimenti il rancore aggiunge legna al fuoco, che diventa un
grande incendio difficile a spegnersi: “Principiis obsta”. Se non ci si
riconcilia subito, la vita diventa un inferno. L’importante non è
accertare chi ha iniziato a offendere, ma chi fa il primo passo per la
riconciliazione.
Ogni giorno è “dies
traditionis”
Ogni giorno può essere un giovedì
santo e cioè il giorno del perdono o il giorno del tradimento. Il
giovedì santo ospita questi due fatti contrastanti. Da una parte la
manifestazione dell'amore di Gesù, che, consegnandosi alla morte, ci
perdona e ci redime (Gv 13,15), e dall'altra il tradimento di Giuda, che
consegna Gesù ai nemici. Chi tradisce Gesù? Non un estraneo, ma un suo
discepolo, anzi un suo amico: “E Gesù gli disse: "Amico, per questo sei
qui!"” (Mt 26,50).
Ogni volta che si umilia, si accusa
ingiustamente, si calunnia il prossimo, si tradisce il Signore, che,
però, risponde col perdono: “Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno” (Lc 23,34).
Nella quotidiana battaglia delle
relazioni umane vince chi perde: “Nella guerra - afferma san Giovanni
Crisostomo - viene considerato vinto colui che cade. Non vinciamo quando
ci comportiamo male, bensì quando sopportiamo con pazienza il male che
ci viene fatto. La più bella vittoria consiste nel vincere con la nostra
pazienza tutti coloro che ci fanno del male”.
Il perdono ha due qualità: è secondo
verità e secondo giustizia. Perdonare non significa approvare
ingiustizie e comportamenti falsi. Perdonare è graziare per amore. “Io
ti perdono” è una dichiarazione d’innocenza, paragonabile - mutatis
mutandis - all’assoluzione sacramentale. È un gesto solenne di
misericordia, che ci avvicina a Dio Padre, secondo l’esortazione di
Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc
6,36). E san Pietro, che aveva gustato il perdono sovrabbondante del
Signore, così ci esorta: “Siate indulgenti, amatevi da fratelli, siate
misericordiosi e umili. Non ricambiate il male col male e l'insulto con
l'insulto; anzi, fate proprio il contrario: benedite, poiché siete
chiamati ad ereditare la benedizione” (1Pt 3,8-9).
Il perdono, come
amore dei nemici
Il perdono abitua ad amare coloro che
non ci sono amici. È questo il grande comandamento cristiano, l'amore
dei nemici. E il grande scandalo cristiano è la mancanza di questo
amore. Per noi, alcuni ci sembrano incorreggibili; per Dio, invece, sono
figli da amare e da perdonare. Per noi non c'è più rimedio; per Dio
Padre c'è l'attesa del ritorno e il perdono. E questo perché, spesso, si
hanno immagini stereotipate del nostro prossimo. Per Bernard Shaw
l'unico uomo intelligente era il suo sarto, perché gli prendeva di nuovo
le misure ogni volta che andava da lui.
Bisogna invece imitare il
comportamento dei medici, che sopportano con comprensione e pazienza le
intemperanze degli ammalati: “Una parola soave calma il furore; una
parola pungente accresce l'ira” (Pr 15,1); “Se il tuo nemico ha fame,
dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere; così facendo, accumulerai
la brace sulla sua testa” (Rm 12,20). L'unica vendetta permessa ai
cristiani è accumulare, col nostro perdono gratuito e immediato, rimorsi
di coscienza nel prossimo. “Gutta cavat lapidem”: la goccia quotidiana
del perdono, perfora il cuore di pietra del peccatore.
Ciò non significa che si accetti o si
dia ragione alla violenza o all’errore. Un atteggiamento misericordioso
è un atto di forza e di coraggio: non far male al fratello è molto
meglio che sentire la gioia della rivincita.
Un re aveva promesso di dare il suo
regno al figlio che avrebbe compiuto l'impresa più eroica: il primo
uccise un drago enorme con la sua spada; il secondo vinse dieci uomini
in duello; il terzo trovò il suo peggior nemico addormentato nel bosco e
lo lasciò dormire. Il re diede il suo regno al figlio che non si era
vendicato: “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi
calunniano” (Lc 6,28).
Quando Michelangelo guardava un
blocco di marmo vedeva solo la bella statua che poteva diventare. Così,
quando si guarda una persona che non ci vuole bene e che ci fa del male,
occorre abituarci a vedere in lui il santo che può diventare con la
conversione. Il perdono e l'amore del nemico sono giustificati
unicamente dalla legge della gratuità e cioè della grazia divina. Un
santo maestro di spirito soleva dire: “Non bisogna perdonare affinché
l'altro cambi col nostro perdono. Questo è un calcolo umano, che non ha
niente a che fare con la natura gratuita dell'amore. Si perdona soltanto
per seguire le orme di Gesù Cristo”.
Parole di morte
Come si creano le situazioni di
conflitto? Con la lingua, col parlare disordinato, con la critica
infondata. “Serpente” (Sal 140,4), “coltello affilato” (Sal 52,4),
“spada d'acciaio” (Sal 57,5), “flagello” (Sir 28,17): questi sono alcuni
attributi che la Scrittura dà, talvolta, alla lingua malevola dell'uomo.
I libri sapienziali esortano spesso a
domare la lingua: “Nel parlare ci può essere onore o disonore; la lingua
dell'uomo è la sua rovina” (Sir 5,13); “Non meritare il titolo di
calunniatore e non tendere insidie con la lingua, poiché la vergogna è
per il ladro e una condanna severa per l'uomo falso” (Sir 5,14); “Meglio
scivolare sul pavimento che con la lingua; per questo la caduta dei
cattivi giunge rapida” (Sir 20,18); “Tre cose teme il mio cuore, per la
quarta sono spaventato: una calunnia diffusa in città, un tumulto di
popolo e una falsa accusa: tutto questo è peggiore della morte; ma
crepacuore e lutto è una donna gelosa di un'altra e il flagello della
sua lingua si lega con tutti” (Sir 26,5-6); “Una lingua malèdica ha
sconvolto molti, li ha scacciati di nazione in nazione; ha demolito
forti città e ha rovinato casati potenti” (Sir 28,14).
I saggi d’Israele sono insistenti
nell’educare i giovani a custo-dire la propria lingua, in modo da
procurare concordia e pace e non divisione e conflitti: “Un colpo di
frusta produce lividure, ma un colpo di lingua rompe le ossa” (Sir
28,17); “Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per
colpa della lingua” (Sir 28,18); “Un cuore perverso non troverà mai
felicità, una lingua tortuosa andrà in malora” (Pr 17,20); “Chi
custodisce la bocca e la lingua preserva se stesso dai dispiaceri” (Pr
21,23); “Guardatevi da un vano mormorare, preservate la lingua dalla
maldicenza, perché neppure una parola segreta sarà senza effetto, una
bocca menzognera uccide l'anima” (Sap 1,11).
Una bocca maleodorante indica che lo
stomaco è malato. Una lingua malvagia nasce da un cuore infermo.
Parole di vita
Vi è, però, anche la lingua che loda
il Signore, che incoraggia, che edifica: “Il Signore mi ha dato in
ricompensa una lingua, con cui lo loderò” (Sir 51,22); “La bocca del
giusto esprime la sapienza, la lingua perversa sarà tagliata” (Pr
10,31); “V'è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada; ma la
lingua dei saggi risana” (Pr 12,18); “La lingua dei saggi fa gu-stare la
scienza, la bocca degli stolti esprime sciocchezze” (Pr 15,2); “Una
lingua dolce è un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore”
(Pr 15,4); “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv
6,68).
Il rimedio al parlare malvagio è il
silenzio o la lode. Per guarire la malattia della mormorazione bisogna
prendere la medicina del silenzio: “L'uomo sia pronto ad ascoltare e
lento nel parlare” (Gc 1,19). Nell'aprire la bocca, si dovrebbe avere la
stessa difficoltà che si ha nell'aprire il portafoglio per pagare.
Un'anfora vuota risuona di più. Una testa vuota parla di più. Per alcuni
diffondere notizie false e malevoli sembra una seconda vocazione. Non
seguono l’ammonizione del Siracide che dice: “Hai udito qualcosa? Fa' in
modo che rimanga custodita dentro di te. Coraggio, non creperai per
questo!” (Sir 19,10).
Spesso le critiche sono rivestite di
veste psicologica: Tizio è ipocondriaco; Caio narcisista; Sempronio
egocentrico; Talaltro un carrierista. Si ha anche l’impudenza di dire
che quell'altro è un terribile linguacciuto. La sorgente di tutto ciò è
la propria interna insoddisfazione. Si scam-bia per spirito critico e
per ragionamento oggettivo quello che in realtà è solo insoddisfazione,
gelosia, invidia, risentimento, piccineria, amarezza.
Bisogna guarire gli occhi con il
collirio della sapienza e della gioia: “Ti consiglio di comperare da me
collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,18). Come la
luce non può vedere le tenebre perché con la sua presenza illumina
tutto, così il cuore buono non può vedere il male ma solo il bene, se ne
nutre e lo diffonde. Se uno critica significa che il suo animo è più
tenebre che luce. Ci sono persone che parlano non di qualcuno, ma contro
qualcuno. L'oggetto della loro conversazione è la maldicenza. Ogni
fratello diventa oggetto di sospetti e di giudizi negativi. Con te
parlano male di quello. E con quello parlano male di te.
Il giudizio di San Paolo è molto
severo. Ecco la sua raccomandazione a Timoteo: “Questo devi insegnare e
raccomandare. Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane
parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà,
costui è accecato dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla
febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, i
litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini
corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come
fonte di guadagno” (1Tm 6,3-5). “Sta' lontano dalle dispute e dalle
discordie che non servono ad altro che a distruggere coloro che le
ascoltano” (2Tm 3,14). “Evita le discussioni sciocche e stupide; sai
bene che generano contese. A un servo di Dio non si addicono le dispute,
ma l'essere gentile con tutti” (2Tm 2,23-24).
La correzione come
espressione di amore
Questo significa che non bisogna
correggere i fratelli che sbagliano? Il perdono deve passare sopra
all'errore e al peccato? Oltre al perdono, non c’è anche la correzione?
Come fare? Il criterio è dato dall’esortazione del Signore al Vescovo di
Laodicea: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati
dunque zelante e ravvediti” (Ap 3,19). Anche la correzione, come il
perdono, è frutto di amore. Nella Lettera agli Ebrei questa indicazione
viene ampiamente illustrata, in una pagina raramente meditata. La
correzione sorge da un cuore paterno, che vuole il bene dei suoi figli:
“Il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come
figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come
figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza
correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi,
non figli! Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri
secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò
molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? Costoro infatti
ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa
per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità.
Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di
tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli
che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani
cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie storte per i
vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma
piuttosto a guarire” (Eb 12,6-13).
Nel vangelo di Matteo troviamo un
discorso che riguarda la vita di comunità (cap. 18) e in particolare
l’interessamento verso la pecorella smarrita e verso un fratello che
sbaglia: “Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra
te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non
ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia
risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà
neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche
l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,15-17).
L'ammonimento deve scaturire
dall'amore, non da altre motivazioni, come gelosia, vendetta,
risentimento, rivincita. Il motivo deve essere esclusivamente il bene
del prossimo, non la liberazione da una presenza fastidiosa o da una
condotta che disturba. Ai Musei Capitolini di Roma c'è una statua che
rappresenta lo “Spinario”, un ragazzo intento a togliersi una spina dal
piede. La correzione fraterna non è un togliersi una spina dal piede e
conficcarla nella carne degli altri.
Chi corregge, e
quando?
Prima di correggere bisogna anzitutto
verificare la realtà dei fatti: “Non correggere prima di esserti
informato” (Sir 11,7); “Non credere a tutto quello che si dice” (Sir
19,15). Ma chi deve correggere? Sempre il superiore? In una comunità
spesso tutti sono d'accordo che bisognerebbe correggere Tizio e che
dovrebbe farlo chi ha maggiori probabilità di riuscita. Se si tratta di
una mancanza pubblica - un cattivo esempio noto a tutti - dovrebbe
intervenire, con tatto e carità, chi esercita l’autorità o anche chi
gode di maggior fiducia presso quella persona. Molti sanno fare le
iniezioni, ma vengono preferiti gli infermieri che non ti fanno sentire
la puntura dell'ago. La correzione è sempre penosa, dolorosa, umiliante.
Per questo occorre farla con atteggiamento di carità, stima, affetto. E
sia uno solo a intervenire e solamente su cose gravi, che danneggiano la
comunità (cf. Mt 18,15-17).
Mai sotto l'emozione dell'ira e del
risentimento. Ci vuole serenità, calma e preghiera. La preghiera darà
anche la forza di subire le eventuali reazioni negative. Si deve essere
pronti anche a non essere compresi. Si deve lasciare il tempo necessario
per digerire la correzione. Non correggere, quando ci si accorge che il
nostro prossimo è in una situazione di collera e risentimento o di
depressione e scoraggiamento.
Come correggere?
A viso aperto. “Chi chiude un occhio
causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace” (Pr 10,10).
Bisogna parlare con semplicità e chiarezza. Bisogna poi ascoltare le
eventuali giustificazioni, dando al fratello l'opportunità di giudicare
da se stesso la propria condotta. Farlo ammettere di aver sbagliato o
che è stato interpretato male.
In ogni caso: “Non rimprove-rare
l'uomo che si pente del suo peccato, poiché tutti siamo colpevoli” (Sir
8,5). Il richiamo sia fatto con dolcezza e umiltà: “Fratelli, qualora
uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito
correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche
tu in tentazione” (Gal 6,1). Non bisogna presentarsi come i perfetti e i
maestri che correggono i piccoli e i discoli. Ma presentarsi con umiltà
e consapevolezza della propria situazione di debolezza e di peccato.
Soprattutto il superiore non deve
fermarsi alle minuzie. Non essere pignoli nell'intervenire in ogni
piccola cosa. Bisogna attenersi alla regola aurea: “omnia videre, multa
dissimulare, pauca corrigere” (vedere tutto, dissimulare molto,
correggere poco). Se s’interviene continuamente si diventa
insopportabili, inutili e si perde in autorevolezza. Inoltre, non si
devono correggere tic nervosi o difetti fisici, dal momento che non si
possono eliminare, anche con la più grande buona volontà. Se uno ha una
voce sgraziata e purtroppo canta anche forte, lo si può solo invitare a
moderare il tono, nulla di più.
Come accogliere la
correzione?
“Chi rifiuta la correzione disprezza
se stesso” (Pr 15,32). Chi ha il velo sporco ringrazierà la consorella
che l'ha avvertita con discrezione. La correzione deve essere accolta
come un invito opportuno per migliorare la nostra immagine personale,
sociale e spirituale. Nel ricevere la correzione non dobbiamo fare come
chi entra in gioielleria che compra solo perle perfette, scartando tutte
le altre. Non dobbiamo cioè pensare che noi o siamo perfetti o non
valiamo niente. Nel ricevere la correzione dobbiamo avere un
atteggiamento più distaccato. Dobbiamo imitare l'artista, che apprezza
un oggetto anche se è privo di qualcosa. La Venere
di Milo, che si trova al
Louvre, è una scultura perfetta: eppure manca delle braccia.
La correzione, cioè, va accolta
consapevoli che la nostra persona è un capolavoro e resta tale anche se
abbiamo qualche difetto o abbiamo mancato in qualche cosa. La correzione
non tende a sminuire la nostra persona-lità. La verità ci matura e ci
libera. La correzione ci forma alla saggezza. Solo lo stolto non accetta
la correzione, perché la considera l'inizio della fine. La correzione ci
migliora, ci fa progredire, ci perfeziona. Per questo bisogna
addirittura amare chi ci corregge: “Non rimproverare l'arrogante, perché
ti odierà; rimprovera il saggio e ti amerà” (Pr 9,8).
Per questo è da valorizzare il
servizio della correzione fatta dai superiori: “Abbiate la più alta
stima di coloro che lavorano in mezzo a voi, che presiedono nel Signore
e vi ammoniscono. Onorateli per il loro lavoro” (1Ts 5,1). Se non si
accoglie con riconoscenza la correzione, nessuno più si curerà di noi.
Vivremo nell'isolamento e ci sentiremo trascurati.
La dinamica della
correzione fraterna
Di fronte alla correzione, i maestri
di spirito suggeriscono alcuni atteggiamenti:
1.
ascolta la correzione, senza interrompere; bisogna capire di che si
tratta per poter fornire delle eventuali risposte;
2.
chiedi spiegazioni se ti trovi in
disaccordo con quanto è stato detto: più che i nomi delle persone è
importante accertarsi della verità dei fatti riferiti;
3.
accetta per principio le critiche,
consapevole che in noi c'è qualcosa da correggere, che non sempre ci è
noto, ma che è ben visibile al nostro prossimo;
4.
mantieni la calma e non reagire in
modo negativo: anche se i fatti riferiti ti risultano falsi, tratta con
gentilezza anche chi ti corregge spinto non da vera carità, ma da
invidia o da superficialità;
5.
prendi tempo per rispondere:
accertati bene dei fatti, prega e poi rispondi con serenità: la tua
tranquillità può rassicurare della tua perfetta buona fede e onestà;
6.
ringrazia chi ti corregge per la carità dimostrata: invece di sparlare
alle spalle, ha avuto il coraggio di parlarti apertamente;
7.
non rimproverare chi ti corregge,
anche ingiustamente: ringrazialo sia che abbia ragione sia che abbia
torto. In tal modo si cresce nella perfezione e si edifica il prossimo
col buon esempio.
La correzione: una
legge di vita spirituale
Dovremmo meditare questi “mantra”
biblici relativi alla correzione. Sono numerosissimi, soprattutto nei
libri sapienziali. Il libro dei Proverbi, ad esempio, riporta i seguenti
detti: “È sulla via della vita chi osserva la disciplina, chi trascura
la correzione si smarrisce” (Pr 10,17). “Chi ama la disciplina ama la
scienza, chi odia la correzione è stolto” (Pr 12,1). “Lo stolto
disprezza la correzione paterna; chi tiene conto dell'ammonizione
diventa prudente” (Pr 15,5). “Punizione se-vera per chi abbandona il
retto sentiero, chi odia la correzione morirà” (Pr 15,10). “Chi rifiuta
la correzione disprezza se stesso, chi ascolta il rimprovero acquista
senno” (Pr 15,32). “Ascolta il consiglio e accetta la correzione, per
essere saggio in avvenire” (Pr 19,20). “La stoltezza è legata al cuore
del fanciullo, ma il bastone della correzione l'allontanerà da lui” (Pr
22,15). “Piega il cuore alla correzione e l'orecchio ai discorsi
sapienti” (Pr 23,12). “Correggi il figlio e ti farà contento e ti
procurerà consolazioni” (Pr 29,17). E il Siracide conclude saggiamente:
“Chi teme il Signore accetterà la correzione” (Sir 32,14).
La gioia del perdono
Il perdono provoca gioia in chi lo dà
e in chi lo riceve: è la gioia della conversione, la festa del comune
ritorno tra le braccia del Padre. A conclusione della parabola della
pecora smarrita e ritrovata e della dramma perduta e ricuperata, Gesù
dice: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per
novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7);
“Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo
peccatore che si converte” (Lc 15,10).
Anche la parabola del perdono del
figliol prodigo da parte del padre misericordioso si conclude con la
gioia della festa: “Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e
facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa” (Lc
15,23-24). E al figlio maggiore, che si lamentava per questo
comportamento incomprensibile, il vecchio padre risponde: “Bisognava far
festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato
in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32).
Il perdono è la vera festa della
comunità. Per questo è un sacramento, che il Signore Gesù ci ha donato a
Pasqua (Gv 20,22-23). Sia il fratello che perdona, sia il fratello che
viene perdonato sono entrambi sotto il perdono sacramentale del Signore.
L'esperienza del perdono di Dio permette sia il perdonare sia l'essere
perdonati.
Come è possibile chiedere di essere
perdonati da Dio, senza che noi concediamo il perdono al nostro
prossimo? Non preghiamo ogni giorno il Padre dicendo: “Rimetti a noi i
nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?
1 M. BOUCHARD-F.
FERRARIO, Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti
teologici, Bruno Mondadori, Milano 2008. Cf anche P. GRIECO,
Quando l’amore supera il diritto, in “Il Giornale”, 21 febbraio
2008, 29.
X
Angelo Amato
Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi
Piazza Città Leonina, 1 –
00193 Roma
 |