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C'è
un testo paolino che viene spesso citato senza tener conto del suo
contesto immediato, col risultato pericoloso di una proclamazione di
fede in Cristo senza il risvolto della prassi, e di una prassi come
scuola di riconciliazione, grazie proprio alla fede in Cristo umiliato
ed esaltato. Si tratta del famoso inno cristologico inserito da Paolo
nella sua lettera ai Filippesi al capitolo 2,6-11.
Tutti lo conosciamo. Cominciava così
nella traduzione finora esistente: “Cristo pur essendo di natura divina,
non ritenne un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio…”. Nella nuova
traduzione, che ascoltiamo proprio quest’anno nella domenica XXVI (28
settembre), non suona più ritmicamente bene, anche se certo possiede
magari più fedeltà al senso originale.
Comunque tale gioiello si trova nel
bel mezzo di un’insistente esortazione all’accoglienza reciproca,
all’unione degli spiriti, al servizio reciproco, che inizia al versetto
2,1.
Questo è l’inizio: “Se c’è qualche
consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto derivante dalla carità,
se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di
compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la
stessa carità…”. In questa prospettiva si colloca poi l’icona del servo
umiliato e glorificato: a dire che c’è una relazione ascendente, in cui
lo sforzo umano tende ad una pienezza di fraternità e di koinonia, che
trova in Cristo la piena realizzazione e trasfigurazione. E nello stesso
tempo c’è una relazione discendente: dall’adesione a Cristo servo
umiliato ed esaltato, deriva il paradigma che rinnova tutti i valori
umani e li trasfigura, dinamicamente fermentandone ogni implicazione,
semi-nando impulsi di generosità, servizio, disarmo del cuore.
Non vi possono essere come due
settori che corrono in parallelo: lo spazio dello sforzo ascetico, quasi
autocertificato, entro il quale ci contorciamo per piegare volontà e
affetti in senso caritatevole e di reciproca accoglienza. E poi lo
spazio della fede, in cui l’icona del Cristo spogliato di ogni dignità e
di nuovo rivestito della gloria, brilla alta per proprio conto, solo di
striscio relazionata con la nostra maniera di vivere la comunione.
Percorso ascetico e mistero oggettivo s’intrecciano, si condizionano e
si alimentano a vicenda. Per trasformare la vita intera, anche nella sua
concretezza, in una liturgia e una confessio laudis del primato di
Cristo come paradigma e come causa generante, ma insieme come meta e
come percorso verso la meta.
Lo spessore teologale
della comunità riconciliata
La comunità riconciliata non è quella
che ce la mette tutta per andare d’amore e d’accordo. Anche questo può
essere un aspetto, ma non il primo. La comunità è posta nella grazia
della riconciliazione, della reciproca carità e accoglienza, proprio per
dono, per costituzione ontologica, per gratuita iniziativa di Dio,
attraverso il Figlio. Essa è costitutivamente plasmata dalla carità di
Cristo diffusa nei cuori per mezzo dello Spirito, ricreata dal
sacrificio che ha rotto i muri di divisione e d’incomunicabilità per
formare un corpo nuovo e unito, essa è “corpo crismato” pervaso da
diversità riconciliate e proteso verso la trasformazione dell’intero
cosmo nell’amore e nel servizio. È questo che significa l’affermazione
di Vita consecrata quando dice che “la comunione fraterna prima
d’essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in
cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto” (VC
42). Come può avvenire
questo? Molti di noi dubitano che queste espressioni non siano altro che
generiche e romantiche indicazioni. Ma non è così: è la conseguenza
logica dei misteri della salvezza che nella comunità si vivono, se si
vivono davvero con fede e senza finzioni. Aggiunge infatti l’esortazione
postsinodale nello stesso paragrafo: “Questo avviene grazie all’amore
reciproco di quanti compongono la comunità,
un amore alimentato dalla Parola e dall’Eucaristia, purificato nel
Sacramento e nella Riconciliazione, sostenuto dall’implorazione
dell’unità, speciale dono dello Spirito per coloro che si pongono in
obbediente ascolto del Vangelo” (VC 42). Il compito dello Spirito è
proprio quello di rendere feconde Parola e mensa eucaristica, preghiera
e conversione, convivenza e carità, non in maniera individualistica o
consolatoria, ma in maniera trasformatrice, liberatrice, guaritrice.
Non è che la vita di comunità sia
immune dalle fragilità e dalle tensioni umane, ma se è aggregazione
generata dalla fede e dalla carità teologale (cf PC 15), e non solo
dalle furbizie meschine di chi si sceglie o di chi impone una convivenza
forzata senza reciprocità serena, in essa deve apparire prima o poi “la
potenza dell’azione riconciliatrice della grazia, che abbatte i
dinamismi disgregatori presenti nel cuore dell’uomo e nei rapporti
sociali” (VC 41).
Anche il recente documento della
Congregazione per la Vita Consacrata, Il servizio dell’autorità e
l’obbedienza (= SAO) pronuncia un linguaggio simile quando parla di
sinergia fra chi comanda e chi accetta di essere guidato, perché si
tratta di “due dimensioni della stessa realtà evangelica, dello stesso
mistero cristiano, due modi di partecipare alla stessa oblazione di
Cristo. Autorità e obbedienza si trovano personificate in Gesù: per
questo devono essere intese in relazione diretta con Lui e in
configurazione reale a Lui” (SAO 12).
Il problema non sono
i conflitti, ma come gestirli
Nonostante ogni sforzo per mascherare
tensioni e conflitti, molte comunità li mostrano lo stesso, magari
illudendosi che non si percepiscano da fuori. E non si rendono conto che
la vera testimonianza non sta nel negare l’esistenza di diversità e di
tensioni, ma nella maniera di gestirli, di ricomporre sempre di nuovo
l’unità nella carità e nella lealtà, senza dimenticare la giustizia e
l’equità. Perché la comunione non ce la diamo noi, ma ci è donata dalla
misericordia del Signore, anzitutto, dalla sua grazia diffusa nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito (Rm 5,5): e negare questa efficacia
anteriore ai nostri sforzi, vuol dire mettere noi stessi al posto della
grazia che salva e guarisce. Non siamo noi a salvare noi stessi.
Se ripensiamo un attimo al
“malcontento” che si stava diffondendo nella comunità cristiana
primitiva, a causa dell’apparente emarginazione delle vedove degli
ellenisti (At 6,1-6) e al modo come quel conflitto latente è stato
portato alla luce e risolto con genialità, comprendiamo come sia vero
che il punto focale è la gestione dei conflitti.1 Di fronte a quel
disagio, che era mormorazione, nervosismo, forse anche rabbia e
aggressività, “i Dodici” non cercano una soluzione dietro le quinte,
consultandosi con pochi intimi e fidati collaboratori, ma convocano “il
gruppo dei discepoli”. Cioè portano in pubblico con lealtà e onestà il
problema: cominciando a riconoscere anzitutto i propri errori,
l’incapacità di fare tutto, e forse anche la mania di controllare tutto.
Apertamente si assumono una colpa
oggettiva (“non è giusto”), di fronte alla gente e di fronte alla
gerarchia dei valori primari. E chiedono collaborazione per condividere
con altri i compiti molteplici: chiedono dei nomi, secondo certi criteri
oggettivi e validi per la comunità, e non secondo i propri interessi e i
propri gusti. E la comunità, coin-volta seriamente, risponde in modo
creativo: sceglie sette persone di nome greco (e quindi di origine
ellenistica), per assumere il nuovo “ministero” in piena autorevolezza.
E che si tratti di una corresponsabilità e non dei subalterni senza
autonomia, lo si vede da quello che poi questi “diaconi” fanno con
iniziative personali: Stefano è testimone coraggioso e primo martire (At
6,8-7,54), Filippo è predicatore itinerante in Samaria e sulla strada
verso Gaza (At 8,5-40).
Poteva essere un conflitto mortale
che spaccava tutto: è diventato la sorgente di una chiarificazione di
identità, di ruoli, ma anche occasione per una più evidente
partecipazione di altri gruppi etnici e culturali alla responsabilità
ecclesiale. Il conflitto è stato gestito in maniera intelligente, senza
paura di perdere la faccia e con un chiaro criterio di itinerario alla
soluzione, nella piena corresponsabilità e fiducia. Potevano sentirsi
minacciati “i Dodici” nella loro leadership, o pensare che i soliti
invidiosi turbavano la pace della comunità: cosa che molte volte si deve
costatare oggi in tanti conflitti nelle nostre comunità.
Sono rari i superiori e le superiore
che sappiano superare questa istintiva reazione difensiva: perché temono
di perdere potere, di lasciar troppo spazio a proposte alternative, di
dover ridimensionare se stessi. E allora si precipitano a dire che hanno
fatto tutto con retta coscienza, che sempre c’è qualcuno che pensa solo
a se stesso, che non si può accontentare tutti. Raro è il caso di
ritrovare la lealtà e la libertà dei “Dodici” di fronte al malcontento:
cioè una autocritica onesta, oggettiva e non nevrotica. E da qui nascono
molti guai e sofferenze serie.
Tutto il documento Il servizio
dell’autorità e l’obbedienza vuole condurre proprio verso
l’instaurazione, nelle comunità religiose, di un servizio dell’autorità
che promuova la crescita della fraternità in un clima favorevole
all’ascolto e al dialogo, la creazione delle condizioni opportune per la
condivisione e la corresponsabilità, la partecipazione di tutti alle
cose di tutti, il servizio equilibrato al singolo e alla comunità, il
discernimento, la promozione dell’obbedienza fraterna (SAO 20). Con
linguaggio deciso il testo conclude affermando che la vera fraternità si
fonda sulla libertà interiore: “Non è certamente libero chi è convinto
che le sue idee e le sue soluzioni siano sempre le migliori; chi ritiene
di poter decidere da solo senza alcuna mediazione per conoscere la
volontà divina; chi si pensa sempre nel giusto e non ha dubbi che siano
gli altri a dover cambiare; chi pensa solo alle sue cose e non volge
nessuna attenzione alle necessità degli altri; chi pensa che obbedire
sia cosa d’altri tempi, improponibile in un mondo più evoluto” (SAO
20g).
La fraternità in un
mondo diviso e ingiusto
Così s’intitola il paragrafo 51 di
Vita consecrata, e forse mai come in questo caso il titolo vale più
della stessa spiegazione, perché è più incisivo e originale. E non si
tratta di originalità messa lì per caso, perché anche in altri paragrafi
si riprende proprio questa prospettiva di una proposta culturale e
paradigmatica, che fermenta e contesta mentalità e convinzioni diffuse,
in cui odio e rifiuto, pregiudizi e logiche di sopraffazione sembrano
tanto naturali. E lo fa in vista di una guarigione dalle radici: perché
ci sono sempre tante ramificazioni nascoste di odio o rifiuto, di
pregiudizio e chiusura.
Il paragrafo spiega poi che le
comunità di vita consacrata hanno il compito e la chance di far
crescere, anzitutto al proprio interno, una spiritualità di comunione. E
poi di essere nella società rissosa e aggressiva “segno di un dialogo
sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità”,
secondo una logica di vita e di fiducia sempre rinnovata. E più avanti,
in altro contesto già di per sé originale, cioè nella sezione dedicata a
“una testimonianza profetica di fronte alla nuove sfide” (VC 84-95), si
presenta il tema dell’autorità e dell’obbedienza e il loro vissuto
costruttivo e non lacerante, come una controproposta culturale alle
“abnormi conseguenze di ingiustizia e persino di violenza [a cui] porta,
nella vita dei singoli e dei popoli, l’uso distorto della libertà” (VC
91). Appunto “contro lo spirito di discordia e di divisione” che
proviene dall’esasperare la “diversità di razza e di origine, di lingua
e di cultura” (VC
92), di sesso e di strato sociale, la
comunità fraterna afferma una reciproca accoglienza, nello stupore e nel
sostegno mutuo, contro tutte le discriminazioni in atto, palesi od
occulte.
Credo che questo aspetto --che in
effetti ha una notevole verità storica, pur nelle contraddizioni non
meno notevoli - ci dovrebbe far riflettere di più, e verso questo “porsi
davanti e alter-nativamente” rispetto alla cultura dominante, si
dovrebbero indirizzare anche i ripensamenti per risolvere la crisi dei
modelli di comunità oggi. In effetti quella mania della comunità
regolare e chiusa in se stessa, che consuma pie pratiche e sublima
nevroticamente le fratture e le ostilità, potrebbe essere sostituita,
con migliori risorse evangeliche e con più originali ispirazioni
carismatiche, da questo “porsi/opporsi” dialogico di fronte alla società
e alle sue nevrosi necrotiche e narcotizzanti.
Liberare le
potenzialità
Tutto questo per dire che, seguendo
questa “esposizione” verso fuori, ne ricaverebbe energia e senso il
nostro stesso stare nella Chiesa come fraternità orante e apostolica:
perché si arricchirebbe di un tasso migliore e più urgente di profezia e
di proposta culturale.2 Troppo ci attardiamo a confezionare la nostra
vita sotto vuoto, dimenticando che la grazia che salva e guarisce in
comunità, è anche un debito che abbiamo verso tutto e tutti.
Siamo chiamati a farla diventare
fermento, eloquente ed efficace, fascino e appello, in questa società
che ha tanto bisogno di unione e di speranza, eppure precipita di
frequente negli abissi della violenza e della paura suicida. Liberare
queste potenzialità non è una fantasia, ma un’urgenza con cui possiamo
misurarci, se vogliamo avere ancora una qualche chance in questa
congiuntura storica che viviamo.
1 In questa prospettiva cf B.
SECONDIN, La Parola di Dio non è incatenata. Lectio divina su Atti degli
Apostoli e Lettere di Paolo, Messaggero, Padova 2004, 25-36.
2 Mi permetto di rimandare ad un mio
contributo: “Vivere di utopia nei tempi dell’incertezza. Come
reinventare il fermento profetico nella Chiesa”, in J. M. ALDAY (ed.), I
religiosi sono ancora profeti?, Àncora, Milano 2008, 191-210.
Bruno Secondin
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma
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