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È
stato pubblicato l’11 maggio 2008 nella solennità di Pentecoste questo
documento della Pontificia Commissione Biblica che ha per sottotitolo:
“Le radici bibliche dell’agire cristiano”.
Una tale riflessione appare certo
opportunissima in senso teologico e pastorale. È noto che attraverso i
secoli il popolo cristiano è stato sottoposto dai suoi pastori, a ogni
livello (può valere per il più umile parroco di campagna come per le
voci ufficiali del magistero della Chiesa) a un vero e proprio
bombardamento di raccomandazioni e divieti di ordine morale, fino a dar
l’impressione che nel ‘comportarsi bene’ consistesse l’intera sostanza
dell’essere cristiani; e a una morale individuale, anzi
individualistica, spiccatamente esigente e severa almeno in linea di
principio, e perciò anche molto dettagliata, si accompagnava una morale
sociale vaga e approssimativa e forse troppo accomodante. Come
conseguenza di questa ipertrofia della morale prescrittiva, ancora oggi,
e anche tra fedeli ben disposti, vige quasi irriflessa la convinzione
che essere cristiani sia innanzitutto un fatto morale; invece la morale
(come felicemente afferma il documento di cui ci occupiamo) è una realtà
seconda. Da questo equivoco deriva anche la tendenza ad accostare le
Scritture in un modo ‘moralistico’, inevitabilmente decontestualizzato e
perciò poco significativo, quando non addirittura fuorviante: molti
fedeli di buona volontà, quando meditano una pagina biblica, vi
ricercano in primo luogo indicazioni morali, spesso in negativo (domanda
classica, espressa in parole oppure implicita:“Dov’è che sbaglio io?
Quali comportamenti dovrei correggere?”), dimenticando che la prima cosa
da ricercarvi, anche per trarne conseguenze di ordine morale, è il nuovo
di Dio; e che non si può comprendere il‘dono’ affrontandolo come un
contratto o come un codice. Nel Medio Evo si ritrova spesso la tendenza
a usare la Scrittura come supporto a convinzioni teologiche ed etiche
già affermate per via filosofica o consuetudinaria o disciplinare. In
altri termini, si enuncia l’idea o la prescrizione, già ben definita e
indiscutibile, e solo ‘dopo’ si va a ricercare un versetto ad hoc (il
quale spesso non si trova proprio, e questo è ancora il male minore; più
spesso si trova qualcosa che sembra adatto, mentre per contenuti e
contesto tende ad altro). Quanto più ci si avvicina alla nostra epoca,
tanto più ci si rende conto che questo sistema è insufficiente e
controproducente: talvolta significa forzare la Scrittura all’interno di
categorie filosofiche che le sono estranee. D’altra parte, la poca
simpatia dei nostri contemporanei per un’etica normativa, e la crescente
consapevolezza dei vari condizionamenti che influiscono sull’agire
dell’essere umano - insieme all’accresciuta consapevolezza del carattere
storico e contingente di certe prescrizioni bibliche -, hanno reso
difficile in pratica, più che in linea di principio, la ricerca dei
fondamenti biblici della morale cristiana.
Il lavoro della
Pontificia Commissione Biblica
Il tema era stato affidato alla
Commissione nel 2002 da Joseph Ratzinger, allora Prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede. Non è forse inutile ricordare
che la Pontificia Commissione Biblica (d’ora in avanti PCB) è un
organismo vaticano a carattere consultivo: fondata da Leone XIII nel
1902 quasi con finalità di difesa, cioè per contrastare quella che era
ritenuta la perniciosa influenza dei ‘novatori’, fu riordinato nel 1971
da Paolo VI allo scopo di promuovere lo studio della Bibbia secondo
quanto auspicato dal Concilio, di contrastare con mezzi scientifici le
opinioni errate in materia di Sacra Scrittura, più in generale di
studiare e illuminare le questioni dibattute in campo biblico, di
offrire insomma il suo contributo specialistico al magistero della
Chiesa.
Un dettaglio significativo è che la
PCB non sia presieduta da un biblista: presidente di diritto è sempre il
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Tuttavia è il
segretario a presiedere tecnicamente le sessioni (attuale segretario è
il p. Klemens Stock, gesuita).
I 19 membri della Commissione si sono
riuniti in Vaticano per l’annuale assemblea plenaria dal 16 al 20 aprile
2007, allo scopo di discutere la bozza del documento e approfondire i
contenuti. Dopo due distinte votazioni (una sulle singole parti e una
sul documento nel suo insieme), il documento è passato attraverso una
fase di correzione-integrazione e, sorprendentemente, per un’ulteriore
revisione della correttezza formale dell’italiano; infine è stato
affidato al Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
card. William Joseph Levada.
Uno sguardo
panoramico
Il documento è di estensione più che
considerevole, un vero e proprio volumetto di 238 pagine a stampa; e
presenta, sovrapposta all’abituale scansione in numeri, una struttura
estremamente precisa e dettagliata, fino a 4/5 livelli di suddivisione
di capitoli e paragrafi, che si evidenzia da un esame dell’indice più
che dalla semplice lettura corrente.
Dopo la prefazione del card. Levada e
dopo l’“Introduzione” (nn. 1-6) che chiarisce ragioni e obiettivi del
documento, linee di fondo e destinatari, la prima parte verte su “Una
morale rivelata: dono divino e risposta umana” (nn. 7-91), la seconda su
“Alcuni criteri biblici per la riflessione morale” (nn. 92-154). Vi è
poi una “Conclusione” generale (nn. 155-160) che riprende in prospettiva
un po’ diversa alcuni temi enunciati all’inizio, in particolare quello
della morale rivelata - vero leitmotiv del documento - sottolineando che
si tratta di una morale considerata non dal punto di vista dell’uomo, ma
dal punto di vista di Dio. La prima parte ripercorre la storia della
salvezza nelle principali tappe attestate dalla Bibbia, secondo lo
schema appello di Dio / risposta umana. L’approccio segue l’iter
storico-narrativo (che non vuol dire storico-cronologico, anche se si
configura come un percorso storico) della successione canonica dei libri
biblici, dalla Genesi all’Apocalisse, prescindendo quindi dall’approccio
storicocritico indispensabile in sede teologica ed esegetica. Sembra
però da sottolineare che il metodo storico-critico, benché non applicato
direttamente, rimane per così dire sullo sfondo, e la valutazione che se
ne offre risulta implicitamente positiva. La constatazione di fondo che
ispira il lavoro della Commissione è che nella Bibbia si trova una
dimensione morale --altra cosa dal moralismo -, ma che la morale nella
Scrittura appare sempre come una realtà ‘seconda’, che non vuol dire
secondaria: la realtà prima è l’iniziativa di Dio che chiede agli esseri
umani di vivere in comunione con lui. I singoli precetti morali, le
disposizioni e le proibizioni non compaiono mai isolati e non hanno
valore in sé, ma vanno sempre contestualizzati nel dono di Dio che si
comunica e chiede la risposta umana, in una logica di alleanza. I tre
doni di fondo sono la creazione, l’Alleanza nelle sue varie tappe,
l’evento di Gesù dono supremo di Dio ed esempio supremo di comportamento
morale in rapporto a Dio.
Criteri per il
discernimento morale alla luce della Bibbia
Oggi a qualcuno può apparire
impossibile e velleitario fondare sulla Scrittura l’etica cristiana
(come auspica il Concilio Vaticano II, cf OT 16): infatti l’etica si
appoggia da un lato sulla Rivelazione di Dio - realtà ‘teandrica’
perenne, ma in continuo divenire quanto alla comprensione e
all’espressione da parte degli esseri umani -, dall’altro lato
sull’antropologia e le scienze umane in genere, che giustamente sono in
continua evoluzione, anche sotto la spinta di accadimenti storici non
prevedibili. Il materiale normativo offerto dalla Scrittura appare
spesso inadatto, troppo condizionato culturalmente, inapplicabile in una
situazione profondamente mutata; in ogni caso insufficiente, visto che
molti ambiti della riflessione etica oggi per noi fondamentali (qualche
esempio: politica, lavoro, economia, amore e sessualità, etica biomedica
e ricerca scientifica…), nella Scrittura semplicemente non compaiono.
Possono derivarne due conseguenze quasi opposte, ugualmente errate e
cariche di rischi: quella di ritenere la Bibbia ininfluente o quasi ai
fini della vita morale o, al contrario, di ritenere immediatamente e
universalmente valido il contenuto etico che è affermato nei vari libri
biblici o che sembra di poterne dedurre (non è certo un rischio teorico:
il neofondamentalismo infatti è uno dei problemi con cui il nostro tempo
deve misurarsi). In realtà la Bibbia ha una portata etica anche nei
libri e nelle pagine che in apparenza non hanno nulla di prescrittivo;
ma certo non può essere affrontata come una raccolta di indicazioni per
l’agire, universalmente valide e pronte all’uso. Vorremmo aggiungere che
anche l’approccio, anche il modo di porre la domanda ha una valenza
etica. Il documento della PCB enuncia dapprima i due criteri principali
che illuminano la soluzione anche di problemi molto moderni (ovviamente
non affrontati nella Scrittura): - “la conformità con l’immagine biblica
della persona umana” (nn. 95-99); - “la conformità con l’esempio di
Gesù” (nn. 100-103). Sono poi enucleati - e costituiscono forse
l’aspetto di maggior interesse del documento - altri sei criteri più
specifici, che ci sembra giusto enunciare con attenzione e per esteso:
1. In molti casi nella Bibbia si
riscontra una certa affinità con regole, leggi e prescrizioni morali di
altri popoli, soprattutto del Vicino Oriente antico (criterio di
convergenza, nn.105-110). È una constatazione iniziale importante ancora
oggi ai fini di una ‘comunicabilità’ del discorso etico quanto più è
possibile allargata anche al di fuori della tradizione giudeocristiana e
della cerchia dei credenti.
2. Tuttavia dai due Testamenti
risulta anche una ‘specificità’ del po-polo dell’Alleanza, una
distinzione chiara tra quanto richiesto al popolo di Dio e quello che si
verifica al di fuori (criterio di contrapposizione, nn.111-119): ciò
equivale a dire che la fedeltà a Dio può richiedere in certi casi il
coraggio di agire controcorrente.
3. Passando da una fase all’altra, da
certi libri biblici ad altri e dall’Antico al Nuovo Testamento, si
osserva anche uno sviluppo delle regole morali in una direzione più
esigente, più interiore (criterio di progressione, nn.120-125).
4. La persona a cui il messaggio
morale latente ed esplicito si indirizza non è mai un individuo isolato,
ma membro di una comunità, che determina anche le regole della
convivenza (criterio della dimensione comunitaria, nn.126-135).
5. La vita dell’uomo non si esaurisce
nella dimensione terrena (anche se, com’è noto, in certe fasi della
riflessione biblica non appare ancora un’idea chiara di vita dopo la
morte). In particolare per i cristiani la vita terrena è iscritta in un
orizzonte escatologico aperto dalla resurrezione (criterio della
finalità, nn.136-149). Questo criterio è sviluppato con particolare
ampiezza e mette in luce la centralità della speranza nell’etica
cristiana.
6. Quando nella Bibbia si incontrano
prescrizioni morali, è necessario valutare correttamente il contesto in
cui hanno preso forma: lo stesso discernimento attento e storicizzato è
da applicare alle decisioni quotidiane (criterio del discernimento, nn.150-154).
Il criterio conclusivo è fondamentale in quanto sottolinea il ruolo
dello Spirito e della coscienza nell’agire morale, oltre allo spessore
comunitario delle scelte etiche.
Gesù, continuità e
compimento
Ricordiamo che anche nell’ultimo
documento pubblicato prima di questo dalla PCB, dal titolo Il popolo
ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, il rapporto tra
i due Testamenti veniva descritto come rapporto di continuità -
discontinuità -progressione. In particolare s’insisteva sul fatto che la
nuova alleanza portata da Gesù non cancella, non sostituisce, non
svaluta in alcun modo la prima alleanza. L’evento di Gesù è il fatto
permanente e decisivo anche dal punto di vista morale, benché il suo
messaggio non sia in primo luogo un fatto morale bensì l’annuncio del
Regno di Dio vicino. L’elemento nuovo portato da Gesù s’identifica con
la sua stessa persona, con il suo esempio, a cui egli stesso in certi
casi fa riferimento. Chi accetta il dono della comunione di vita con Dio
portato da Gesù non può che accettare la sequela di Gesù, quindi vivere
in modo tale da seguire il suo esempio, e in particolare rinunciare
all’egoismo e alla chiusura di cuore.
Gesù non si pone in alternativa o in
conflitto con la Legge d’Israele: solo, talvolta, con un certo modo di
intenderla e di praticarla assolutizzando la precettistica esteriore a
scapito dell’interiorità, del cuore. Azioni e intenzioni devono
corrispondere al volere di Dio. Gesù dice di se stesso di essere venuto
non per abolire la Legge e i Profeti (questi termini designano nel suo
ambiente quello che noi chiamiamo il Primo Testamento), ma per
completare. Egli si pone quindi sulla linea dell’approfondimento,
dell’interiorizzazione, senza rifiutare né la Torah d’Israele né la sua
comprensione di fondo dell’Alleanza. Interrogato su quale sia il più
grande comandamento della Legge, risponde con il precetto ‘simmetrico’
dell’amore di Dio (Mt 22,37; cf Dt 6,5) e del prossimo (Mt 22,39; cf Lv
19,18), versanti inseparabili dell’unica risposta di amore. Interrogato
su chi sia il prossimo (Lc 10,29b), risponde letteralmente sfondando le
categorie tradizionali della prossimità (il prossimo è ogni membro del
proprio popolo), affermando con la parabola del buon samaritano che il
prossimo è qualunque persona bisognosa di aiuto che sia in nostro potere
aiutare. La Bibbia è fondamentalmente la testimonianza della
Rivelazione: Dio si rivela come amore. Vivere ‘moralmente’, essere
capaci di un agire giusto dal punto di vista cristiano significa
accogliere in modo consapevole quest’amore, e diventare progressivamente
capaci di irradiarlo.
Valutazione
complessiva
Il documento, come si diceva, viene
incontro a un’esigenza pastorale effettiva; e senza dubbio deve essere
considerato come un prodotto di buona qualità teologica e scientifica.
Apprezzabile, nell’insieme, anche lo stile espressivo, benché in certi
punti qualche lieve prolissità opacizzante possa venir determinata da
un’esigenza di completezza dottrinale. È vero che in questo come in
molti altri pur apprezzabili documenti dell’autorità ecclesiastica (e
anche nei testi del ConcilioVaticano II), possono coesistere senza
fondersi due ‘anime’ e due linguaggi ad esse afferenti. In altri
termini, sembrano molto riconoscibili nel documento almeno due strati,
insieme ad altri apporti più occasionali. Si ha l’impressione di una
stesura iniziale ad opera di un autore singolo che, oltre a sicure
competenze bibliche quali è ovvio attendersi da un membro della PCB,
rivela notevoli qualità di scrittore, oltre a sensibilità pastorale e
attitudine comunicativa; in trasparenza però, con effetto polifonico non
sempre felice, si distingue anche un altro strato - il lavoro di
revisione-correzione? - , spesso con riconoscibile variazione
stilistica. Ovviamente non si può sapere se qualche parte della stesura
preparatoria sia stata soppressa; ma talvolta si ha l’impressione di
qualche parte aggiunta, in ossequio a considerazioni di natura
pastorale-disciplinare abbastanza esterne rispetto al documento.
Dovrebbe trattarsi, dicevamo sopra, di un’esigenza di completezza
dottrinale: della preoccupazione di far rientrare con assoluta
chiarezza, in questo lavoro sui fondamenti dell’etica, alcune questioni
(quali l’unità del matrimonio o il rispetto della vita umana dal
concepimento alla fine naturale) che oggi sono al centro della
sollecitudine pastorale del Magistero, ma non sembrano rivestire la
stessa centralità nella Bibbia, quantomeno non con la stessa angolazione
prospettica. Tra gli aspetti positivi in prospettiva di futuro, si
vorrebbe sottolineare ancora l’importanza di quanto affermato in ordine
al discernimento, sia personale sia comunitario. “Ogni epoca deve di
nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri”, diceva l’allora
card. Ratzinger nella prefazione a un documento precedente della PCB,
L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Il p. Stock, segretario
della PCB, in un’intervista rilasciata all’agenzia Zenit nell’aprile
2007, subito dopo la sessione plenaria da cui è uscito in sostanza il
documento, diceva qualcosa di simile: “… Anche le Scritture sono un
fenomeno storico. L'Antico Testamento è stato scritto in ebraico, il
Nuovo Testamento in greco e già per leggere e capire il testo originale
di questi scritti è necessario un impegno storico nell'apprendere queste
lingue antiche. Già il semplice studio filologico, come ricerca del
reale significato delle parole, risulta non avere fine. Poi le
circostanze concrete economiche, sociali, politiche rientrano in una
comprensione più adeguata della situazione nella quale Gesù ha svolto il
suo ministero. Ma in questo senso lo studio non finisce mai”. Sottolinea
però che “ci sono delle costanti che superano tutti i condizionamenti
storici”: come il nostro rapporto non accidentale ma costitutivo con Dio
e con gli altri esseri umani, o l’appello che Gesù ci rivolge a entrare
in comunione con lui. La necessità del discernimento porta in primo
piano la necessità dello studio, aggiungeremmo (nella persuasione di
esplicitare quanto nel documento è comunque presente). Non si tratta di
un fatto intellettuale, ma di un’esigenza di qualità della fede. Lo
studio infatti non è un valore assoluto, non è un idolo, è solo uno
strumento; essenziale alla riflessione di fede, perlomeno in quanto
consente di operare una distinzione quanto mai purificante tra ciò che è
essenziale (inerente al piano di salvezza di Dio e alla logica
dell’Alleanza) e ciò che è accessorio (portato dalla cultura e da
circostanze storiche contingenti). Non ci sembra arrischiato affermare
che una persona a digiuno delle più elementari questioni di storia e
teologia biblica, e dei princìpi fondamentali del metodo
storico-critico, difficilmente potrà operare in modo limpido i dovuti
discernimenti alla luce della parola di Dio nelle situazioni concrete:
sempre più si comprende che anche il fatto di acquisire una qualche
seria competenza biblica, oggi che la cultura non è più un privilegio,
rientra fra le responsabilità dei credenti.
Lilia Sebastiani
Articolista e conferenziera in materia teologica
Via Isonzo, 9 – 05100 Terni
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