n. 1
gennaio 2009

 

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Parola ascoltata, parola vissuta

di BRUNO SECONDIN

 

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Ogni Sinodo è sempre un avvenimento complesso, e quando lo si vive da vicino non è facile trovare l’inquadratura giusta. Perché i frammenti quotidiani degli interventi dei padri sinodali in aula o l’eco vago dei lavori di gruppo rimandati da conversazioni amichevoli, e i bollettini della Sala stampa del Vaticano puntuali, ma senza chiavi di lettura, non consentivano di vedere i nodi veri. Tutto si mescolava, e mentre si veniva informati di cose secondarie si perdevano di vista quelle principali.

La XII Assemblea Sinodale Ordinaria era stata convocata per verificare nella Chiesa la qualità dell’attenzione alla Parola a distanza di oltre 40 anni dalla Dei Verbum e per provocare l’intera

comunità ecclesiale ad una nuova stagione di ascolto e di annuncio, in cui prevalgano - come diceva l’Instrumentum laboris - "il coraggio e la creatività di una pedagogia della comunicazione adatta ai tempi (cultura, contesto attuale, comunicazione" (n. 3). Proprio in una cultura della comunicazione densa e nevrotica, rapida e dispersiva come la nostra, la Chiesa deve (non solo dovrebbe) saper offrire la Parola della Rivelazione non semplicemente usando nuovi mezzi e nuovi stili, ma soprattutto abitando la comunicazione con fiducia e coraggio, per fermentarla e orientarla all’accoglienza della Parola e al dialogo con Dio che si fa voce e volto, dono di amicizia e stimolo alla comunione e alla speranza. Un Sinodo sulla parola di Dio nell’epoca della comunicazione esplosiva come quella attuale non sarebbe la stessa cosa se si fosse tenuto quando ancora televisione e internet e tante altre cose non c’erano. Anche le notizie dei suoi lavori sarebbero arrivate in modo molto diverso.

Un po’ di fatti

Quasi 400 i membri sinodali seduti su poltrone un po’ strette e in una cavea a semicerchio che convergeva verso il tavolo della presidenza: questo era lo spettacolo quotidiano. Non è stato facile neppure per gli stessi padri sinodali orientarsi nelle tre settimane di ascolto e di lavoro: oltre 250 interventi in aula, in varie lingue, senza ordine di temi e senza la possibilità di replica o di approfondimento. A metà lavori in mattinata e in pomeriggio, una breve pausa per un caffè; ogni tanto una giornata più libera, da passare correndo a cerimonie e incontri informali. In apertura del dibattito due lunghissime relazioni sulla preparazione del Sinodo e sui temi principali in evidenza: hanno parlato il segretario generale della segreteria permanente l’arcivescovo Nikola Eterovic e il segretario speciale per questo Sinodo, il card. Marc Ouellet, arcivescovo di Quebec. E a chiusura del dibattito ancora un’altra lunga relazione (in latino!) di Ouellet, che voleva inquadrare le mille schegge degli interventi in una sintesi che le ordinasse e le riportasse ad un contenuto organico, sistematico e istruttivo. Sono stati filtri molto utili quelle relazioni di Ouellet, ma appena pronunciate hanno lasciato il posto ad altri discorsi e altre riflessioni, nei lavori di gruppo e nella elaborazione del Messaggio. Per cui tutto si rincorreva in fretta, a scapito di una assimilazione vera.

E poi ancora le sedute complicate dei dodici gruppi linguistici, dove si incrociavano esperienze e sensibilità molto differenti, riuniti solo dalla comprensione della specifica lingua, che facilitava la reciproca comprensione auricolare, ma non certo il convergere di sensibilità e di orientamenti pastorali. E sempre nei gruppi la faticosissima concertazione per sintetizzare in "proposte" (le propositiones) di poche righe valori e sfide che si ritenevano più evidenti e urgenti, conciliando mentalità tanto diverse e suscettibilità altrettanto tenaci. Alla fine sono venute fuori 55 propositiones ufficiali, di varia natura e lunghezza, che sono state anche approvate per votazione elettronica e poi anche a mano consegnando il fascicolo firmato. Di esse esiste solo la traduzione italiana distribuita dalla Sala stampa. A leggerle si intuisce che dietro c’è stato molto sforzo di sintesi ma anche di rattoppo, in alcune si è lavorato di limatura per certe espressioni più coraggiose e in altre si vede l’accumulo di elementi un po’ alla rinfusa, per non scontentare nessuno. Si possono trovare al sito web: www.lectiodivina.it.

Più efficace invece nella capacità di accontentare e perfino di soddisfare i gusti tanto diversi, è apparso il Messaggio, costruito su uno schema previamente approvato, e suddiviso in quattro grandi simboli o icone: la voce, il volto, la casa, la strada. Si tratta di un testo piuttosto lungo, ma anche armonico e comunicativo, grazie all’abilità del redattore (quasi unico), che è stato il vescovo esegeta Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. La sua lunghezza è stata accettata per conservare la sua forza ispirativa e per poterlo anche utilizzare nelle Chiese locali come strumento di comunicazione ampia e suggestiva, da diluire in incontri e dialoghi.

Oltre a questi elementi principali, meritano un richiamo altre due cose: l’intervento spontaneo di Benedetto XVI il 14 ottobre sul rapporto tra esegesi scientifica ed esegesi teologica. Un intervento fuori programma, ma che ha lasciato un impatto molto evidente, tanto che le propositiones ne hanno risentito e ad esso si riferiscono esplicitamente, in particolare le propositiones 25-28. E poi la meditazione di Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli, durante i vespri celebrati nella cappella Sistina sabato 18 otto-bre: ne parla la propositio 37, ricordando che tutti hanno "gustato la bellezza della parola di Dio, letta alla luce della Sacra Liturgia e dei Padri" ed è stata "una lettura spirituale fortemente contestualizzata nel nostro tempo".

Una diffusa esperienza pastorale

È questa senza dubbio una chiave di sintesi di tutto il complesso lavoro del Sinodo. Era certamente anche la sensazione di partenza che aveva portato a scegliere questo tema, da tempo sollecitato dal cardinale C.M. Martini, grande esegeta e maestro di lectio divina, purtroppo assente al Sinodo, a motivo della sua precaria salute. I toni potevano essere esortativi o argomentativi, di testimonianza o di auspicio: ma certo molti interventi sono stati caratterizzati proprio da un consenso unanime sulla centralità e importanza della Parola nella vita ecclesiale e nella pastorale.

Si potrebbe anche dire che il Nord riconosceva un ritrovamento della Parola attraverso esperienze innovative (come le catechesi bibliche e la lectio divina); invece i Paesi dove è passata la dittatura del male (comunismo, fondamentalismo, nazionalismo, persecuzioni) hanno testimoniato la forza che la Parola ha dato e dà per attraversare quelle tenebrose avversità; il Sud portava la coscienza di una creatività che arricchisce la tradizione e mostra nuovi modelli di ascolto e servizio alla Parola. Mentre più prosaicamente un certo numero di interventi – fatti da rappresentanti o responsabili di settori di apostolato o anche di dicasteri romani – hanno incentrato il loro discorso sull’importanza della Parola per esempio nella sanità, nel mondo universitario, in quello imprenditoriale, nella scuola, fra le popolazioni indigene, nella pastorale giovanile, nella catechesi dei sacramenti, nei settori più disparati e specifici, propri di chi par-lava. Non si capiva se veramente era necessario dire cose così scon-tate, oppure l’intervento serviva solo a segnalare una presenza, a beneficio del gruppo o del movimento di riferimento. Altrimenti perché erano venuti a Roma, e a fare che cosa con tanta spesa e per tanto tempo?

Più giustificabili invece quegli interventi che hanno cercato di focalizzare dei nodi evidenti nella animazione biblica della pastorale. La difficoltà di raccordare e far dialogare il mondo dell’esegesi con quello della formazione cristiana; il rischio di letture fondamentalistiche quasi fanatiche e il proliferare di letture spiritualistiche senza impatto concreto; la fuga in avanti o a lato di movimenti e comunità nella loro forma di lectio biblica (a volte selettiva e chiusa nel gruppo) e il persistere di una grande ignoranza non solo verso i grandi temi biblici, ma anche per le cose più semplici; la facilità di accesso e possesso della Bibbia in mille forme (dai libri ai nuovi media), ma non accompagnati da una lettura quotidiana e da una assimilazione vitale, e via dicendo, hanno fatto capire a tutti che c’è tanto lavoro da fare. Non si tratta solo di rafforzare e ravvivare la pastorale biblica settoriale, ma più in generale di puntare sulla animazione biblica di tutta la pastorale.

Temi più originali

L’incontro diretto con la Sacra Scrittura è certamente oggi un fenomeno di massa, e tuttavia i percorsi concreti per farne un incontro vitale e non soltanto culturale o frammentario, vanno meglio inventariati, e pure purificati da improvvisazioni e da equivoci, focalizzando in maniera chiara sia il dovere di ciascuno di diventare ascoltatore obbediente e interlocutore con Dio che parla, sia le ministerialità ecclesiali che vi concorrono, con le proprie specificità.

Per questo si è chiesto che i sacerdoti e anche i futuri sacerdoti apprendano - dal contatto vivo e quotidiano con la Parola e dalla frequentazione di gruppi ed esperienze vive - ad esercitare l’arte di "interpretare in maniera vitale e performativa" nell’omelia i contenuti e gli appelli della Parola (prop. 31-32). Tante lamentele sulla povertà e l’inadeguatezza delle omelie si sono sentite in aula: per questo i padri sinodali sono corsi ai ripari chiedendo addirittura un Direttorio specifico (prop.15). Col rischio di introdurre così una omologazione di modelli che vadano bene a tutti, a cominciare dalla mentalità romana, a scapito della autenticità inculturata e anche creativa dell’omelia.

Altro campo esperienziale su cui si sono sentite varie voci sono gli ambiti di frontiera: come il dialogo ecumenico, o quello con gli ebrei e i musulmani, con i seguaci di altre religioni e perfino con chi non ha una tradizione religiosa. Le indicazioni che sono poi state raccolte nelle propositiones al riguardo non rivelano grandi novità: più auspici e sensazioni di mutuo arricchimento che delle vere strategie nuove (prop. 50-54). Sarebbe stato interessante esplorare il tema di frontiera come il valore delle Sacre Scritture delle altre tradizioni religiose, per rico-noscerne un valore non puramente provvisorio, ma anche costitutivo della stessa alleanza di Dio con i popoli della terra in Noè e in Abramo. Nella relazione con la lettura ebraica della Bibbia (per il Vecchio Testamento) al Sinodo ci sono stati due eccezionali inter-venti, uno del rabbino capo di Haifa Shear-Yashuv Cohen, e l’altro del card. Albert Vanhoye, già esegeta del Biblicum.

Anche quando si toccavano ambiti di nuovo interesse ecclesiale: come l’arte, le comunicazioni, l’ecologia, il fondamentalismo, le sette, le traduzioni, la famiglia, le donne, ecc., si stentava a trovare delle prospettive originali, tuttavia alla fine la presenza di questi temi nelle conclusioni servirà per ispirazione all’esortazione postsinodale (cf prop. 39-48). Da una parte si trova la conferma di un progressivo dilatarsi della lista degli ambiti e delle applicazioni; dall’altra si percepisce bene la necessità di riflettere ancora meglio, cogliendo occasioni propizie, ma anche la sfida ad usare nuovi criteri e approcci non puramente amministrativi, per allargarsi quasi "dilagando" in questi settori.

Credo che si debba fare attenzione alla creatività nei linguaggi e nei metodi, nella verifica e nella proposta. Ancora troppo evidente è la sensazione che si parla come se si trattasse solo di spingersi fino a quelle terre incolte: non si scopre la convinzione che Dio di là sta chiamando noi suoi testimoni ad ascoltarlo, a riconoscere i linguaggi che "là" lui già ha fatto nascere e i paradigmi di "obbedienza" già in atto, prima del nostro farci caso. In parole povere, ma dirette, siamo ancora troppo clericali e presuntuosi, e ci avviciniamo a nuovi settori e nuovi areopaghi con tetragona presunzione di poter e dover dare tutto ciò che serve, senza invece anche ascoltare la voce di Dio che da lì già ci parla e ci chiede di lasciarlo parlare ancora meglio, a beneficio di tutti, noi compresi. Questa attitudine di un dialogo "accogliente" e non solo "docente" è pure stata invocata al Sinodo, ma per diventare realtà ce ne vuole ancora.

Alcuni nodi difficili

Uno dei punti caldi e insieme nodo intricato, che probabilmente sarà la esortazione postsinodale a sciogliere, è la natura stessa della parola di Dio.

C’è stato uno spostamento fin troppo precipitoso di visuale, e vedremo come si troverà una spiegazione convincente. Tutti si sono precipitati a dire che la Bibbia non è "Parola di Dio", ma la veicola, perché la parola di Dio precede la Sacra Scrittura e la eccede, cioè travalica i suoi limiti materiali. E tuttavia resta da chiarire allora il valore di questo dato "incarnatorio": Dio che si rivela e si fa "carne" in un linguaggio, una espressione, una modalità espressiva, impastata di cultura specifica, ma anche di mediazione efficace alla trascendenza ultima. Che cosa implica accettare l’<<evento di grazia che riaccade nella lettura e nell’ascolto delle sacre Scritture>>, come dice la propositio 9? Quali sarebbero le condizioni e gli atteggiamenti per poter davvero entrare nel dinamismo della auto-comunicazione del Dio vivente? Certamente il mistero della Parola trascende sempre il testo sacro, ma nel testo manifesta la sua identità genuina e nella lettura del testo si realizza uno specifico contatto di Dio con noi, in quanto parla e anche ci ascolta, e noi a Lui parliamo, dopo averlo ascoltato.

Di qui deriva anche l’esigenza di una migliore esplicazione teologica sulla espressione diffusa, che afferma che la Bibbia è "sacramento" della Parola di Dio: e ciò si rivela anzitutto nella liturgia, tema sul quale l’Instrumentum laboris aveva apportato delle evidenti correzioni (n. 34) rispetto alla reticenza dei Lineamenta. La proposizione n. 7 dice ora: "L’eucaristia è un principio ermeneutico della Sacra Scrittura, così come la Sacra Scrittura illumina e spiega il mistero eucaristico". Ma nella stessa linea si potrebbero richia-mare anche gli altri sacramenti. E anzi la stessa esperienza della lectio divina - anche se il Sinodo alla fine ha voluto orientare in maniera nuova questa esperienza collocandola come esperienza inter-na alla generale lettura orante della Parola (cf prop. 22) - ha la sua peculiarità, non riducibile al "pio esercizio", proprio per questa natura "sacramentale" della Parola, che ivi dispiega la sua dynamis di illuminazione e di appello alla conversione, prima ancora e di più dei nostri sforzi per farci una riflessione orante. Lo aveva detto chiaramente la conclusione dell’Instrumentum laboris con una frase molto efficace: "Non è l’uomo che può penetrare la parola di Dio, ma solo questa può conquistarlo e convertirlo, facendogli scoprire le sue ricchezze e i suoi segreti e aprendogli orizzonti di senso, proposte di libertà e di piena maturazione umana" (n. 59).

Anche la relazione fra esegesi tecnica e scientifica e la fede della Chiesa avrà bisogno di una migliore focalizzazione, non a scapito della scientificità della ricerca, ma neppure senza relazione seria e vincolante con la fede vissuta. L’intervento del papa del 14 ottobre è stato travasato in ben 4 propositiones (nn. 25-28), ad indicare che l’assemblea si è sentita in dovere di raccogliere il suo richiamo, del resto già espresso anche in altre circostanze. Ma ora si deve trovare l’equilibrio fra il restringimento ecclesiocentrico e quindi anche la ministerialità dei teologi al servizio della fede credente e della pastorale, e la necessità di garantire alla ricerca e agli studi esegetici il più ampio orizzonte e la libertà oppor-tuna, senza quella inevitabile auto-censura che anticipa eventuali correzioni delle autorità. Forse la stessa sonora tonalità usata contro il rischio di una esegesi scientifica poco sintonizzata sul ritmo della pastorale (prop. 25-26), potrebbe, e perché no? dovrebbe essere usata anche contro il dilagare di una lettura spiritualista e narcisistica che svilisce la parola di Dio a tisana e balsamo per angosce mal digerite. Anche al Sinodo si sono sentite lagnanze su questo versante, ma non hanno lasciato poi nelle propositiones che allusioni sottili, mentre quell’altra preoccupazione ha fatto grande rumore.

L’ultimo nodo che vedo non sciolto, ma che ha lasciato le sue striature qua e là sia nel Messaggio finale che nelle proposizioni, è il tema dell’ermeneutica a partire dagli occhi e dalle lacrime dei poveri. Mentre Lineamenta e Instrumentum laboris avevano ripreso una felice espressione del testo della Pontificia commissione biblica del 1993 sulla Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (IV.C.3) circa la originalità e intuizione della lettura dei poveri, ora nei risultati finali il protagonismo dei poveri nella nuova ermeneutica esistenziale e non solo accade-mica, appare accennato con lontana simpatia, ma senza troppo insistere (Messaggio n. 13; prop. 11). E fra i "poveri" nel senso di emarginati e senza voce, nella Chiesa e nella società si potrebbero include-re anche le donne? Esiste una proposizione specifica che le riguarda, ma è di una brevità impressionante (prop. 17), pur essendoci stata la pressione delle donne partecipanti per un arricchimento adeguato. Una resistenza di sbarramento è stata messa in atto, con sorpresa e frustrazione per tante donne che di fatto sono sia esegete e grandi esperte sulla Parola, sia animatrici le più numerose di comunità. Il fatto poi che si auspichi che venga loro conferito il ministero istituito di lettrice - cosa che già fanno da anni - sembra un contentino neanche tanto elegante. Altri cenni si trovano anche altrove, più significativi, anche se messi quasi con prudenza, per non dar troppo nell’occhio (prop. 20 e 30). Speriamo che nell’elaborazione della esortazione postsinodale il Papa abbia più libertà e audacia di quanta ne ha avuta il Sinodo, e sappia recuperare questi nuovi protagonisti senza se e senza ma, per un autentico volto evangelico e profetico della Chiesa comunione.

In conclusione

Non è stato affatto un Sinodo deludente, e tanti partecipanti hanno attestato che il clima era buono e il rispetto reciproco era sano. Forse una certa genericità dei discorsi e delle prospettive --eccetto alcuni punti che abbiamo segnalato - era dovuta anche al fatto che vi hanno partecipato e preso la Parola non tanto i grandi maestri della Parola e della esegesi, quanto numerosa gente che con la Parola aveva una familiarità del tutto normale e amministrativa. I veri maestri c’erano - ed erano fra gli esperti, che stranamente erano considerati adiutores e quindi non autorizzati a parlare in aula --ma hanno dovuto semplicemente fare un quotidiano schema di sintesi dei temi, per passare poi gli appunti ai relatori ufficiali. Certo hanno anche avuto la parola nei vari gruppi linguistici, ma anche là prevaleva la presunzione dell’uno o dell’altro "pezzo grosso" di avere l’ultima parola, anche se proprio non era competente e autorevole sul tema.

Resta comunque la bellezza ispirativa del Messaggio finale, e sta a dimostrare che la familiarità con la Parola può fornire simbologie e arte comunicativa ben più ricche di quanto di solito si pensi. Purché la Parola si depositi nel cuore e ne divenga sapientia, cioè "sapida scienza", gustosa conoscenza e retto sentire.

Bruno Secondin
Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

 

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