Un ottimo modo
di leggere
è quello in cui si cerca la verità.
(DIEGO
ALVAREZ DE PAZ)
La
lettura è un’attività intellettuale che esige silenzio e concentrazione.
L’atto del leggere sotto questo profilo ci vede raccolti su un testo,
piegati su di esso in un circolo ideale che già di per sé rinvia alla
riflessione e rende l’immagine di una esperienza immateriale: «Chi legge
– scrive E. Bianchi – diviene anche per chi lo osserva, un’icona di
interiorità, un’immagine di raccoglimento, un’allusione al viaggio della
mente».
Scorrendo alcune pagine dei Padri
della Chiesa, è possibile imbattersi in ritratti di lettori che
restituiscono intatta questa impressione: per esempio quello dalle linee
essenziali di Gerolamo che, a detta di Postumiamo, «era tutto immerso
nella lettura e nei libri, senza fermarsi mai né di giorno né di notte,
sempre leggendo o scrivendo qualcosa» (Sulpicio Severo,
Dialoghi
1,8); oppure quello assai noto di
sant’Agostino che rappresenta Ambrogio mentre legge: «Nel leggere
scorreva le pagine con gli occhi e la mente era intenta a penetrarne il
senso, mentre la voce e la lingua riposavano. Spesso entrando…,
l’abbiamo visto leggere in silenzio, mai diversamente» (Le
Confessioni VI, 3,3).
Ma bastano queste istantanee sulla
lettura che ci sono state trasmesse dal passato a descrivere
dall'interno l'atto del leggere? Quale intenzione particolare deve
animare questa azione perché sia davvero “significativa” per noi, nel
senso che il gesto così comune del leggere lasci un segno, andando a
incidersi dentro di noi?
Lectio
cubicularis
Seguendo la fenomenologia patristica
un primo carattere di questa lettura personale è che essa si interrompe
per dare spazio alla meditazione e quasi non si ha più bisogno del libro
e delle sue pagine. Un germe di questo modo di leggere lo si trova in
san Gerolamo il quale a Demetriade scrive: «Stabilisci tu… per quanto
tempo leggere, non per affaticarti ma per tuo diletto e formazione
spirituale» (Epistole
n.130,15). Nella vita
monastica una simile lettura personale e privata è sovente collegata a
un'attività complementare e parallela alla
lectio divina (théia anágnosis)
oppure allo
studium.
Nella regola benedettina viene
rubricata come legere sibi,
come una lettura individuale per la quale vanno ricercati altri spazi e
altri tempi durante la giornata (cf
Regola
48,9). Nel corso dei secoli questa
lettura svolta per conto proprio è stata sempre raccomandata. Per
esempio Simeone il Nuovo Teologo ne dà una descrizione molto suggestiva
e poetica: «Chiudi la porta e prendi un libro. Leggine due o tre pagine
attentamente, quindi mettiti in preghiera, cantando quietamente e
pregando Dio, come può fare chi non è ascoltato da nessuno» (Catéchèses
26).
Giulio Negroni, autore di un
importante trattato sulla lettura (De
lectione privata librorum spiritualium,
Milano 1621) entra più nel dettaglio e, richiamando un detto di Plinio
il Giovane secondo cui bisogna
«multum legere non multa»,
stabilisce che per fare una lettura “qualitativa” non sono necessari i
tempi lunghi della lectio
regularis ma frazioni
senz'altro minori di tempo, da affiancare alla preghiera e allo studio,
«le quali non siano più brevi di un quarto d’ora né più lunghe di
un’ora. Se sono più brevi di un quarto d’ora non si ricaverà dalla
lettura alcuna utilità…, se sono più lunghe di un’ora ciò reca fastidio
e affligge lo spirito» (§22). Tuttavia questa lettura svolta nel
silenzio della propria camera (Negroni parla di
lectio cubicularis)
e in raccoglimento è ancora troppo legata a un aspetto esteriore, anche
se personale, della lettura privata. Infatti non sappiamo quali sono i
suoi contenuti e che cosa è necessario che accada perché l'atto del
leggere si trasformi in un'esperienza spirituale e diventi una lettura
spirituale.
Lectio
spiritualis
È in Giovanni Crisostomo che troviamo
per la prima volta l’espressione
lectio spiritualis (pneumatiké
anágnosis). Il brano è
quello molto noto dove si censura il malcostume di comprare e possedere
libri solo per esibirli e farne mostra sugli scaffali. Infatti la
domanda che pone suona chiaramente retorica: «Chi di voi – scrive –
trovandosi a casa, prende in mano un libro cristiano, esamina ciò che vi
è scritto ed esplora le Scritture?» (Omelie
su Giovanni 32,3). Il tono
è acceso e vibrante, come spesso accade nei suoi scritti. Ma è quello
che aggiunge dopo che ci porta oltre una sia pure calzante critica di
costume, quando scrive che «le Scritture non ci sono state date perché
rimangano solo sui libri, ma perché le incidiamo nei cuori. Un possesso
di tal genere coincide con un’aspirazione giudaica: l’essere riposti i
precetti soltanto nella lettera, a noi invece neppure all’inizio la
legge fu data in questo modo, ma fu scritta sulle pagine di carne del
cuore».
La lettura spirituale è questa legge
scritta nei cuori e definisce, indicandola, tutta la distanza
dell’opposizione tra la lettera e lo spirito (cf 2Cor 3,6): essa infatti
trasforma in vita, rende vivo ciò che invece potrebbe restare lettera
morta. Il confronto in questo passo è con la legge giudaica, ma può
valere per tutte le interpretazioni che non sanno trasferire al cuore
quello che si è letto, che non sanno leggersi «sulle pagine di carne del
cuore».
Quando parla di
lettura spirituale
Giovanni Crisostomo allude ad un
orizzonte dinamico, non statico, di confronto con se stessi, di
relazione di sé a sé che si riflette in ogni azione dell’uomo, per cui
la lettura in quanto chiuso nel quale ricoverarsi e distaccarsi dal
mondo, ma è un modo per attingere ai significati «Onora la tua
intelligenza» più profondi di sé, a una conoscenza di sé che non esclude
il mondo, anzi lo presuppone come luogo della sua azione e della sua
realizzazione e come capacità di testimoniare con la propria vita ciò
che diversamente si è studiato soltanto.
Lectio
cordialis
Per indicare questo tipo di lettura
«dove il libro si vaporizza e scompare» (G. Brillet) e ciò che si è
letto non diventa un deposito astratto di cultura ma fa appello alla
nostra autenticità e verità, i Padri parlavano di
lectio cordialis,
una lettura cioè che ci chiama in causa e interpella il nostro cuore:
«Se uno vuole esamini i suoi pensieri... Se uno vuole, legga col cuore»,
scrive Barsanufio a Giovanni di Gaza (Correspondence
143).
Leggere con il cuore
e sulle sue
pagine di carne
(per riprendere la metafora del
Crisostomo) significaentrare in contatto con quello che si legge, vuol
dire mettersi in ascolto di sé mediante il libro, sfruttarne la
trasparenza per giungere attraverso le sue righe a se stessi.
In tal modo la lettura svolge una
funzione simile a quella del padre spirituale e ne integra per così dire
il lavoro. Questa relazione è colta chiaramente da Baltasar Alvarez,
direttore di santa Teresa d'Avila, per il quale «la vita ha comunicato
ai libri quel maestro che parla attraverso di essi e istruisce il nostro
cuore» (Luis de la Puente,
Vita B. Alvarez 22).
Come la mediazione del padre
spirituale sviluppa una risposta di senso e di verità agli interrogativi
che il discepolo porta, così la lettura spirituale si concentra su
un’esperienza capitale in cui il libro è capace di entrare in contatto
con il nostro vissuto in una relazione che attraverso la pagina e le
parole che si leggono, si fa ascolto di sé e decifrazione di sé.
«Un ottimo modo per leggere è quello
in cui si cerca la verità e si desidera la sua bellezza», scrive il
gesuita Alvarez de Paz per rappresentare la verità stessa dell'atto del
leggere (De vita spirituali,
Lugduni 1608, 329). In tal modo lo spirituale della nostra lettura
coincide con la ricerca, con lo scoprimento di sé, con l'apertura che il
testo sollecita dentro di noi quando esso riesce a toccare le corde più
profonde del nostro animo, ponendo al centro di un gesto così comune e
antico una domanda di autenticità che lo scritto sottende e a cui il
lettore non può esimersi di corrispondere se non vuole mancare alla sua
essenza e alla sua alétheia.
Lucio Coco
Studioso di letteratura
cristiana antica greca e latina
Via dei Castani, 1 - 28813
Bée (VB)