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Amo
trascorrere le ferie estive nella casa paterna presso la mia città
natale. Sono giorni di silenzio, di un sereno ritrovarmi con me stesso e
di grandi letture. In quest’occasione generalmente amo pure preparare da
me i pasti. Abituato a consumarli nella comunità in cui vivo a Roma o a
mangiare fuori per motivi di lavoro, considero una bella possibilità
quella di scegliere cosa mangiare e di poterlo anche cuocere. Di
buon’ora esco a fare la spesa, ed ecco il pane, la pasta – quante forme
di pasta ci sono! – il condimento, la carne, la verdura e l’immancabile
frutta. E visto il caldo non mi faccio certo mancare un buon gelato. Ed
è tutto un arcobaleno di colori, di fortissime sensazioni e di profumi.
Verso l’ora di pranzo, poi, eccomi ai
fornelli: a mettere l’acqua a bollire, poi il sale, l’olio, a
predisporre la padella per la carne, a sciacquare e preparare frutta e
verdura…
E questo è uno degli appuntamenti più
attesi delle mie ferie: mi si dà infatti l’occasione di riscoprire il
gusto di un piatto particolare, di un sapore speciale, di un tocco
singolare dato a questa o a quella pietanza. Con mia grande gioia.
Se, infatti, dal punto di vista del
numero di calorie che apportano sono simili,
chi potrebbe negare l’abissale
differenza che esiste tra un piatto sapido ed uno scipito? E chi vorrà
paragonare la deludente sorpresa di trovare alla mensa comunitaria
sempre lo stesso piatto e la soddisfazione di poter gustare una più
congeniale pietanza?
Certo, chiunque abbia una qualche
dimestichezza con i fornelli sa quanto tutto ciò non sia semplice né
scontato. Serve esperienza, un pizzico di fantasia, e desiderio di
novità.
Non ci si stupisca ora se a me pare
di poter riscontrare qualcosa di analogo anche nel regno dello spirito.
In esso, in verità, vige pure una sorta di legge del gusto, del sapore,
del tocco speciale che l’anima di ciascuno di noi è chiamata a scoprire
e a perfezionare.
Il gusto dello
spirito
Ebbene, sì, anche la nostra anima è
chiamata a riconoscere e sviluppare una certa affinità per il
sapore
del mondo. In esso non tutto è
identico, non tutto ha lo stesso valore, non tutto possiede un’eguale
bontà. E questo vale per il mondo delle cose ed anche per quello quanto
mai variegato delle persone, con cui intratteniamo relazioni.
È pertanto necessario incrementare –
come nell’arte culinaria – una particolare attitudine a cogliere e a
saper corrispondere alle numerose differenze che caratterizzano le altre
persone e le cose di questo mondo.
E proprio a questo – ad un tale
rapporto attento, signorile e dignitoso con l’altro da noi – serve la
fondamentale esperienza dello studio: a sviluppare il “gusto” dello
spirito, ovvero quell’arte fine di saper cogliere e rispettare il
peso
e il
valore
di ogni realtà.
Lo studio autentico, infatti, non è
finalizzato ad accumulare una serie di informazioni nella nostra testa,
né semplicemente a fare nostro il sapere dei libri. Lo studio serve a
sentire
il gusto del mondo. Serve a
conoscere
il mondo. Il verbo conoscere, a prima
vista, pare un semplice sinonimo del verbo studiare, ma non è così. Per
scoprirlo lasciamoci aiutare dalla sua illuminante versione francese:
connaissance
– che deriva dal verbo
connaître.
Quest’ultimo tradotto letteralmente suonerebbe più o meno come
conascere.
Conoscere è dunque
conascere. La lingua
francese invita a scoprire la profonda parentela che si dà tra i due
verbi e i relativi sostantivi, nascondendo nel seno del verbo
connaître
(e della parola
connaissance)
il verbo che dice “venire alla luce”.
Conoscere è dunque come nascere
un’altra volta, con una nuova coscienza, nascere con un nuovo sguardo
sulla vita.
L’autentica conoscenza è, insomma,
l’instaurarsi di una familiarità/parentela con il mondo. Per questo,
l’esperienza dello studio non va considerata come una parte o fase della
nostra esistenza, quella legata al periodo della formazione iniziale.
No, lo studio è – dovrebbe essere – parte costante del nostro cammino
incontro al mondo, del nostro diventarne sempre più intimi, sempre più
esperti. E cosa
accade a colui/colei che si lascia
col-legare
dallo studio con la realtà?
Il tocco della
sapienza
Lo studio, in verità, possiede la
straordinaria forza di plasmare la nostra esistenza instradandola sulla
via della sapienza…
- di quella sapienza che si palesa
nel distinguere ed apprezzare l’alterità, consapevoli che non ci sono
mai due gesti umani identici;
- di quella sapienza che non
disprezza le divergenze e non nutre alcun culto per un mondo tutto
bianco o tutto nero, o per una convergenza ad ogni costo delle opinioni
dissimili;
- di quella sapienza che non si
lascia illudere dai luoghi comuni che “siamo tutti uguali” e che “ogni
mondo è paese”, non trascurando mai il fatto che l’esistenza si sorregge
su tante piccole differenze che debbono essere onorate perciò inseguendo
l’ambivalenza di ogni fenomeno;
- di quella sapienza che nasce
dall’impegno quotidiano a mantenere il nostro sguardo sempre pulito,
limpido, eliminando tutto ciò che potrebbe offuscarlo, perché molta
dell’infelicità umana nasce proprio dal guardare con un occhio malato,
dal guardare “di mal occhio” – è questa l’etimologia della parola
“invidia” – gli altri e ciò che essi realizzano. Colui che è sapiente,
invece, cura il suo sguardo, non invidiando più: si sforza di vedere
bene, di leggere bene, di descrivere bene, ed infine di dire bene ciò
che gli capita, i suoi problemi, le sue potenzialità, i suoi desideri,
lottando con tutte le forze contro l’onnipotente tentazione
dell’approssimazione. In tal modo è in grado di dire
bene
e, alla fine, anche di
bene
dire la sua esistenza e la vita che
lo circonda. Spesso al contrario la maggior parte di noi dice
male
di sé e degli altri, perché vede male
(invidia), e perciò (si)
maledice.
Ospitare per
ospitarsi
Da ultimo, lo studio ci introduce in
quella sapienza che si realizza come ospitalità, apertura di cuore e di
mente. Colui che è sapiente, infatti, impara a conoscere la grandezza
della vita, le sue incommensurabili potenzialità
(non siamo nati in fondo dall’unione
di due piccolissime cellule?),
e la sua altrettanto inerme fragilità
(non potrebbe un piccolo virus non
visibile a occhio nudo, ucciderci in un attimo?),
e proprio in ciò intravede sempre gli interstizi di energia e di
recupero presenti anche nelle situazioni più disperate. Per questo
abbraccia la vita, la ama, convinto che a nessuno debba essere negata la
possibilità di migliorarsi. Soprattutto a se stessi. Sa accogliere ed
accogliersi. Ospitare ed ospitarsi. E questa è la cosa più difficile
della vita: volersi bene,
che è tutt’altra cosa dell’essere semplicemente attaccati a se stessi.
In tutto ciò emerge anche la forza
sempre nuova dell’ironia, che è il lato più affascinante della sapienza.
Il sapiente sa prender(si)
in giro. Egli, infatti, sa
“prendere il giro” di se stesso e degli altri, perché sa misurare ciò
che è e ciò che può fare. Ha imparato a guardarsi dall’alto
(non è Dio)
e a riconoscere pure la verità
positiva del proprio essere
(non è neppure un nulla):
sa dunque degli errori e dei tentativi che accompagnano ogni esistenza.
Per questo con un sorriso si scrolla di dosso ogni tentazione di
disperazione e riprende il cammino.
Imparare il gusto
Interrogato sulle caratteristiche che
avrebbe dovuto possedere un buon religioso, il famoso generale dei
gesuiti padre Arrupe rispose dicendo che questi avrebbe dovuto conoscere
una lingua straniera, avrebbe dovuto saper nuotare ed infine – cosa
alquanto singolare – avrebbe dovuto saper mangiare.
Fuor di metafora, un bravo religioso
– e aggiungiamo noi ogni uomo e ogni donna che desiderano corrispondere
in modo pieno all’avventura della vita – dovrebbe dunque essere in grado
di farsi prossimo di mondi spirituali differenti e di muoversi in
ambienti estranei al proprio, come quello dell’acqua. Infine dovrebbe
pure coltivare il “gusto” – del palato e dello spirito – quale capacità
di cogliere le differenze e di apprezzare la qualità. Per sé e per gli
altri.
Armando Matteo
Assistente ecclesiastico
nazionale della FUCI
c/o Casa Assistenti
Via F. Marchetta Selvaggiani, 22 - 00165 Roma
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