 |
 |
 |
 |
Nel
2011 si celebra il 150° dell’Unità d’Italia. Se ne parla da mesi.
È legittimo che
gli istituti religiosi celebrino l’evento? O sono un mondo a parte, come
si è creduto in diversi momenti? All’epoca in cui Chiesa e Stato
sembravano contrapporsi sulla modernità, sulla secolarizzazione, specie
dopo il 1870, aumentarono i religiosi e ancor più le religiose dedite
alla vita attiva. La Chiesa fu emarginata dalle scelte politiche, subì
la separazione, e di fatto si avvicinò ancora di più ai poveri, alle
donne, a quanti non potevano beneficiare delle promesse del progresso.
All’inizio del Novecento gli ispettori e le ispettrici governative che
visitavano i collegi e gli educandati religiosi diffidavano
dell’istruzione lì impartita, credendola antipatriottica.
I convitti per
operaie, decisivi per lo sviluppo industriale, raccoglievano migliaia di
ragazze sottratte all’educazione familiare e al controllo sociale che le
preservava dalle “cadute”, fonte di fatale emarginazione. Le ispezioni
della Camera del lavoro riconoscevano un inequivocabile vantaggio sotto
il profilo igienico, sanitario, morale, pur temendo che le religiose,
stipendiate dai proprietari degli stabilimenti, costituissero una remora
nelle rivendicazioni sindacali.
Quando c’era già
la legge dell’istruzione scolastica obbligatoria, ma mancavano le
maestre e le aule, specie nelle regioni più povere; quando c’erano
schiere di ragazzi e ragazze analfabete che mai si sarebbero seduti
dietro banchi a misura di bambini, le congregazioni religiose operarono
negli interstizi informali delle vecchie e nuove povertà, senza opporsi
al progresso, anzi agevolando l’inserimento delle fasce popolari
nell’evoluzione socio-economica in atto, secondo i contesti.
Come reti di integrazione
È necessario
indagare su vasta scala in quale modo gli istituti, con differenti
compiti, contribuirono a “fare gli italiani”, nella varietà dei periodi
della storia nazionale. Tra Otto e Novecento si trattava di unire con
valori, lingua, modelli culturali, aree e regioni tanto distanti da
apparire “la Patagonia d’Italia”. Cosa comunicarono tante religiose e
religiosi trasferiti dal Piemonte e dalla Lombardia alla Sicilia, alle
regioni meridionali e centrali? La maggioranza delle famiglie con cui
operavano non leggeva i giornali e viveva nell’isolamento. Nella
normalità della vita quotidiana si rapportarono con persone che
fungevano da mediatori culturali, tessevano reti di unità nazionale.
Il graduale
incremento delle vocazioni locali e lo scambio di personale all’interno
degli istituti, l’assunzione di responsabilità di governo e nella
formazione da parte di religiosi e religiose provenienti da regioni
diverse da quelle in cui era sorta una congregazione; le traiettorie di
diffusione delle fondazioni nelle diverse regioni, rappresentano un
oggetto di indagine significativo per conoscere l’Italia reale. Non è
meno interessante studiare la successiva fondazione di congregazioni
religiose nel sud e nelle isole, con diffusione più ampia o a prevalenza
locale. E lo scambio internazionale dovuto alle aperture missionarie.
La grande
emigrazione degli italiani, prima delle regioni settentrionali e poi
delle meridionali e insulari, suscitò nelle congregazioni l’impegno di
mettersi al loro fianco, sia nei porti di partenza che nei luoghi di
arrivo, per l’assistenza sociale, culturale e religiosa. In moltissime
sedi si coltivò una “ben intesa”
italianità,
cercando di rendere coscienti di un’identità al di là della
frammentazione dei dialetti, mentre si aiutava la gente a inserirsi nel
nuovo contesto con dignità e onestà. Purtroppo nulla di tutto questo
appare nel pur pregevole Museo Nazionale dell’Emigrazione italiana,
allestito al Vittoriano di Roma (Piazza Venezia). Molto documentato sui
ristretti reali interventi statali, sulla stampa, su alcune associazioni
culturali, riserva pochissimi riferimenti a Scalabrini e alla Cabrini,
che insieme a
molti altri istituti diedero un aiuto decisivo agli emigranti, dai porti
di partenza (Genova, Napoli…), ai luoghi di arrivo. Non tenerne conto è
una ricostruzione storica oggettivamente distorta. Invece di lamentarsi
di pregiudiziali selezioni o di scarso impegno di informazione,occorre
documentare e far conoscere al pubblico interessato, uscendo dai soli
circuiti comunicativi interni agli istituti.
In
prima fila nelle emergenze
Durante la prima
guerra mondiale molte case religiose furono requisite, trasformate in
ospedali militari. Non solo le religiose dedite all’assistenza dei
malati, ma anche molte dedite all’educazione, si convertirono in
infermiere, dando un contributo attivo alle necessità della patria.
Laboratori, raccolta e confezione di indumenti senza numero da mandare
al fronte, l’accoglienza di orfani e figli dei richiamati in genere non
furono vissuti come ineluttabile necessità, ma con slancio convinto di
partecipazione alla vita nazionale.
Sarebbe stato
ancora possibile denunciare l’antipatriottismo dei religiosi? La
seconda guerra mondiale ebbe altre esigenze, con migliaia di storie
personali e comunitarie coinvolte nella carità, nell’ospitalità
rischiosa offerta a ebrei, renitenti alla leva, perseguitati politici,
sfollati, orfani. Fu una forma di resistenza che si avvalse degli
strumenti tipici di chi riconosceva un fratello in ogni persona, tanto
più se ingiustamente perseguitata.
Nelle emergenze
delle calamità naturali i religiosi e le religiose furono spesso in
prima fila nei soccorsi, dal terremoto di Messina a quello della Marsica,
da quello della Basilicata a quello del Friuli. Fino ai più recenti
appelli dell’emigrazione in senso inverso, dalle coste albanesi e
nordafricane verso le aree e le città in cui si annidano i disagi
dell’esclusione e le istanze di integrazione.
Ma la vita
nazionale è fatta soprattutto di vita quotidiana. Attende di essere
esplorata la rete di diffusione delle case religiose e delle opere nelle
città e nelle aree periferiche; negli ospedali, nelle attività
caritative e assistenziali, nelle scuole, nelle attività associative,
del tempo libero, in tempi di democrazia e in tempi di dittatura.
Da molte
istituzioni pubbliche i religiosi e le religiose hanno dovuto ritirarsi
o sono stati estromessi negli ultimi decenni, eppure sarebbe avvilente
dimenticare il patrimonio di valori umani, civili, culturali e religiosi
da essi coltivati e trasmessi, nella visione di un umanesimo cristiano
declinato nelle scelte della vita quotidiana. Non meno hanno contribuito
a sviluppare valori economici con il loro lavoro poco retribuito, la
formazione al lavoro delle giovani generazioni, non di rado sottraendole
alle spire della delinquenza e dell’emarginazione. Senza dimenticare,
certo, le lentezze, le arretratezze, le chiusure, gli opportunismi.
Laboratori di identità culturale
Posto che nella
società globalizzata, nell’Italia plurale in cui viviamo, sia necessario
riconoscere i valori identitari di una società, la grammatica della sua
cultura, è indispensabile indagare quale apporto specifico abbiano dato
gli istituti religiosi con una fede tradotta in opere molto concrete,
capillari nel territorio, diversificate, per diversi decenni in
crescita, senza temere di affondare oltre Eboli. Sia chiaro, è
altrettanto necessario scandagliare se gli istituti hanno dato un
apporto efficace per contrastare mali italiani radicati, come la mafia,
l’illegalità, lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente.
Solo con una
ricostruzione storica documentata sarà convincente l’affermazione che la
storia dell’educazione e dell’assistenza in Italia non si può scrivere
onestamente senza tener presente l’apporto di moltissimi religiosi e
religiose. Ma si troveranno persone disponibili a una ricerca su questi
temi, che riguardano il passato ma si affacciano sul presente, non senza
inquietare le coscienze e le menti?
C’è da augurarsi
che la domanda non cada nel vuoto, espressione di una rinuncia
rassegnata a rendersi presenti oggi anche in questa forma di
partecipazione alla vita nazionale. Il Coordinamento Storici Religiosi
(www.storicireligiosi.it) intende non mancare all’appuntamento.
Attanagliati dalle urgenze è difficile per le Congregazioni investire in
questo senso, eppure la lungimiranza della gratuità non è oggi meno
impellente. Un altro modo non retorico per non essere a parte rispetto
alla vita del proprio Paese.
Grazia Loparco fma
Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium»
Via
Cremolino 141 - 00166 Roma
 |