Educare
alla fede è sicuramente il compito più importante della vita della
Chiesa. Educare alla fede significa permettere a ciascuno di entrare in
contatto con la parola di Gesù, persuadendolo a orientare la sua libertà
verso il comandamento d’amore che egli ci ha consegnato. Una vita
plasmata dall’amore potrà umanizzare
sempre di più questo mondo. Questo mondo, infatti, non è tutto
completamente umanizzato. Il nostro modo di parlare ce lo ricorda quando
diciamo: - senza ritenere di affermare una banalità - «quel dottore è
umano», «quel tizio è umano».
Con
simili espressioni, non intendiamo semplicemente affermare che quel
dottore non appartiene alla specie dei cavalli, riconosciamo piuttosto
che l’essere
umano
dell’essere umano non è scontato, ma è una conquista. Ecco, la fede
tocca proprio questo livello della vita: permette di umanizzare la
nostra vita e la vita del mondo, perché ci indirizza ad una vita capace
di amore.
Tutti, d’altronde, sappiamo quanto sia difficile amare: come cristiani
siamo addirittura convinti che per amare autenticamente un’altra persona
si abbia bisogno di nulla di meno che dell’aiuto di Dio. Chi di noi non
sa quanta fatica ci vuole per amare l’altro nella sua verità e non
semplicemente l’immagine che noi abbiamo di lui. Oppure, come è
difficile farci amare nella nostra verità senza cedere alle eccessive
pretese che l’altro ha su di me!
Amare non è facile, ma è l’unica via che abbiamo per umanizzare questo
mondo, per continuare la fuoriuscita della nostra specie dal regno delle
scimmie, anzi per convertire quella “scimmia” - che ancora abita in noi
- definitivamente al regno umano. Ebbene: un cristiano sa che ci vuole
tutto l’aiuto di Dio per vivere una prassi di amore autentico. In una
parola, ci vuole fede, cioè fiducia nell’amore di Dio che Gesù ci ha
rivelato, il quale ci riconcilia con noi stessi e ci rende capaci di
amare e di poter andare incontro all’altro senza chiedergli di essere un
mio specchio, ma di essere se stesso.
Scompare l’arte di «iniziare»
Sembra tuttavia che oggi non si riesca più a comunicare una simile
verità. Che non si riesca più a manifestare il senso ultimo della Chiesa
e della sua missione al servizio dell’umanizzazione del mondo. Proprio
di recente un’indagine pubblicata su una importante rivista cattolica –
Il
Regno
–
rivela che il nostro Paese si allontana anno dopo anno da un
cattolicesimo diffuso, per rivestirsi di un generico cristianesimo. Il
dato diventa ancora più evidente se si considera quella fetta di
popolazione nata dopo il 1981: se una flessione dei comportamenti
religiosi è verificabile per tutte le fasce d’età, presenti oggi in
Italia, nel caso di coloro che sono nati dopo il 1981, la flessione è
davvero sorprendente: un distacco dalla generazione precedente di oltre
14 punti di differenza percentuale!
I
giovani dunque sono tra noi coloro che pregano di meno, credono di meno
in Dio, vanno di meno in Chiesa, si fidano di meno delle figure
istituzionali della Chiesa e sono meno disponibili a far coincidere il
loro essere italiani con l’essere cattolici. Insomma: i più estranei a
ogni espressione religiosa. E questo – un dato sinora mai registrato –
vale sia per la popolazione giovanile femminile che per quella maschile.
Il fatto appare ancora più eclatante se si considera che la quasi
totalità di questi ragazzi (oltre l’80%) ha completato in parrocchia il
cammino dell’iniziazione cristiana e si è avvalsa dell’insegnamento
della religione cattolica a scuola, per ben tredici anni. Dobbiamo,
allora, ripensare le nostre prassi di educazione alla fede, chiedendoci
che cosa non va in esse e quali strade sono da percorre per il futuro.
La
prima cosa che scopriamo è il fatto che ciò che la Chiesa finora ha
fatto per l’educazione alla fede è solo una faccia della medaglia
dell’intero lavoro di educazione alla fede. Che cosa si intende dire?
Nella nostra società, sino ad anni molto recenti, le comunità
ecclesiali, nel predisporre le loro attività di educazione alla fede
(catechismo, percorso dei sacramenti, celebrazioni liturgiche) hanno
potuto fare affidamento a ciò che possiamo definire il
catecumenato
familiare
e il
catecumenato
sociale.
L’ambiente familiare, e più in generale, l’ambiente sociale
contribuivano – almeno sino agli anni Ottanta del secolo scorso – a
iniettare nel cuore dei bambini un senso di fiducia nei confronti della
parola della Chiesa, che era come un primo, ma prezioso germe per il
lavoro più esplicito che poi veniva realizzato nelle ore del catechismo
e della partecipazione alla vita liturgica.
Non
si trattava di un’educazione intenzionale alla fede, ma di uno stile di
vita, un linguaggio, un modo di interpretare il cammino dell’esistenza,
una testimonianza di preghiera semplice nelle famiglie: tutto questo era
in sintonia con le istanze principali del messaggio del Vangelo e
creavano una cassa di risonanza molto efficace per l’azione ecclesiale
successiva. Tutto questo oggi non può più essere dato come presupposto,
se non per poche famiglie. Anche la società nel suo insieme era una
società fortemente morale e moralizzatrice. Non era di sicuro la
migliore società possibile, ma aveva un maggiore senso di moralità
pubblica.
Qual è il punto di sintesi di questo ragionamento? Il punto di sintesi
è il seguente: mentre la società e la famiglia, cioè il mondo degli
adulti, hanno repentinamente cambiato profilo negli ultimi quarant’anni,
le nostre prassi di educazione alla fede (in particolare quelle
parrocchiali) hanno continuato a dare per presupposto un modello di
società, di famiglia e di adulto che non c’è più.
Lavorare con gli adulti
I
molteplici cambiamenti, che si registrano attualmente nel mondo delle
famiglie e della società, e soprattutto nella concezione stessa
dell’essere adulto, hanno determinato un nuovo modello di educazione
all’umano, alla vita, che sempre di meno fa riferimento a quella
sapienza tradizionale dell’Occidente, con la quale il cristianesimo, sin
dal IV secolo d. C., era riuscito ad entrare in sintonia.
Le
parole d’ordine del nostro tempo non sono più quelle dell’eternità,
della verità, del sacrificio, dell’obbedienza al vincolo della legge,
della natura quale quadro immodificabile dell’esistenza, parole tutte
“battezzate” dal cristianesimo. Oggi le parole d’ordine sono quelle
della corporeità, dell’istante, della democrazia, dell’emozione, della
tecnica, dell’esperimento, della possibilità, parole con le quali la
fede cristiana deve tentare nuove alleanze.
E
poi ci sono fenomeni nuovi, le “rerum novarum” del nostro tempo:
l’allungamento dell’età media, la fissazione di un tempo più ampio per
essere giovani, l’emancipazione politica, culturale, sessuale ed
economica della donna, la ridefinizione del lavoro, la globalizzazione
dell’economia, l’ingresso prepotente dei nuovi mass media, il
mescolamento di culture e religioni. Da qui il venire meno di un’unità
della cultura e di una cultura dell’unità e l’imporsi di un pluralismo
di pensiero affascinante, ma anche conturbante.
Se
nel passato perciò - grazie a un orizzonte culturale condiviso - a
compiere il lavoro dell’educazione alla fede si era almeno in tre:
famiglia, società e comunità ecclesiale, oggi tale triangolo non regge
più. Sono nuove le dinamiche che governano l’umano e che comportano un
nuovo senso e sentimento per la vita. Non a caso i vescovi italiani, nel
documento
Educare alla vita buona
del
Vangelo,
parlano di “una corrente fredda” che sta attraversando i luoghi classici
dell’educazione: la famiglia e la scuola.
I
genitori attuali non sono, certo, normalmente contro la frequenza dei
loro figli all’esperienza ecclesiale (li portano a catechismo, li
mandano a messa, spesso anche ai campi estivi): l’educazione non avviene
attraverso le istruzioni che uno dà a un altro, ma attraverso gli occhi:
noi siamo ciò che abbiamo visto. I piccoli, infatti, guardano con occhi
stupiti non gli adulti ma
ciò
che
gli adulti guardano. Adolescenza significa, alla lettera, “tempo per
diventare adulto”, fissando ciò che gli adulti fissano.
Ebbene: che tipo di religiosità gli adulti, da circa trent’anni,
manifestano ai più piccoli? Nella loro esistenza si è vistosamente
assottigliato lo spazio riservato alla meditazione della parola di Dio,
alla frequenza delle celebrazioni liturgiche, ai discorsi di fede, e
soprattutto alla preghiera. Se i bambini non vedono i genitori e gli
adulti significativi, con cui entrano in contatto, pregare - che è un
modo semplice per “guardare” a Dio - difficilmente coltiveranno l’idea
che la fede, di cui la preghiera è l’espressione più elementare, sia una
cosa importante per la loro vita futura. Senza la preghiera dei
genitori, è difficile trovare la fede dei figli.
A
giusta ragione, quindi, i vescovi chiedono alla comunità ecclesiale una
rinnovata attenzione nei confronti degli adulti. Adulti che credono e
che pregano sono i primi e più efficaci testimoni di una fede che rende
più umana e perciò più buona (cioè da amare) la vita.
Armando Matteo
Assistente Nazionale della FUCI
Via F. Marchetti Selvaggiani, 22
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