n. 2
febbraio 2011

 

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Educare alla fede oggi

di ARMANDO MATTEO

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Educare alla fede è sicuramente il compito più importante della vita della Chiesa. Educare alla fede significa permettere a ciascuno di entrare in contatto con la parola di Gesù, persuadendolo a orientare la sua libertà verso il comandamento d’amore che egli ci ha consegnato. Una vita plasmata dall’amore potrà umanizzare

sempre di più questo mondo. Questo mondo, infatti, non è tutto completamente umanizzato. Il nostro modo di parlare ce lo ricorda quando diciamo: - senza ritenere di affermare una banalità - «quel dottore è umano», «quel tizio è umano».

Con simili espressioni, non intendiamo semplicemente affermare che quel dottore non appartiene alla specie dei cavalli, riconosciamo piuttosto che l’essere umano dell’essere umano non è scontato, ma è una conquista. Ecco, la fede tocca proprio questo livello della vita: permette di umanizzare la nostra vita e la vita del mondo, perché ci indirizza ad una vita capace di amore.

Tutti, d’altronde, sappiamo quanto sia difficile amare: come cristiani siamo addirittura convinti che per amare autenticamente un’altra persona si abbia bisogno di nulla di meno che dell’aiuto di Dio. Chi di noi non sa quanta fatica ci vuole per amare l’altro nella sua verità e non semplicemente l’immagine che noi abbiamo di lui. Oppure, come è difficile farci amare nella nostra verità senza cedere alle eccessive pretese che l’altro ha su di me!

Amare non è facile, ma è l’unica via che abbiamo per umanizzare questo mondo, per continuare la fuoriuscita della nostra specie dal regno delle scimmie, anzi per convertire quella “scimmia” - che ancora abita in noi - definitivamente al regno umano. Ebbene: un cristiano sa che ci vuole tutto l’aiuto di Dio per vivere una prassi di amore autentico. In una parola, ci vuole fede, cioè fiducia nell’amore di Dio che Gesù ci ha rivelato, il quale ci riconcilia con noi stessi e ci rende capaci di amare e di poter andare incontro all’altro senza chiedergli di essere un mio specchio, ma di essere se stesso.

 

Scompare l’arte di «iniziare»

Sembra tuttavia che oggi non si riesca più a comunicare una simile verità. Che non si riesca più a manifestare il senso ultimo della Chiesa e della sua missione al servizio dell’umanizzazione del mondo. Proprio di recente un’indagine pubblicata su una importante rivista cattolica – Il Regno – rivela che il nostro Paese si allontana anno dopo anno da un cattolicesimo diffuso, per rivestirsi di un generico cristianesimo. Il dato diventa ancora più evidente se si considera quella fetta di popolazione nata dopo il 1981: se una flessione dei comportamenti religiosi è verificabile per tutte le fasce d’età, presenti oggi in Italia, nel caso di coloro che sono nati dopo il 1981, la flessione è davvero sorprendente: un distacco dalla generazione precedente di oltre 14 punti di differenza percentuale!

 I giovani dunque sono tra noi coloro che pregano di meno, credono di meno in Dio, vanno di meno in Chiesa, si fidano di meno delle figure istituzionali della Chiesa e sono meno disponibili a far coincidere il loro essere italiani con l’essere cattolici. Insomma: i più estranei a ogni espressione religiosa. E questo – un dato sinora mai registrato – vale sia per la popolazione giovanile femminile che per quella maschile. Il fatto appare ancora più eclatante se si considera che la quasi totalità di questi ragazzi (oltre l’80%) ha completato in parrocchia il cammino dell’iniziazione cristiana e si è avvalsa dell’insegnamento della religione cattolica a scuola, per ben tredici anni. Dobbiamo, allora, ripensare le nostre prassi di educazione alla fede, chiedendoci che cosa non va in esse e quali strade sono da percorre per il futuro.

La prima cosa che scopriamo è il fatto che ciò che la Chiesa finora ha fatto per l’educazione alla fede è solo una faccia della medaglia dell’intero lavoro di educazione alla fede. Che cosa si intende dire? Nella nostra società, sino ad anni molto recenti, le comunità ecclesiali, nel predisporre le loro attività di educazione alla fede (catechismo, percorso dei sacramenti, celebrazioni liturgiche) hanno potuto fare affidamento a ciò che possiamo definire il catecumenato familiare e il catecumenato sociale.

 L’ambiente familiare, e più in generale, l’ambiente sociale contribuivano – almeno sino agli anni Ottanta del secolo scorso – a iniettare nel cuore dei bambini un senso di fiducia nei confronti della parola della Chiesa, che era come un primo, ma prezioso germe per il lavoro più esplicito che poi veniva realizzato nelle ore del catechismo e della partecipazione alla vita liturgica.

 Non si trattava di un’educazione intenzionale alla fede, ma di uno stile di vita, un linguaggio, un modo di interpretare il cammino dell’esistenza, una testimonianza di preghiera semplice nelle famiglie: tutto questo era in sintonia con le istanze principali del messaggio del Vangelo e creavano una cassa di risonanza molto efficace per l’azione ecclesiale successiva. Tutto questo oggi non può più essere dato come presupposto, se non per poche famiglie. Anche la società nel suo insieme era una società fortemente morale e moralizzatrice. Non era di sicuro la migliore società possibile, ma aveva un maggiore senso di moralità pubblica.

 Qual è il punto di sintesi di questo ragionamento? Il punto di sintesi è il seguente: mentre la società e la famiglia, cioè il mondo degli adulti, hanno repentinamente cambiato profilo negli ultimi quarant’anni, le nostre prassi di educazione alla fede (in particolare quelle parrocchiali) hanno continuato a dare per presupposto un modello di società, di famiglia e di adulto che non c’è più.

 

Lavorare con gli adulti

I molteplici cambiamenti, che si registrano attualmente nel mondo delle famiglie e della società, e soprattutto nella concezione stessa dell’essere adulto, hanno determinato un nuovo modello di educazione all’umano, alla vita, che sempre di meno fa riferimento a quella sapienza tradizionale dell’Occidente, con la quale il cristianesimo, sin dal IV secolo d. C., era riuscito ad entrare in sintonia.

Le parole d’ordine del nostro tempo non sono più quelle dell’eternità, della verità, del sacrificio, dell’obbedienza al vincolo della legge, della natura quale quadro immodificabile dell’esistenza, parole tutte “battezzate” dal cristianesimo. Oggi le parole d’ordine sono quelle della corporeità, dell’istante, della democrazia, dell’emozione, della tecnica, dell’esperimento, della possibilità, parole con le quali la fede cristiana deve tentare nuove alleanze.

E poi ci sono fenomeni nuovi, le “rerum novarum” del nostro tempo: l’allungamento dell’età media, la fissazione di un tempo più ampio per essere giovani, l’emancipazione politica, culturale, sessuale ed economica della donna, la ridefinizione del lavoro, la globalizzazione dell’economia, l’ingresso prepotente dei nuovi mass media, il mescolamento di culture e religioni. Da qui il venire meno di un’unità della cultura e di una cultura dell’unità e l’imporsi di un pluralismo di pensiero affascinante, ma anche conturbante.

Se nel passato perciò - grazie a un orizzonte culturale condiviso - a compiere il lavoro dell’educazione alla fede si era almeno in tre: famiglia, società e comunità ecclesiale, oggi tale triangolo non regge più. Sono nuove le dinamiche che governano l’umano e che comportano un nuovo senso e sentimento per la vita. Non a caso i vescovi italiani, nel documento Educare alla vita buona del Vangelo, parlano di “una corrente fredda” che sta attraversando i luoghi classici dell’educazione: la famiglia e la scuola.

 I genitori attuali non sono, certo, normalmente contro la frequenza dei loro figli all’esperienza ecclesiale (li portano a catechismo, li mandano a messa, spesso anche ai campi estivi): l’educazione non avviene attraverso le istruzioni che uno dà a un altro, ma attraverso gli occhi: noi siamo ciò che abbiamo visto. I piccoli, infatti, guardano con occhi stupiti non gli adulti ma ciò che gli adulti guardano. Adolescenza significa, alla lettera, “tempo per diventare adulto”, fissando ciò che gli adulti fissano.

Ebbene: che tipo di religiosità gli adulti, da circa trent’anni, manifestano ai più piccoli? Nella loro esistenza si è vistosamente assottigliato lo spazio riservato alla meditazione della parola di Dio, alla frequenza delle celebrazioni liturgiche, ai discorsi di fede, e soprattutto alla preghiera. Se i bambini non vedono i genitori e gli adulti significativi, con cui entrano in contatto, pregare - che è un modo semplice per “guardare” a Dio - difficilmente coltiveranno l’idea che la fede, di cui la preghiera è l’espressione più elementare, sia una cosa importante per la loro vita futura. Senza la preghiera dei genitori, è difficile trovare la fede dei figli.

A giusta ragione, quindi, i vescovi chiedono alla comunità ecclesiale una rinnovata attenzione nei confronti degli adulti. Adulti che credono e che pregano sono i primi e più efficaci testimoni di una fede che rende più umana e perciò più buona (cioè da amare) la vita.

Armando Matteo
Assistente Nazionale della FUCI
Via F. Marchetti Selvaggiani, 22
00165 Roma

 

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