n. 6
giugno 2011

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La
«rivolta del pane»
Inferno e paradiso
GIULIO ALBANESE
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L'attuale scenario mondiale
- soprattutto in riferimento ai Paesi di tradizione islamica –
rappresenta per il mondo occidentale una grande sfida.
Mai come oggi è necessario operare un sano
discernimento su quanto sta avvenendo nel cosiddetto "villaggio
globale". La "rivolta del pane", ad esempio, che sta interessando
trasversalmente il mondo arabo, è davvero sintomatica del malessere
delle masse impoverite nei confronti di certe oligarchie al potere da
decenni. Un fenomeno dalla forte valenza sociale e che potrebbe, prima o
poi, manifestarsi in molte altre regioni del Sud del mondo, considerate
dalla diplomazia occidentale - in modo ingenuo, è il caso di dirlo -
fuori pericolo. Il timore nasce dal pericoloso sommarsi, su scala
planetaria, dei costi oltremisura elevati delle derrate agricole con
effetti devastanti sui ceti meno abbienti. Si tratta di una crisi
economica generale e persistente, che priva milioni di persone, in
particolare i giovani, del proprio posto di lavoro.
A ciò si aggiunga il fatto che ogni variazione benché
minima di prezzi e tariffe, dal costo del carburante ai servizi della
telefonia mobile, intacca in maniera inesorabile i redditi, ormai
ridotti all’osso, della povera gente. Nel frattempo, molti governi sono
costretti a "raschiare il barile" per far fronte alla spesa pubblica,
falcidiati come sono dalla crisi finanziaria globale e dall’incertezza
di un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Islam e Cristianesimo: ineludibile confronto
Di fronte a questo scenario che qualche commentatore
ha definito "apocalittico", è davvero provvidenziale la lettura di
Luce del mondo, il libro-intervista di Benedetto XVI con il famoso
giornalista tedesco Seewald. Un testo estremamente interessante da cui
si evince il pensiero del pontefice sui grandi temi di attualità, tra i
quali spicca quello dell’incontro con l’Islam (Si veda più avanti la
Presentazione del volume alle pagine 86-89).
Se da una parte il Papa afferma la necessità di
difendere i valori religiosi, fede in primis, dall’altra
sottolinea l’urgenza di trovare una collocazione a questo impianto nella
modernità, evitando ogni forma di fondamentalismo. In sostanza, è
impossibile eludere il confronto tra Islam e Cristianesimo, due grandi
realtà religiose che si trovano a dover dialogare insieme per trovare
risposte esistenziali e al contempo razionali per l’uomo del nostro
tempo.
Nell’analisi dei rapporti con l’universo musulmano, a
differenza di molti politici ed intellettuali contemporanei, Benedetto
XVI non cede alla tentazione dello scontro di civiltà, evitando di
parlare di una possibile invasione islamica in Europa. In effetti, se è
vero che stiamo assistendo ad un massiccio movimento di profughi dal
Nord Africa verso l’Italia, è bene rammentare che si tratta, in genere,
di persone comuni, soprattutto studenti, impiegati e operai in cerca di
lavoro, vittime eccellenti di una globalizzazione senza regole. Gente
che sa leggere e scrivere, capace di navigare in Internet e dunque in
grado di sapersi confrontare con la modernità. Per carità, tra loro
potrebbero celarsi personaggi legati ai movimenti di matrice salafita,
fautori della jihad ("la guerra santa"), quelli che hanno dominato la
scena internazionale dopo il tragico 11 settembre del 2001, occupando
peraltro quasi tutto lo spazio mediatico.
Miopia dell’Occidente
Ma attenzione a fare di tutte le erbe un fascio.
Esiste infatti anche un altro Islam che intende fare propri i valori
della modernità, con l’intento d’integrarli con la propria cultura. E
poi, come recita un vecchio aforisma, "Non tutti i mali vengono per
nuocere". Paradosso per paradosso, la globalizzazione ha bucato la
cortina imposta dal fondamentalismo più rigoroso, innescando profondi
mutamenti che l’intelligentia occidentale non ha saputo ancora
adeguatamente interpretare. La vera sconfitta per l’estremismo islamico
viene proprio dal ribaltone, la cosiddetta "rivolta del pane" impressa
spontaneamente dalla società civile egiziana, libica, tunisina,
yemenita... Ciò che non è riuscito a George W. Bush con le "bombe
intelligenti" è venuto dalla Mezzaluna con l’affermazione del diritto di
libertà contro ogni forma di sopruso. Sia chiaro, nessuno ha la sfera di
cristallo per prevedere cosa accadrà domani, ma le grandi democrazie
occidentali, di fronte a quanto sta avvenendo in questo primo semestre
del 2011, sembrano essere decisamente impreparate. Basti pensare alle
reazioni emotive di vasti settori dell’opinione pubblica italiana,
proprio di fronte all’emergenza immigrazione. E cosa dire delle
iniziative unilaterali delle cancellerie europee, sempre in competizione
tra loro, nei confronti della sponda africana?
La chiusura mentale della Francia e della Germania,
tanto per citare alcuni esempi eclatanti, è a dir poco sconcertante. In
effetti, stiamo assistendo ad un preoccupante rigurgito dei nazionalismi
europei e alla tendenza a far prevalere gli interessi di parte sul "bene
comune" dei popoli. Col risultato che la politica estera europea è
sempre più deludente rispetto a quelle che dovrebbero essere le
prerogative comunitarie. D’altronde, mancando a Bruxelles una leadership
politica unitaria, capace di affrontare positivamente il nuovo corso
planetario, la globalizzazione viene ancora intesa dall’Europa in senso
univoco, contemplando per i Paesi membri solo i benefici, come nel caso
del petrolio libico o del cacao della Costa d’Avorio.
Quando invece si richiede il coraggio di misurarsi
con gli effetti dei processi di sfruttamento in terre straniere, con la
conseguente mobilità umana determinata da guerre, inedia e pandemie,
ecco che allora un po’ tutti fanno orecchie da mercante. Premesso che
nelle relazioni tra Nord e Sud del mondo non è possibile continuare a
passare da un’emergenza all’altra - riaffermando puntualmente la logica
dell’assistenzialismo - colpisce l’assenza di una visione lungimirante e
un programma di investimenti per il futuro sostenibile, da parte dei 27
Paesi membri dell’Unione Europea, rispetto alla sponda meridionale del
Mediterraneo e più in generale nei confronti del continente africano.
Umanizzare la globalizzazione
Atteggiamenti, questi, che sono sintomatici del
pensiero debole contemporaneo, dove prevale l’individualismo delle
singole nazioni europee. Occorrono piuttosto investimenti nei Paesi
emergenti per la crescita economica e la riduzione delle tensioni
sociali, la formazione delle nuove generazioni, le opportunità di lavoro
e quant’altro. Stiamo parlando di scelte che andrebbero subito rese
attuative per il benessere di tutti - europei e africani - abbinandole a
politiche commerciali coerenti con lo sviluppo. Avranno un costo, certo,
ma ogni forma di temporeggiamento avrà un prezzo ben superiore. Il
problema è che come al solito tra la "lettura formale" dei discorsi
altisonanti e quella "materiale" del portafoglio, si mostrano le
discrasie dell’animo umano bisognoso di redenzione.
Sarebbe davvero un peccato se, di fronte ai
rivolgimenti in costante progressione nelle periferie del mondo, fossero
le nostre paure a decidere il futuro dell’umanità. E mentre le Carte dei
diritti fondamentali e i valori fondanti dell’Europa rimangono nel
cassetto, i migranti sono vittime sacrificali. D’accordo, ci
mancherebbe!, bisogna sempre e comunque garantire il rispetto delle
regole in materia di immigrazione nello stato di diritto, ma non
dimentichiamoci che i popoli africani non hanno bisogno di cose molto
diverse da quelle di cui avevano necessità i Paesi dell’Est europeo dopo
il crollo del Muro di Berlino. Poveri di tutto, ma certo non di dignità
umana e del desiderio di affrancarsi rapidamente dalle dittature.
Qualcuno, anche da noi qui in Italia, vorrebbe che l’economia nel suo
complesso fosse sempre e comunque un cane sciolto, ma con quali
risultati?
Sia chiaro, dei problemi globali di cui abbiamo sin
qui disquisito e del cambiamento d´epoca che essi rivelano, non ci si
può liberare dando del "contestatore" a chiunque provi a enunciarli.
Coloro che la pensano in maniera così reazionaria, hanno già deciso di
gettare la spugna, di consegnarsi prigionieri a una lettura del fenomeno
"globalizzazione" che non sa prescindere da categorie diverse da quelle
imposte da certi sacerdoti del "dio denaro". Occorre, dunque, come
credenti, saper leggere e interpretare i fenomeni sociali determinati
dalla globalizzazione con intelligenza e amore della verità - proprio
come si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa -
senza preoccupazioni dettate da interessi di gruppo o personali", per un
agire corretto delle politiche economiche (cf Cds §320).
E proprio perché un governo planetario non
appartiene, almeno per ora, alle ipotesi realistiche, e comunque non può
essere concepito come la proiezione su scala mondiale delle sovranità di
questo o quel Paese, sarebbe auspicabile che il consesso delle Nazioni
si dotasse di strumenti in grado di umanizzare la globalizzazione.
Proviamo ad immaginare come sarebbe l’Organizzazione del commercio
mondiale (Wto) se fosse dotata di una struttura tripartita con i
rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori, in
grado di determinare congiuntamente le politiche ed i programmi
dell’organizzazione.
Proprio perché si sta giocando una partita difficile,
è indispensabile garantire l’esistenza di una molteplicità di soggetti
dotati di diritti, attraverso regole condivise, che possano
ridistribuire il potere nel villaggio globale tra chi lo esercita e chi
può controllarlo. Se il profitto è l´unica bussola, rischiamo davvero
grosso. Ecco perché la globalizzazione, per noi cristiani, è davvero
"terra di missione!"
Giulio Albanese
Missionario comboniano - Giornalista
padregiulioalbanese@libero.it
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