Avrei
perdonato? Potevo anche solo pensare di dover perdonare? Io che non
sono capace di scusare un atto di banale maleducazione nel traffico
dell’ora di punta, avrei potuto perdonare mia moglie, colei che ritenevo
responsabile di avere deliberatamente distrutto il nostro matrimonio? E
avrei potuto perdonarmi gli errori compiuti?
Un passo indietro
La
crisi del mio matrimonio era stata preceduta da un periodo difficile.
Avevo perso mio padre, proprio quando mi sembrava di riscoprirlo in un
nuovo rapporto adulto, e al quale proprio mia moglie era sempre stata
tanto affezionata, e mia madre sarebbe mancata poco dopo. Avevamo
vissuto preoccupazioni economiche, avevo perso il lavoro. Avevamo
“tirato la cinghia” per diversi mesi col solo impiego di insegnante
precaria di mia moglie. Erano tutti, però, o almeno così mi sembravano,
problemi esterni a noi e al nostro rapporto, che sentivo come solido e
sicuro, e mai più pensavo potesse essereanche solo sfiorato dagli eventi
che, invece, di lì a poco ci avrebbero travolto.
Di
ritorno da un viaggio all’estero, felice per quel nuovo incarico
lavorativo, mia moglie mi viene incontro in stazione col nostro bimbo in
braccio, che allora aveva due anni, e trovo conferma nei suoi occhi di
una strana impressione che avevo avuto in alcune precedenti telefonate.
La sento stranamente fredda e distaccata. Quella sera stessa, mi dice:
“Dobbiamo separarci”. Sono allibito, sconvolto, mi sembra un incubo: non
riesco a credere che sia tutto vero. Mi dispero, piango e mi umilio
davanti a lei. Inizia un calvario di giorni, settimane, mesi di
discussioni estenuanti. Vorrei capire, sapere... Non riconosco più mia
moglie, che improvvisamente mi sembra distante, lontana,
incomprensibile.
La
convinco ad incontrare un amico sacerdote a cui avevo esposto la mia
situazione, per un estremo tentativo di riconciliazione. Parlano a
lungo, per un tempo che mi sembra interminabile. Li vedo poi, come fosse
ora, scendere dalle scale. Io col cuore pieno di troppa speranza,
trattengo il respiro. L’amico prete mi lancia un’occhiata, che lì per lì
non riesco ad interpretare. Poi, mi prende un po’ in disparte e, a
bruciapelo, mi dice: “Guarda, Emanuele, che non c’è più niente da
fare!”. Dopo alcuni mesi, la scoperta della presenza di un’altra
persona. La separazione, ormai inevitabile, avviene poco dopo.
Nulla più come prima
In
tanta sofferenza, in tutto quel dolore, in tutte le reciproche asprezze
che seguirono, una delle espressioni che mi fece più male fu quando mia
moglie rispose ad una delle mie richieste di spiegazione, divenute
assillanti: “Senti, alla fine, io ho la mia vita!..”. Allora, era chiaro
che non c’era più la “nostra” vita, ma da quel momento in poi ci sarebbe
stata una “sua” e una “mia” vita.
Se
c’è un’esperienza di “deserto”, se c’è una “notte oscura”, per me sono
stati quei momenti. Momenti di buio e solitudine, dove niente può dare
sollievo, che nessuno può capire, e il dolore lascia senza fiato.
Sentirsi rifiutati, “buttati via”. Ritrovarsi senza un’identità, in una
situazione di destabilizzazione psico-fisica e di estraniamento. Non
riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola.
Qualcuno, a volte, credendo di farmi cosa gradita, mi parlava male di
lei o mi diceva “Poveretto!”. Non sapeva quanto mi faceva male.
Ma
allora, in quel profondo silenzio mi sono liberato da tante cose, da
tanti pesi inutili, da tante voci dentro e fuori di me, e ho sentito
quel “vento sottile”, quella presenza del Signore accanto a me, che,
quando tutto andava bene, non potevo, non volevo sentire. E
l’interrogativo della fede, fino ad allora mai del tutto risolto, mi è
parso come il bivio fondamentale:da una parte, solo un dolore insensato,
un male ricevuto e agìto, una strada di morte; dall’altra, attraverso il
dolore, una promessa di vita, di salvezza e, sí, perfino di gioia!
Ricordo che ci fu un periodo in cui la mattina prima di andare al
lavoro, “dovevo” passare in chiesa e fermarmi ai piedi del Crocifisso.
Quello stare lì, il più delle volte senza riuscire a dire e perfino a
pensare nulla, ha cambiato il mio cuore. In quel buio, in quei miei
“inferi”, ho sentito per la prima volta la presenza concreta e reale del
Signore. Questo ha cambiato a poco a poco la prospettiva interiore della
mia vita. La mia situazione continuava a restare tale e quale, tutti i
problemi restavano, nulla cambiava fuori di me, la mia sofferenza
restava; nello stesso tempo nulla era e sarebbe stato più come prima.
Scelta di fedeltà
E ho
iniziato a comprendere il significato di quelle parole che avevo
pronunciato il giorno del matrimonio: «Io accolgo te, come mia sposa.
Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e
nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti
i giorni della mia vita ».
Esserti fedele sempre... nella gioia e nel dolore.
Quei
giorni, che non avrei mai pensato potessero arrivare, erano il momento
del dolore - il massimo dolore - che si possa provare in amore, quello
delle spalle girate, del “non ti amo più”, eppure...
ti
amerò e ti onorerò tutti i giorni della mia vita.
Sentivo di non poter sopravvivere senza amore. Ma non dovevo andarlo a
cercare altrove: ciò che in apparenza mi era stato strappato, l’amore di
mia moglie, continuava a vivere nel nostro matrimonio, che proprio là
dove sembrava finire forse stava invece trovando la sua dimensione più
vera. Si ricomponevano i frammenti dell’amore umano in un’unità più
alta, un’unità da “nozze eterne”, proiettate nel cuore di Dio.
La
fedeltà e il perdono non mi sono più sembrate allora mete
irraggiungibili, troppo superiori alle mie forze, ma la conseguenza e
l’effetto del sentirmi amato prima da Dio, perdonato da Dio, colui che
restava fedele e presente nel nostro matrimonio, dando senso e gioia
alle mie giornate. Iniziavo a comprendere le parole del salmo: «Il suo
amore è per sempre» (Sal 135).
Tutto ciò, però, non toglieva ancora tutte le mie paure umane. Non sarei
impazzito? mi chiedevo. Può un uomo vivere così? Mai prima avevo preso
in considerazione un’eventualità anche lontanamente simile. Mi sentivo
fatto per la vita coniugale, di coppia, e non certo per restare solo. Ho
detto allora al Signore: «Pensaci tu!». E anche la stessa castità mi è
parsa, a quel punto, come ciò che poteva salvarmi dallo scivolare verso
il basso, dall’abbruttirmi. Prima l’ho subita. Poi, l’ho scelta.
Non
più una regola morale dura e incomprensibile, quasi disumana, ma ciò che
poteva aiutarmi a guardare mio figlio che stava crescendo con quello
sguardo sereno di cui lui aveva e ha bisogno. Giorno per giorno... Ho
chiesto al Signore di darmi la
grazia
della fedeltà, giorno per giorno.
La
grazia
del
perdono
La
mia scelta di fedeltà è stata legata a lungo alla speranza di un
ricongiungimento. Fino a quando mia moglie non mi ha detto che aspettava
un bambino. Non pensavo che avrei potuto ripiombare nel dolore acuto dei
primi momenti della separazione. Non sopportavo la vista del pancione di
mia moglie. Sì, mia moglie. Nella mia scelta di restarle fedele, non
avevo mai messo in dubbio che l’avrei sempre chiamata così, nonostante
tutto. Ma ora? Mi sentivo umiliato, di nuovo profondamente ferito.
Vidi
G. che avrà potuto avere una decina di giorni. Ci incontrammo in un
afoso pomeriggio d’estate ai giardinetti, tra le aiuole secche e le
panchine in mezzo all’asfalto. Mia moglie la teneva stretta a sé in un
marsupio porta neonato. Mi sembrava volesse come proteggerla da me,
guardandomi con un po’ di sospetto, studiando le mie reazioni. Non dissi
nulla, ma mi venne un sorriso, allungai il braccio e toccai appena il
piedino di G. Vidi il viso di mia moglie illuminarsi. L’avevo liberata
da un peso: il pensiero che non avrei mai potuto accettare la nuova
situazione, o che avrei potuto provare rancore verso la bimba, o che il
rapporto con nostro figlio potesse cambiare. In un istante, il piedino
di G. aveva sciolto tutto il gelo di quel lungo inverno dell’anima.
A
distanza di anni dalla nostra separazione, anche grazie al cammino con
fratelli e sorelle che hanno fatto la stessa scelta di fedeltà al
matrimonio-sacramento, ho sentito di dover chiedere perdono a mia
moglie. Perdono, io che credevo di non avere avuto responsabilità in ciò
che era accaduto, perdono per colpe che non avevo mai riconosciuto. Lí,
al solito bar, campo neutro dove eravamo soliti incontrarci per le
solite “comunicazioni di servizio”, tipiche dei genitori separati. Non
se lo aspettava, non erano i soliti discorsi sulla programmazione dei
weekend
alternati o l’andamento scolastico. Mi ascoltava in silenzio, gli occhi
un po’ lucidi.
Il
giorno dopo, mi ha inviato tre lunghi sms consecutivi. Parole che mi
porterò sempre nel cuore,che fanno parte della nostra storia d’amore,
che superano gli ostacoli del tempo e di una situazione che non può più
essere cambiata. E che non sono solo scritte nella memoria di silicio
del mio cellulare, ma – ne sono certo - sono già scritte in cielo.
Emanuele Scotti
Via del Campasso, 37/2
16151 Genova