n. 6
giugno 2011

 

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Conflitti e separazioni

I gesti del perdono

EMANUELE SCOTTI

 

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Avrei perdonato? Potevo anche solo pensare di dover perdonare?  Io che non sono capace di scusare un atto di banale maleducazione nel traffico dell’ora di punta, avrei potuto perdonare mia moglie, colei che ritenevo responsabile di avere deliberatamente distrutto il nostro matrimonio? E avrei potuto perdonarmi gli errori compiuti?

Un passo indietro

La crisi del mio matrimonio era stata preceduta da un periodo difficile. Avevo perso mio padre, proprio quando mi sembrava di riscoprirlo in un nuovo rapporto adulto, e al quale proprio mia moglie era sempre stata tanto affezionata, e mia madre sarebbe mancata poco dopo. Avevamo vissuto preoccupazioni economiche, avevo perso il lavoro. Avevamo “tirato la cinghia” per diversi mesi col solo impiego di insegnante precaria di mia moglie. Erano tutti, però, o almeno così mi sembravano, problemi esterni a noi e al nostro rapporto, che sentivo come solido e sicuro, e mai più pensavo potesse essereanche solo sfiorato dagli eventi che, invece, di lì a poco ci avrebbero travolto.

Di ritorno da un viaggio all’estero, felice per quel nuovo incarico lavorativo, mia moglie mi viene incontro in stazione col nostro bimbo in braccio, che allora aveva due anni, e trovo conferma nei suoi occhi di una strana impressione che avevo avuto in alcune precedenti telefonate. La sento stranamente fredda e distaccata. Quella sera stessa, mi dice: “Dobbiamo separarci”. Sono allibito, sconvolto, mi sembra un incubo: non riesco a credere che sia tutto vero. Mi dispero, piango e mi umilio davanti a lei. Inizia un calvario di giorni, settimane, mesi di discussioni estenuanti. Vorrei capire, sapere... Non riconosco più mia moglie, che improvvisamente mi sembra distante, lontana, incomprensibile.

La convinco ad incontrare un amico sacerdote a cui avevo esposto la mia situazione, per un estremo tentativo di riconciliazione. Parlano a lungo, per un tempo che mi sembra interminabile. Li vedo poi, come fosse ora, scendere dalle scale. Io col cuore pieno di troppa speranza, trattengo il respiro. L’amico prete mi lancia un’occhiata, che lì per lì non riesco ad interpretare. Poi, mi prende un po’ in disparte e, a bruciapelo, mi dice: “Guarda, Emanuele, che non c’è più niente da fare!”. Dopo alcuni mesi, la scoperta della presenza di un’altra persona. La separazione, ormai inevitabile, avviene poco dopo.

Nulla più come prima

In tanta sofferenza, in tutto quel dolore, in tutte le reciproche asprezze che seguirono, una delle espressioni che mi fece più male fu quando mia moglie rispose ad una delle mie richieste di spiegazione, divenute assillanti: “Senti, alla fine, io ho la mia vita!..”. Allora, era chiaro che non c’era più la “nostra” vita, ma da quel momento in poi ci sarebbe stata una “sua” e una “mia” vita.

Se c’è un’esperienza di “deserto”, se c’è una “notte oscura”, per me sono stati quei momenti. Momenti di buio e solitudine, dove niente può dare sollievo, che nessuno può capire, e il dolore lascia senza fiato. Sentirsi rifiutati, “buttati via”. Ritrovarsi senza un’identità, in una situazione di destabilizzazione psico-fisica e di estraniamento. Non riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola. Qualcuno, a volte, credendo di farmi cosa gradita, mi parlava male di lei o mi diceva “Poveretto!”. Non sapeva quanto mi faceva male.

Ma allora, in quel profondo silenzio mi sono liberato da tante cose, da tanti pesi inutili, da tante voci dentro e fuori di me, e ho sentito quel “vento sottile”, quella presenza del Signore accanto a me, che, quando tutto andava bene, non potevo, non volevo sentire. E l’interrogativo della fede, fino ad allora mai del tutto risolto, mi è parso come il bivio fondamentale:da una parte, solo un dolore insensato, un male ricevuto e agìto, una strada di morte; dall’altra, attraverso il dolore, una promessa di vita, di salvezza e, sí, perfino di gioia!

Ricordo che ci fu un periodo in cui la mattina prima di andare al lavoro, “dovevo” passare in chiesa e fermarmi ai piedi del Crocifisso. Quello stare lì, il più delle volte senza riuscire a dire e perfino a pensare nulla, ha cambiato il mio cuore. In quel buio, in quei miei “inferi”, ho sentito per la prima volta la presenza concreta e reale del Signore. Questo ha cambiato a poco a poco la prospettiva interiore della mia vita. La mia situazione continuava a restare tale e quale, tutti i problemi restavano, nulla cambiava fuori di me, la mia sofferenza restava; nello stesso tempo nulla era e sarebbe stato più come prima.

Scelta di fedeltà

E ho iniziato a comprendere il significato di quelle parole che avevo pronunciato il giorno del matrimonio: «Io accolgo te, come mia sposa. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita ». Esserti fedele sempre... nella gioia e nel dolore. Quei giorni, che non avrei mai pensato potessero arrivare, erano il momento del dolore - il massimo dolore - che si possa provare in amore, quello delle spalle girate, del “non ti amo più”, eppure... ti amerò e ti onorerò tutti i giorni della mia vita.

Sentivo di non poter sopravvivere senza amore. Ma non dovevo andarlo a cercare altrove: ciò che in apparenza mi era stato strappato, l’amore di mia moglie, continuava a vivere nel nostro matrimonio, che proprio là dove sembrava finire forse stava invece trovando la sua dimensione più vera. Si ricomponevano i frammenti dell’amore umano in un’unità più alta, un’unità da “nozze eterne”, proiettate nel cuore di Dio.

La fedeltà e il perdono non mi sono più sembrate allora mete irraggiungibili,  troppo superiori alle mie forze, ma la conseguenza e l’effetto del sentirmi amato prima da Dio, perdonato da Dio, colui che restava fedele e presente nel nostro matrimonio, dando senso e gioia alle mie giornate. Iniziavo a comprendere le parole del salmo: «Il suo amore è per sempre» (Sal 135).

Tutto ciò, però, non toglieva ancora tutte le mie paure umane. Non sarei impazzito? mi chiedevo. Può un uomo vivere così? Mai prima avevo preso in considerazione un’eventualità anche lontanamente simile. Mi sentivo fatto per la vita coniugale, di coppia, e non certo per restare solo. Ho detto allora al Signore: «Pensaci tu!». E anche la stessa castità mi è parsa, a quel punto, come ciò che poteva salvarmi dallo scivolare verso il basso, dall’abbruttirmi. Prima l’ho subita. Poi, l’ho scelta.

Non più una regola morale dura e incomprensibile, quasi disumana, ma ciò che poteva aiutarmi a guardare mio figlio che stava crescendo con quello sguardo sereno di cui lui aveva e ha bisogno. Giorno per giorno... Ho chiesto al Signore di darmi la grazia della fedeltà, giorno per giorno.

La grazia del perdono

La mia scelta di fedeltà è stata legata a lungo alla speranza di un ricongiungimento. Fino a quando mia moglie non mi ha detto che aspettava un bambino. Non pensavo che avrei potuto ripiombare nel dolore acuto dei primi momenti della separazione. Non sopportavo la vista del pancione di mia moglie. Sì, mia moglie. Nella mia scelta di restarle fedele, non avevo mai messo in dubbio che l’avrei sempre chiamata così, nonostante tutto. Ma ora? Mi sentivo umiliato, di nuovo profondamente ferito.

Vidi G. che avrà potuto avere una decina di giorni. Ci incontrammo in un afoso pomeriggio d’estate ai giardinetti, tra le aiuole secche e le panchine in mezzo all’asfalto. Mia moglie la teneva stretta a sé in un marsupio porta neonato. Mi sembrava volesse come proteggerla da me, guardandomi con un po’ di sospetto, studiando le mie reazioni. Non dissi nulla, ma mi venne un sorriso, allungai il braccio e toccai appena il piedino di G. Vidi il viso di mia moglie illuminarsi. L’avevo liberata da un peso: il pensiero che non avrei mai potuto accettare la nuova situazione, o che avrei potuto provare rancore verso la bimba, o che il rapporto con nostro figlio potesse cambiare. In un istante, il piedino di G. aveva sciolto tutto il gelo di quel lungo inverno dell’anima.

A distanza di anni dalla nostra separazione, anche grazie al cammino con fratelli e sorelle che hanno fatto la stessa scelta di fedeltà al matrimonio-sacramento, ho sentito di dover chiedere perdono a mia moglie. Perdono, io che credevo di non avere avuto responsabilità in ciò che era accaduto, perdono per colpe che non avevo mai riconosciuto. Lí, al solito bar, campo neutro dove eravamo soliti incontrarci per le solite “comunicazioni di servizio”, tipiche dei genitori separati. Non se lo aspettava, non erano i soliti discorsi sulla programmazione dei weekend alternati o l’andamento scolastico. Mi ascoltava in silenzio, gli occhi un po’ lucidi.

Il giorno dopo, mi ha inviato tre lunghi sms consecutivi. Parole che mi porterò sempre nel cuore,che fanno parte della nostra storia d’amore, che superano gli ostacoli del tempo e di una situazione che non può più essere cambiata. E che non sono solo scritte nella memoria di silicio del mio cellulare, ma – ne sono certo - sono già scritte in cielo.

Emanuele Scotti
Via del Campasso, 37/2
16151 Genova

  

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