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Ci
sono abitualmente due modi di orientarsi nel mistero della povertà
cristiana: uno mira al farsi poveri per Dio, incamminarsi nella povertà
per seguire il Cristo. L’altro è incamminarsi in una scelta di povertà
come Cristo. Normalmente, le religiose si appropriano il primo
approccio, in cui la povertà rivolta a Dio è intesa come dedizione a
Lui. Ma da questa povertà talvolta Dio sfugge: se l’uomo non lo
raggiunge attraverso il cammino della relazione con gli altri si
trasforma in una immagine falsa, accomodante. La concezione della povertà
staccata dalla relazione fra persone si raggela e si deforma
necessariamente. Non riesce a evitare il pericolo di trasformarsi in
comodità. La povertà basata su permessi, sul conformismo comunitario,
non arriverà mai al confronto provocatorio con il sistema di vita che
mantiene povero il povero, che parla di giustizia e pratica
l’oppressione.
Il problema della povertà
nella vita religiosa
La maggior parte delle
comunità religiose si ispira a questa visione, che a mio avviso non
porta da nessuna parte perché è un’astrazione. Spesso una tale
povertà religiosa è la comodità garantita alla persona che, per
dedicarsi completamente alle cose divine, deve essere liberata dalla
preoccupazione dello scambio dei beni e dalle complicazioni del vivere.
Si cessa di riflettere su come cambiare il mondo. Si pensa alla povertà
unicamente come distacco, come rinuncia e sfugge la dimensione per il
regno.
La povertà talvolta ha
finito per essere deformante anziché liberante. Ha generato poveri che
vivono nella sazietà. Così che, di fronte alle gigantesche proporzioni
della povertà nel mondo qualcuno ha iniziato a domandarsi se è onesto
fare il voto di povertà e dire che i religiosi sono poveri. O se invece
sia più giusto dire che si fa voto di classe media1.
Si ha così la crisi della povertà: crisi di rilevanza e di identità.
Pretendere di essere e di presentarsi come poveri davanti al vastissimo
mondo della miseria dell’umanità, per i religiosi, oggi, diventa
impresa difficile. Eppure la povertà resta un paradigma importante
della vita religiosa, del suo futuro. La povertà è decisiva per la
testimonianza della presenza di Dio, della sua fedeltà verso il mondo,
del suo amore quale forza che trasforma il mondo e la storia. La sequela
cristiana si orienta naturalmente e trova la sua norma in Gesù Povero,
Crocifisso, nel suo stretto rapporto con il Padre e nel dono di se
stesso per tutti, soprattutto per i poveri, nel servizio e nella morte,
affinché tutti abbiano la vita, la dignità, e un futuro2.
Il sapore della povertà
è Cristo
La seconda via, invece,
mira a farsi poveri come Cristo. Si tratta della povertà che ha il
sapore di Cristo perché Cristo ha il sapore della povertà. Si fa
riferimento a Cristo e alla sua relazione con i poveri. Un progetto
concreto perché entra in una storia umana. E qual è il progetto?
Esaltare gli umili (Mt 23,12; Lc 1,48; 18,9-14), esigere che siano
accolti gli esclusi (Mt 9,11; Mc 7,28), pretendere che i fratelli aprano
le porte delle loro dimore a coloro che le hanno chiuse in faccia perché
diversi (Mc 7,28; Lc 8,4-7). La cosa più importante nella testimonianza
della povertà è impegnare tutto ciò che si è e si ha al servizio dei
più bisognosi per trasformare il grido accusatore dell’ingiustizia in
canto di lode e di benedizione: «Beati i poveri: ad essi appartiene il
regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20). E’ un invito ad ascoltare il
clamore dei poveri come una chiamata a una conversione di mentalità e
di comportamenti in ordine ai beni di questa terra (Mc 12,44; Lc 21,4);
a non avere compromessi con l’ingiustizia e a lavorare per la
giustizia, a condividere i beni dentro e fuori la comunità (Mt 19,21;
Mc 10,21; Lc 12,33-34; At 2,32-44) a testimoniare il senso umano del
lavoro, «svolto in libertà di spirito e restituito alla sua natura di
mezzo di sostentamento e di servizio»3.
Parlando di povertà
occorre parlare dei poveri i quali meritano un’attenzione
preferenziale (Gc 2,5), qualunque sia la situazione morale o personale
in cui si trovano (quella donna ha l’amante, quell’operaio si
ubriaca, tutti i sabati quel ragazzo si buca). Fatti a immagine e
somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è abbruttita e
vilipesa; per questo Dio prende la difesa dei poveri e li ama (Gb 36,15;
Sal 107,41; 109,31; 113,7; 132,15; 140, 3; Is 25,4; 57,14-21; Ger 20,13;
Mi 4,7; 2Cor 9,9). E’ per questo che i poveri sono i primi destinatari
della missione (Mt 11,5; Lc 4,18; 7,22; Is 61,1-2). La povertà nasce
dall’interesse per il «Vieni e seguimi» di Gesù, (Mt 4,19; 9,9;
19,21; Mc 1,17; 10,21; Lc 5,10; 10,28; 12,33; 18,22); dal sentirsi
chiamati in causa dall’ammonimento del Vangelo: «Non potete servire a
due padroni» e «o servirete l’uno o servirete l’altro» (Mt 6,24;
Lc 16,13). Non si può stare da una parte e dall’altra. Mi sovviene
un’affermazione del padre De Foucauld. Meditando il mistero della
nascita di Gesù, dice:
«Se c’è qualcuno
che può contemplarti nella grotta continuando ad essere ricco io non lo
so, io non posso».
L’espressione ripresa
da A. Paoli è stata applicata alla vita religiosa nel modo seguente:
«Se
avete trovato una giustificazione per seguire il Vangelo mantenendo uno
standard di vita comoda, arrangiatevi, io non posso»4.
Il Vangelo trasmette
l’azione di Gesù, la sua iniziativa che si incarna nella storia:
evidenzia la necessità di concorrere attivamente a trasformare la
storia in storia del regno ossia in storia salvifica. La prospettiva
dalla quale guardare non può essere solo il desiderio astratto di
imitare Gesù e di volergli appartenere interamente, ma quello di
dedicarsi con tutto il proprio essere, di portare avanti la sua missione
che è quella di trasformare la storia dell’umanità in storia di
salvezza. La storia crea disuguaglianze, disparità, competizioni,
dipendenze, ingiustizie; l’azione salvifica deve trasformare tutto
questo ed essere generatrice di uguaglianza, di fraternità, di
comunione. Se non si esplicita il desiderio di Cristo, si rischia di
vanificare il Vangelo. Si tratta di seguire Gesù che toccava coloro che
erano immondi (Mt 8,33; 9,29s; 20,34; Mc 1,41-42; 7,33; 8,22; Lc 5,13;
7,14), frequentava i peccatori (Lc 5,29; 19,7; Mt 9,11; Mc 2,16), dava
il cibo che Lui non aveva alle folle affamate (Lc 13; 31,11; Mt 14,16;
15,33; Mc 6,37; Gv 6,5), difendeva i poveri, smascherava la loro vita
deplorevole.
Rispondere alla povertà
del mondo
Chi ascolta l’appello
di Gesù che invita a seguirlo risponde lasciando tutto perché sia Gesù
a prendere possesso della sua vita e attraverso di essa arrivare agli
altri. Le implicazioni del seguire Gesù abbandonando ogni cosa sono
molto serie sia dal punto di vista personale che sociale. Esse hanno una
forte connotazione missionaria che spesso viene dimenticata.
L’austerità e la sobrietà di vita che marcava il modo tradizionale
di vivere la povertà evangelica non è più sufficiente e non risponde
interamente alla vita dei discepoli che vogliono seguire Gesù. C’è
stato un cambiamento di prospettiva nella riflessione sui voti e in modo
speciale sul voto di povertà, sul suo senso, sulla portata e sulla sua
testimonianza nel contesto della povertà mondiale. La povertà del
discepolo è una risposta alla povertà del mondo.
La dimensione sociale
della vita religiosa esige un amore a dimensione sociale. La missione
vive di un amore concreto ed efficace per i poveri (Lc 4,18; 7,2; Mt
11,5; cf Is 61,1). Il povero non è unicamente la persona isolata, ma le
grandi masse, le folle verso le quali come Gesù occorre sentire
compassione (Mt 9,36; 14,14; 15,30-32; Mc 6,34; 8,2; Lc 9,11; Gv 6,5). I
mezzi dell’amore individuale sono limitati, insufficienti e corrono il
rischio di lasciare le cose come stanno. Diventa necessario superare una
visione intimistica e individualista dell’amore del fratello che è
nel bisogno. L’amore del prossimo ha una dimensione storica e domanda
nuove mediazioni che diano all’amore del prossimo la necessaria
efficacia:
«Esigenze quali la
non violenza cristiana, la protezione dell’ambiente, la responsabile
pianificazione della famiglia, la prevenzione sanitaria, la
responsabilità politica e così via possono avere per lo meno tanto
rilievo quanto i singoli precetti dell’amore al prossimo che una volta
venivano considerati e predicati come il contenuto del comandamento
dell’amore del prossimo»5.
Dio infatti non è
insensibile alla sofferenza dei derelitti, dei miseri, dei sofferenti (Es
3,8; Dt 32,36; Gdc 10,16; 2Re 20,5; 2Mac 7,6; Sal 86,15). L’impegno di
povertà nella vita del discepolo si dà perché egli sia disponibile a
Cristo e lavori come Lui e con Lui per una umanità più giusta e
fraterna. La povertà non è una chiamata a gettare tutto dalla finestra
o a vivere senza niente. La legge dell’incarnazione ci fa partecipi e
amanti di questo mondo come Dio ama il mondo e ci rende soggetti alla
temporalità e all’economia. La povertà - perciò - diventa un serio
appello a essere responsabili di quel che guadagniamo e di quello che
spendiamo, di come lo guadagniamo e soprattutto in che cosa lo
investiamo, con quali motivazioni e con quali fini (Lc 14,13). Essa
rimanda all’agire di Dio che ha inviato il Figlio Gesù.
Egli ammaestra sul
servizio ai poveri con l’impoverirsi, arricchendo del suo donarsi
all’umanità. Nella sua povertà, nel suo darsi via per amore offre un
segno tangibile della povertà di Dio. «Si è fatto povero per
arricchirci della sua povertà» (2Cor 8,9; 1Cor 11,17-22); Si è fatto
conviviale dei pubblicani e dei peccatori (cf Mt 11,19; 9,11; Mc 2,15;
Lc 15,2). A questa convivialità sono invitati tutti i discepoli6.
Tutti sono sollecitati a maturare l’atteggiamento partecipativo
secondo la logica di Cristo. Resta per tutti la responsabilità a
impoverire se stessi nella condivisione dei beni per aprire il cuore
agli altri. Chi conserva la vita la perde, chi la dona la guadagna. La
missione passa attraverso queste reti di solidarietà7.
I volti
Essere al seguito di
Gesù, impegna a condividere la sua avventura con i poveri e per i
poveri (2Cor 8,9). Una sfida a farsi poveri (Mt 19,21) e ad amare e
servire i fratelli poveri. L’incontro con essi non può avvenire che
nella stessa prospettiva di Gesù (Gc 2,5; Lc 2,38), vale a dire nella
prospettiva del suo annuncio di salvezza e di liberazione (Mt 19,27; Mc
10,28; Lc 18,28-29). E’ entrare nella sua storia di amore e di
misericordia, di liberazione e di compassione che promuove la dignità
delle persone e non restare neutrali di fronte all’ingiustizia del
mondo. La parola povertà si riempie di contenuto a partire
dall’incontro con i poveri, gli uomini e le donne che sono in
difficoltà di fronte alla vita. La povertà è un male, un disordine,
se impedisce alle persone di soddisfare i propri bisogni umani materiali
e spirituali.
«La
povertà è fame. La povertà è vivere senza un tetto. La povertà è
essere ammalati e non riuscire a farsi visitare da un medico. La povertà
è non potere andare a scuola e non sapere leggere. La povertà è non
avere un lavoro. La povertà è timore del futuro, vivere giorno per
giorno. La povertà è perdere un figlio per una malattia causata
dall’inquinamento dell’acqua. La povertà è non avere potere e non
essere rappresentati adeguatamente. La povertà è mancanza di libertà»8.
La povertà assume
volti diversi, che cambiano nei luoghi e nei tempi: sono i senza terra,
gli indebitati, le vittime del delirio di onnipotenza del nostro mondo
che sfida il Vangelo.
«Si
muore a 30 anni nelle miniere boliviane, a 3 di diarrea nell’ospedale
di Kinshasa (Congo). Si muore di morbillo a 4 anni… a 5 di
tubercolosi… a …
Si
muore a 15 anni per overdose nelle grandi metropoli del Nord del mondo»9.
La sfida del
cambiamento per una più giusta distribuzione delle risorse richiede
azioni da parte di tutti, richiede di cambiare il mondo per far sì che
molte più persone possano avere un buon livello di nutrizione, un
alloggio adeguato, accesso all’educazione e alla salute, protezione
dalla violenza e voce in ciò che succede nella loro comunità. Non
abbiamo che da interpellarci sulle Beatitudini. Già Gandhi diceva: «Voi
avete tutto nelle Beatitudini». Forse dobbiamo liberarle dalla sola
dimensione personale in cui le abbiamo vissute dando loro un respiro
planetario: Beati i poveri del mondo. Gesù muove i suoi passi sulle
strade dell’uomo quale Messia dei poveri, Colui che si cura dei loro
mali e soccorre Israele (Lc 1,54-55; Mt 4,23-24) e il suo Regno è Regno
di giustizia, ovvero Regno dove gli uomini vengono resi giusti
dall’iniziativa gratuita e compassionevole di Dio.
Occorre prendere parte
al sogno universale di Dio per l’uomo. Uscendo dallo spirito di
autoreferenzialità secondo cui ci si sente a posto e legittimati nel
pensare solo alle cose proprie. Per questo la piccineria prende il posto
dell’ideale, occupa gli spazi della mente e del cuore rendendo
irrilevanti e insignificanti i desideri di Dio sull’umanità. Il sogno
di Dio si allarga alle dimensioni della storia, dell’umanità e non
cessa di raccogliere nell’otre suo le lacrime dei miseri (Sal 56,9). I
suoi orecchi ascoltano il grido del povero (Pr 21,13; Gb 34,28; Sal
119,169) e il clamore delle angosce del mondo (Ger 11,11s): Beati i
poveri del mondo!
Irrinunciabile
immergersi nei popoli e nelle loro culture
Per rispondere alle
varie forme di povertà nel mondo di oggi occorre andare a, immergersi
in popoli e culture, storie e religioni differenti, esplorare l’ignoto
e allo stesso tempo rimettere in discussione se stessi. La nostra
preparazione al pluralismo, alla diversità, alla varietà tuttavia è
ancora insufficiente. Tendiamo a riproporre noi stessi sempre allo
stesso modo, e ci rendiamo conto che questo non è giusto. Le culture
sono in movimento: nuove culture si delineano e vanno accolte, così
come è necessario avere coscienza delle loro radici e tradizioni;
altrimenti si presenta un Vangelo incomprensibile.
In questi ultimi
decenni sono accaduti numerosi cambiamenti che mettono in revisione la
missione; altri stanno avvenendo. Nelle Nazioni sviluppate dal
potenziamento enorme della vita umana, con i progressi esplosivi nel
campo scientifico e tecnologico, stiamo assistendo al fenomeno della
disintegrazione sociale e spirituale caratterizzato spesso da una
incessante ricerca di novità, una mentalità consumistica a tutti i
livelli, sia rispetto ai beni materiali che alle nuove esperienze
spirituali. Nei Paesi di missione sorgono nuove identità
politico-sociali delle nazioni; particolarismi culturali e
rivendicazioni etniche; conflitti regionali accentuati dalla fine dei
due grandi blocchi contrapposti comunista e liberale; l’impatto dei
mass-media sulle culture e sulla vita quotidiana della gente; rottura
delle tradizioni razziali e culturali; rinascita di molte religioni che
a volte diventano strumento di potere politico ed economico.
La lista potrebbe
continuare a lungo. Basta dire dell’Asia, dove vive la maggior parte
della popolazione e meno del 3% dei cattolici del mondo. Ma ci sono
anche le aree pressoché sconosciute, dell’ex Unione Sovietica,
nazioni relativamente piccole nate dalla frantumazione di blocchi più
grandi (la ex Russia, la ex Jugoslavia, e molti paesi africani) con
situazioni del tutto diverse e nuove, problemi da affrontare in modo
diverso. Si pensi alla assenza di religiosità rispetto alla profonda e
diffusa religiosità dell’Asia. Si pensi al problema delicato dei
rapporti con l’Ortodossia. Enorme e complesso, dunque, il mondo cui la
missione si rivolge. In essa la povertà prende molte dimensioni che si
combinano in modo tale da creare e mantenere uno stato di impotenza, in
cui manca la libertà di azione e di scelta, in cui si ha la sensazione
di essere senza voce e si vive di paura per il futuro.
La insopprimibile
dimensione contemplativa della povertà
Allora la chiesa che è
nella storia, non come spettatrice dall’esterno, deve fare i conti con
la storia e quindi con la sua infinita varietà di situazioni. Deve
misurarsi con la continua evoluzione del mondo e sua. Anche la Chiesa
che cammina con i popoli e si immerge nelle culture sta ponendo nuovi
interrogativi alla missione. Oggi, il passaggio dal regime di statuto di
missione alla responsabilità diretta delle chiese locali per la missio
ad gentes ha imposto la ricerca di modalità nuove di presenza e di
lavoro.
La vita religiosa ha
parte attiva nel ridefinire il rapporto con le chiese locali e nella
testimonianza evangelica della povertà. Deve trovarsi a proprio agio
nell’imitare il Gesù Incarnato piuttosto che il Cristo Esaltato,
prendendosi l’incarico che gli è proprio di vivere l’Incarnazione,
ossia la vicinanza di Dio ai poveri. La sua competenza nell’essere
esperta di Dio va espressa anche nello stare vicina all’uomo, alle sue
preoccupazioni, alla sua felicità. Soltanto se parla in modo credibile
dell’uomo allora parlerà in modo convincente di Dio. In questa
direzione la vita religiosa trova la possibilità di ritrovare la sua
ispirazione evangelica e la sua insopprimibile connotazione
contemplativa. Occorre riprendere lo sguardo contemplativo sul mondo e
sull’uomo. Non lo sguardo superficiale che vaga nell’attualità, che
si sofferma sulla facciata delle cose, ma quello che si sofferma a
guardare, ad ascoltare, a tastare e sentire, quello che lascia che le
cose gli si avvicinino e comincino a parlargli.
Chi guarda a lungo Dio
si sente spinto a vivere la dinamica della sua divina nostalgia per
l’uomo. Colui che fissa lo sguardo in Dio è inviato da Lui verso
l’uomo, nella Creazione, nella Incarnazione. Se si guarda Dio Egli ci
porta con sé verso il mondo. Ci educa a un incessante descendit. Il
descendit - dunque - ha rapporto diretto con la povertà dei religiosi,
ossia la povertà scelta liberamente. Essa è un cammino verso il basso,
è la scoperta della grandezza del piccolo, del semplice; un cammino
verso le radici e si avvicina a coloro il cui destino ineluttabile è la
povertà.
La povertà dei
religiosi e la vicinanza ai poveri sono due facce della stessa realtà10.
Perciò la povertà interroga la missione e il modo di capirla. La
proposta che scaturisce dall’amore per gli ultimi allude sempre
all’evento dell’Incarnazione che si congiunge all’offerta della
Croce includendo tutto il mistero di Gesù. Per i nostri tempi occorre
una ricompressone e riformulazione della povertà in prospettiva della
missione: passare dal dono delle cose al dono di se stessi: «date voi
stessi da mangiare». Si tratta di risignificare la povertà con la
carità fino a quando la pasqua di Cristo sarà la pasqua del mondo, sarà
la pienezza della missione. Il dinamismo della pasqua percorre tutto il
mistero della povertà per il regno dei Cieli e norma la missione in
tutte le sue articolazioni. Oggi più che mai sorge il bisogno di
coniugare povertà e missione, missione e storia, storia e salvezza.
E’ un tumultuare di interrogativi, di questioni aperte e bisogna
fuggire dalla tentazione di pretendere semplificazioni impossibili o
distorcenti. La complessità sta nei fatti, nella realtà. Ma accogliere
la complessità non significa vivere nella confusione, bensì accogliere
la situazione di fluidità e non pretendere spiegazioni teologiche
definitive che rispondano a tutte le domande. Lasciare spazi incerti o
discutibili è inevitabile.
«La
chiesa è un popolo che cammina, un organismo che opera con la varietà
delle sue membra, non un esercito uniforme e inquadrato che conquista11… Bisogna quindi accogliere la complessità di metodi, di
approcci, di riflessioni teologiche e di carismi perché la chiesa possa
meglio stare in mezzo agli uomini e svolgere per loro e con loro la sua
missione»12.
Chi non percepisce la
povertà
non
è in grado di stare al fianco dei poveri
I discepoli del
Signore, abbandonando ogni isolamento culturale, superando il
ripiegamento su se stessi, devono cercare di recuperare una rilevanza, a
livello di prassi, nella sfera di una povertà vissuta per il mondo, per
gli altri, una solidarietà con tutte le persone che sono minacciate e
tradite nel loro essere umano. I discepoli del Signore si devono
collocare a fianco dei poveri in una società e in un mondo in cui la
povertà è in crescita. Chi non percepisce la povertà non è in grado
di stare al fianco dei poveri. Occorre riconoscere i vari volti della
povertà dentro l’economia di mercato che non ha riguardi per nessuno
e che la globalizzazione rinforza, spingendo ai margini e producendo
nuovi poveri. Una vita religiosa incapace di trasformarsi, per essere
nella sfera di questi contesti mutati, a servizio della dignità umana,
si fossilizza e si spegne. Diventa una setta insignificante, situata ai
margini di una società in rapida trasformazione.
Nel presente contesto
della globalizzazione neo-liberale che promuove il consumismo e un
eccessivo accumulo di beni, i discepoli del Signore Gesù sono
sollecitati a vivere la spiritualità della sufficienza, la capacità a
vivere col minimo e a dire basta. Vivere con il minimo assicurerà
qualcosa per i più poveri. Occorre allora tenersi informati su ciò che
accade nel mondo; permettere ai poveri e agli oppressi di lavorare per
la propria liberazione; promuovere la giustizia ecologica, ossia i
giusti rapporti con tutta la creazione assicurando in tal modo le
risorse della terra alle future generazioni; impegnarsi a cambiare
sistemi e strutture per l’uguaglianza e la liberazione
dall’oppressione; fare una scelta radicale a favore di una vita
centrata su Cristo e sui suoi valori piuttosto che sul denaro, sui beni
e sul loro valore relativo.
La lezione di un Dio
povero e crocefisso
Per il mondo di oggi la
povertà dei religiosi è chiamata a un nuovo modo di relazionarsi con
la gente e con le proprietà per trattare tutti con equità. Dove esiste
la povertà interiore, la semplicità, l’umiltà, là esiste la povertà
materiale. Vivere poveramente significa vivere e agire con giustizia;
avere relazioni con tutti senza esclusione e, soprattutto, con i poveri
e gli emarginati come faceva Gesù13. Il Vangelo di Matteo 25 insegna
che si trova Dio nelle immagini crocifisse di Gesù: gli affamati, gli
assetati, i senzatetto, gli ignudi, i malati, i carcerati.
«Se
un tale vuole diventare cristiano, non mandarlo nelle chiese ma negli
slums. E’ qui che troverà Cristo»14.
Al fine di tradurre
concretamente la sequela di Cristo in modo tale che susciti e rafforzi
la fede e realizzi il progetto di amore del Padre, occorre imboccare la
via critica e politica. Ossia quella che realizza la più antica idea di
una chiesa per il mondo, una chiesa per gli altri. Soltanto alienandosi
nell’altro, l’uomo giunge a se stesso. «Chi vuol salvare la propria
vita la perderà, ma colui che dà la propria vita la salverà» (Mt
16,25; Mc 8,35; Lc 17,33). Ma l’essere per gli altri perde di
significato quando non si è altri dagli altri, ma soltanto loro
compagni di viaggio. Soltanto chi trova il coraggio di essere diverso
dagli altri può, in definitiva, essere per gli altri. Si tratta di
prendere sulle proprie spalle la croce e battere la stessa strada di
Colui che ha rinunciato alla propria identità divina e ha trovato la
propria identità sulla croce (Fil 2). La vera esistenza cristiana può
stare solo sotto la croce. Colui che segue Gesù senza riserve si trova
a porre in gioco la propria vita quando ciò serva di aiuto al prossimo
bisognoso.
L’itinerario
evangelico della vita religiosa inizia nella consegna totale allo
Spirito del Signore, inizia cioè da quello spirito di povertà (cf Lc
1,48) che non lascia più nulla nel discepolo se non la semplicità
dello sguardo fisso in Dio. L’amore che nasce e che si dona e che non
ha luogo, né tempo trasporta il discepolo fino a immergerlo
nell’abisso infinito di Dio per farlo amante del Crocifisso povero,
con cui desidera identificarsi.
La povertà cristiana,
trova il proprio criterio intrinseco nel Dio povero e crocifisso: la
Croce prova tutto ciò che merita di essere qualificato per cristiano.
Si potrebbe aggiungere che soltanto la croce e null’altro, lo prova.
Ora questa mistica della croce tipica dei poveri e degli oppressi, in
effetti è espressione della miseria e implicitamente anche protesta
contro la miseria. Ma nel suo nucleo essa è espressione della dignità
umana e stima per l’uomo derivate dall’esperienza del rispetto che
Dio usa nei suoi confronti. Dunque si segue Gesù quando tutto viene
tradotto nella fede in lui e si assume come propria la sua missione fino
a viverla come personale responsabilità. La povertà evangelica diventa
in tal modo ricerca prospettica, linea di tensione, meta verso cui
tendere perché è realtà da costruire nella fedeltà quotidiana, nei
rischi, nell’inventiva, nella vittoria sulle paure, sulle diffidenze,
sulle remore.
«Viviamo in un’epoca
sicuramente senza precedenti e nella situazione presente l’universalità,
che un tempo poteva essere implicita, deve essere totalmente esplicita.
Essa deve impregnare il linguaggio e il modo di essere. Oggi non è
sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento
presente esige, una santità nuova anch’essa senza precedenti»...
Questa matura «nella solidarietà incondizionata con gli ultimi,
vissuta nella propria carne»15.
Scrive, così, S. Weil
che ne ha dato testimonianza caricandosi delle croci e delle povertà
dell’umanità, espropriandosi, come Gesù, della sua condizione di
privilegio per servire i poveri da povera.
Beati voi che avete
un’anima da povero
La via della povertà o
la si vive o non è. La povertà cristiana ha come punto di riferimento
assoluto Cristo. O è relazione con Gesù di Nazaret e allora è una via
di umanizzazione, di libertà, di maturità o non è quella di Cristo:
non è quella evangelica. Non c’è altra alternativa che quella di far
crescere la coscienza di ciò che significa e implica voler seguire Gesù
povero e non tanto i controlli e la dipendenza. Innanzi tutto questo
significa frequentare Gesù.
Per crescere nella
povertà occorre pregare molto, è fondamentale la contemplazione e
mettersi alla scuola dei poveri... Perché la povertà non è una virtù
tra le altre da acquistare, ma è seguire Gesù povero, confrontarsi
costantemente con il cuore, la vita, la parola di Gesù di Nazaret16;
obbedire come Lui al sogno del Padre per tutta l’umanità. Allora sì,
si potrà dire Beati voi che avete un’anima da povero perché
nell’imitazione di Cristo povero, si confessa, si celebra il sogno di
Dio, ossia il Regno di Dio come tesoro assoluto della vita, come perla
raffinata di grande valore per la quale vale la pena di rinunciare a
tutti i beni per comperarla (cf Mt 13,44-46).
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