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“Le mie notti finirono
quel mattino”. Così Dostoevskij inizia l’ultimo capitolo de Le notti
bianche. Sembra quasi una contraddizione. Grammaticamente potrebbe anche essere.
Il mattino non è forse la conclusione di una notte sola che a sua volta ebbe
una giornata sola prima di essere tale? Non ci fermiamo qui ad analizzare il
pensiero o, meglio, il racconto del grande romanziere, che si impersona nel
sognatore che viaggiando di notte, in un inizio d’estate, quando ormai gli
abitanti si sono rifugiati nelle loro dacie, per le vie di San Pietroburgo sogna
l’incontro con una splendida ragazza che solo apparirà sul finire della
quarta notte, esattamente “quel mattino”, ma già in attesa di un altro.
Né vogliamo analizzare la
significatività della notte e la simbologia del mattino. Sulla “notte”
abbiamo pubblicato un opuscolo a cui forse è bene riandare e che forse è bene
rileggere per assumerne i concetti e trasformali in vita. La notte ha la sua
pregnanza; può avere la sua carica di poesia e può suscitare – ed
effettivamente suscita – dubbi e paure. Quello che è certo è che la notte è
un lasso di tempo stretto tra due altri eventi: il tramonto e l’alba, la sera
e la mattina. E viene da pensare al quasi litigio tra il gufo e il gallo del
film Momo. Ognuno dei due vanta per sé
un primato: il gufo vuole avere la primazia valoriale della notte e il gallo
vanta per sé la “missione” dell’annuncio mattutino, dell’arrivo di una
nuova luce, di un giorno nuovo.
La notte è peregrina come
lo stesso giorno. E’ precaria; è fugace, transitoria, passa; non è
definitiva. Del resto ormai è conosciutissimo l’interrogativo biblico:
“Sentinella, quanto resta della notte?”. Un interrogativo molto presente in
titoli e sottotitoli di giornate di studio, di incontri, di convegni, di
articoli su riviste o in semplici citazioni.
Nel Vangelo secondo Luca è
scritto che il venerdì di Parasceve si fece buio su tutta la terra
“dall’ora sesta sino alla nona”, perché si era eclissato il sole. Anche
l’oscurità causata dall’eclissi è transitoria, fugace, peregrina. Lo
stesso Gesù è inghiottito dal buio della notte, dalla tenebra della morte, ma
per essere restituito alla luce, alla pienezza della vita. E un mattino risorge
e appare alle donne, alla Maddalena e via via ai discepoli… E nel libro degli Atti
è scritto che Pietro con voce tonante richiama i Giudei e gli abitanti di
Gerusalemme a porre attenzione perché gli apostoli che parlavano lingue capite
da tutti non erano ubriachi; infatti, affermava: “sono soltanto le nove del
mattino”.
Quanto è atteso il mattino
da un malato! All’approssimarsi di una luce nuova, anche se ancora tenue, ma
che annuncia esattamente il mattino, già si veste di speranza nuova.
Ecco: il mattino, segno di
vita nuova; a volte speranza di una giornata diversa. Partenza per qualcosa di
nuovo, di diverso.
La vita consacrata ha
bisogno di un nuovo mattino, di una speranza nuova, di una fiducia nuova, di un
nuovo scatto, quasi di un nuovo sogno. Un nuovo sogno: di radicalità, di
essenzialità, di evangelicità.
I relatori dell’ultima
Assemblea USMI, della quale riporteremo gli Atti
nel n.7-8 della nostra rivista, hanno con calore insistito su questo aspetto.
E’ vivere quella novità di vita, concretamente l’uomo nuovo annunciato da
Paolo. Nuovo perché rinato nel
battesimo, e confermato con la
consacrazione. L’uomo vecchio, la notte, la tenebra, il buio non esistono più.
Egli risuscitò il mattino di Pasqua. Ma perché ci sia la vita nuova, perché
ci sia la
risurrezione, la
ri-nascita, è necessario essere stati disponibili alla morte. Linguaggio
scabroso, forse, ma necessario. Le cose vecchie, gli egoismi, gli antagonismi,
il supercriticismo, la privacy esacerbata, la ricerca di sé, sono scomparse,
sono state superate. Esalano il loro profumo le cose nuove; l’amore, la
condivisione dei beni, la comunione, la partecipazione, lo spirito di servizio,
la solidarietà brillano di una luce nuova: la luce del Risorto.
E’ vivere in coerenza con
la nuova nascita, ossia l’essere rinati dallo Spirito che fa nuove tutte le
cose. Del resto ogni traguardo raggiunto ne apre altri. Ogni seme che va nel
buio del sottoterra e muore, rinasce dando frutto e ne produce altri.
Marc-Alain Ouaknin
ha scritto: “Una comunità non sarà santa perché garantisce la sua stessa
sopravvivenza, ma
perché mostra la
volontà di costruire il suo futuro.
La santità della comunità
sta nel suo essere orientata verso il futuro”.
La ripresa non sarà veloce
come il vento. Non interessa. Ma dovrà esserci e ci sarà se sapremo tutte
insieme, in cordata, andare al sodo, al vangelo. Con la grazia, la pace, la
gioia di Dio perché “ogni vita umana è un’avventura spirituale, una storia
sacra, un mistero che ci oltrepassa”.
Lo ha scritto p.
Alain Mattheeuws.
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