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1.
Cos’è la psicosomatica?
Il termine malattia
psicosomatica o, più semplicemente, disturbo psicosomatico è entrato
da molto tempo nel linguaggio quotidiano. Nonostante ciò, vi sono
ancora molte ambiguità nella comprensione di questa parola. Esse sono
dovute in gran parte alle nostre radici culturali, soprattutto
greco-romane, la cui antropologia, costruita su di un modello dualista
(psiche + soma), esercita ancora oggi un influsso rilevante nel modo con
cui concepiamo la persona umana. Benché siamo oggi consapevoli della
profonda unitarietà dell’individuo umano, pure non siamo ancora
riusciti a trovare, per descriverla, un modello linguistico e operativo
migliore di quello “psiche e soma”. Per questo motivo, dobbiamo
tener presente che ogni discorso sulla psicosomatica è tendenzialmente
viziato da questa scissione, come pure dalle differenti concezioni
filosofiche o religiose che si associano al concetto di personalità1.
Comunque possiamo dire che fin dall’antichità gli studiosi hanno
posto un impegno molto grande per riuscire a comprendere i rapporti tra
i processi mentali (o psichici) e quelli somatici (o biologici) e, ancor
di più, nel tentativo di spiegare come mai alcune esperienze psichiche
si esprimono mediante manifestazioni somatiche.
Oggi intendiamo per
psicosomatica:
a)
un approccio globale alla persona umana nell’ambito della salute come
della malattia;
b) un settore
specialistico interdisciplinare che va dalla medicina, alla psicologia e
alle altre scienze umane, in quanto si ritiene che ogni persona vada
collocata nel suo contesto ambientale e culturale per poterla
comprendere;
c) lo studio di tutte
le manifestazioni patologiche umane che risultano associate in misura
rilevante a processi psichici, al punto che questi ultimi sono
essenziali perché un determinato quadro possa essere definito come
malattia (approccio somato-psichico), come pure di quelle manifestazioni
somatiche cui è associata una dinamica psichica disfunzionale mentre
sono assenti correlati biologici e vengono, pertanto, ritenute di
origine psicologica. Il nodo cruciale della questione psicosomatica
rimane però la comprensione del passaggio di informazioni dalla psiche
(o mente) al corpo. Tale questione è ancora oggi molto dibattuta,
tuttavia tre processi psichici sono assai utili alla comprensione dei
disturbi psicosomatici: lo stress, il conflitto e il linguaggio del
corpo2.
2.
A proposito di stress...
Uno dei concetti che si
sono rivelati più utili in psicosomatica è quello di stress. Possiamo
pensare alla personalità come a un organismo che tende all’omeostasi
(cioè al proprio equilibrio) e il cui stato interno – in un
determinato periodo di tempo – è il risultato delle interazioni tra i
propri automatismi biologici, geneticamente programmati, e le
sollecitazioni ambientali. Ogni tipo di sollecitazione si presenta come
una richiesta di modifica dell’omeostasi che, indipendentemente dalla
fonte – cioè che si tratti di uno stimolo fisico, chimico o
psico-sociale – è sempre associata, e in qualche modo mediata, da
reazioni emotive. Da questo punto di vista, quindi, possiamo dire che lo
stress è la risposta che la personalità fornisce, di fronte a ogni
richiesta di modificare la propria omeostasi.
Di per sé il termine
stress non ha necessariamente un significato negativo o patologico, in
quanto vi sono stress positivi: p. es. un’esplosione di entusiasmo;
del resto, ciò che rende negativo lo stress dipende da molte variabili
(tipo di stimolo, frequenza, intensità), come pure dalle condizioni
concrete della personalità, in un contesto determinato. In altri
termini, la gravità “oggettiva” dell’agente che provoca lo stress
viene considerata – entro certi limiti – relativa, mentre si ritiene
che l’effetto “stressante” sia legato prevalentemente alle
risorse, ai bisogni e alle motivazioni della personalità, come pure
alle caratteristiche specifiche del contesto in cui la dinamica
“stressante” viene a configurarsi.
Tuttavia nella nostra
cultura è invalso l’uso di considerare lo stress come un fattore
negativo, perché ritenuto fonte – almeno potenziale – di danno al
benessere e alla salute. In ogni caso, come possiamo osservare con
frequenza, ciò che soprattutto conta, dal punto di vista psicosomatico,
è la modalità con cui l’individuo, posto dinanzi a determinate
sollecitazioni, elabora una risposta che sintetizza vitalmente
l’insieme dei fattori biologici, psicologici e culturali. Possiamo
osservare che uno stesso evento, per esempio un abbassamento prolungato
e forte della voce in una persona che abitualmente insegna o lavora
nella catechesi, può essere vissuto come ricerca di interessi diversi
in cui impegnarsi, oppure può essere vissuta con un senso di passività
e d’impotenza, che gradatamente diviene permanente e si trasforma in
astenia o depressione.
Se esaminiamo a fondo i
due casi, potremo vedere quanto essi siano influenzati dal comportamento
della comunità, dall’atteggiamento delle persone amiche, da quello
della superiora e del medico, dall’immagine che quella determinata
persona ha di se stessa e quindi dalla sua capacità di integrare
l’aspetto “limitativo” del disturbo, anche in rapporto al modo con
cui la cultura del suo gruppo di appartenenza giudica il fatto.
L’insieme di tutti questi elementi trova poi un’espressione vitale
unitaria nella risposta che emerge dal particolare tipo di personalità.
3
... di conflitti...
In termini generali, il
concetto di conflitto3
è il risultato di forze (es. bisogni, motivazioni, pulsioni) tra loro
tendenzialmente opposte – o anche che si escludono radicalmente –
che agiscono contemporaneamente sull’individuo, impedendogli di
esprimersi con una risposta operativa coerente. E’ evidente come
questa dinamica generi dello stress: per questo i concetti di stress e
di conflitto sono strettamente uniti tra di loro nella traduzione in
atto di una risposta. Il conflitto può svolgersi a un livello
prevalentemente cosciente oppure, al contrario, inconscio, pur tenendo
sempre presente che questa separazione è, nella realtà, artificiosa.
A un livello
consapevole, noi viviamo il conflitto soprattutto come frustrazione.
Infatti quando, in presenza di una situazione che determina un ostacolo,
desideriamo tradurre in atto o anche portare a termine una certa attività,
proviamo una gamma di reazioni sgradevoli, soprattutto delle emozioni
disturbanti, quali la rabbia, la depressione o l’aumento dell’ansia.
Queste emozioni, non solo possono ostacolare l’utilizzo costruttivo
delle energie psichiche, ma possono anche essere convogliate in forme di
tensione che si scaricano a livello somatico.
4.
... e del corpo...
La
necessità di comunicare i nostri vissuti ci spinge a ritenere che i
concetti di mente/psiche e corpo/soma siano molto semplici, persino
intuiti. In realtà non è così, perché si tratta di concetti legati a
lunghe vicissitudini culturali e che, comunque, si riferiscono a realtà
molto complesse e, per quanto ci riguarda, non conosciute. P. es., il
concetto di corpo - o soma - ci rimanda alle nostre esperienze
sensoriali immediate. La concretezza del nostro corpo ci viene quando,
p. es., ci concentriamo sulla profondità del nostro respiro, oppure sul
battito del nostro cuore, oppure sul nostro odore. Talora proviamo
sensazioni piacevoli (una carezza, un sapore gradito) o fastidiose (un
prurito, un formicolio, un senso di pesantezza o di gonfiore) o anche
decisamente spiacevoli (un dolore). Infine, possiamo guardare parte del
nostro corpo (le mani, i piedi, gli arti, l’addome), oppure coglierne
l’immagine riflessa su di una superficie come p. es. in uno specchio.
Tuttavia, ogni volta che cerchiamo di cogliere la nostra realtà
corporea, ci accorgiamo che possiamo solo descriverla nella sua
dimensione anatomica, ma la sua globalità - come pure la sua
“essenza” (cioè ‘ciò che veramente rappresenta per noi) - ci
sfugge. Del resto, abbiamo delle impressioni molto parziali anche degli
altri: p. es. possiamo guardarli, toccarli, annusarli, avvertire il loro
calore e il loro odore, fotografarli, ma ci troviamo sempre dinanzi a
delle percezioni incomplete, molto diverse da quelle che vivono gli
interessati. Possiamo anche pensare come - a volte - ci riesce molto
difficile riconoscerci in certe fotografie, oppure nella nostra voce
registrata su un nastro magnetico.
Anche le scienze
biomediche si sono trovate dinanzi allo stesso problema: benché il
corpo possa essere ridotto a numeri, che ne misurano le diverse funzioni
(respiratoria, circolatoria ecc.), come pure la composizione dei suoi
liquidi, oppure possa essere tradotto in fotogrammi (es. risonanza
magnetica), rimane il fatto che tutte queste informazioni non sono
ultimative, cioè non esauriscono il nostro sapere e ancor meno il
nostro vissuto del corpo.
La cultura influisce
profondamente sulle diverse percezioni che abbiamo del nostro corpo, così
qualche volta ci sembra di avere un corpo, nel senso che ci rapportiamo
con qualcosa di concreto e di tangibile. P. es., imparare una nuova
posizione per dormire o per muoverci quando abbiamo disturbi artritici
comporta un pensare al nostro corpo, considerandolo come qualcosa di
oggettivo e concreto, come esterno a noi. Altre volte, invece, noi siamo
il nostro corpo e quindi non ci soffermiamo su ogni sensazione somatica,
ma viviamo un’esperienza di globalità corporea, senza porre
l’attenzione a come i gesti e i movimenti si organizzino sul piano
somatico. Considerando questi due dati, vediamo anche come il concetto
di corpo non sia, quindi, così separato da quello di psiche.
Sappiamo oggi che la
persona umana è capace di una rappresentazione psichica del proprio
corpo. Questa funzione sembra svilupparsi durante l’infanzia e
dipendere strettamente - in condizioni di sanità fisica - dalla qualità
dell’esperienza che il bambino fa, all’interno della relazione con
la propria madre. Il modo in cui questa si prende cura di lui/lei sembra
fondamentale per lo sviluppo di una corretta rappresentazione del corpo
in termini psicologici e per lo sviluppo di un sano equilibrio
psicosomatico. Questa rappresentazione si modifica poi nel corso della
vita, attirando la nostra attenzione sui cambiamenti che avvengono nel
corpo. Così accade, p. es., durante l’adolescenza o la vecchiaia,
quando le trasformazioni corporee tendono a sfuggire al nostro controllo
comportando, in alcuni casi, conseguenze sgradite e l’insorgenza di
nuovi problemi. P. es., la persona anziana, con il declino delle
funzioni e del vigore fisico, può vivere il proprio corpo come
insoddisfacente, sgradevole e fonte di problemi soltanto.
Il corpo svolge,
inoltre, una funzione fondamentale nella comunicazione, che è quella di
esprimersi con un linguaggio non verbale: il timbro della voce, lo
sguardo, i gesti delle mani, la postura del corpo, l’abbigliamento, ma
anche il dolore, il disagio, l’aumento o la diminuzione di diverse
sensibilità, dall’appetito al sonno. Mediante il corpo, possiamo
esprimere emozioni e sentimenti e fornire informazioni su aspetti che
riguardano la relazione che abbiamo con gli altri. Nei bambini piccoli e
negli animali il corpo rappresenta l’unico strumento per comunicare.
La comunicazione non verbale è molto spontanea e viene espressa quasi
completamente in modo inconscio: per questo, è molto difficile
controllarla o mentire attraverso di essa.
La dimensione simbolica
che è associata al linguaggio non verbale consente una comprensione
unitaria del corpo e dei suoi dinamismi, normali e patologici, a livello
del vissuto, soprattutto inconscio, e delle valenze simboliche sia
individuali che collettive.
5.
I disturbi psicosomatici e la vita consacrata
Disponiamo ora di tutte
le informazioni per inquadrare bene il nostro tema. La caratteristica
dei disturbi psicosomatici è quella di esprimere, mediante il
linguaggio corporeo, le emozioni associate agli stati di disagio, che
sono di natura prevalentemente relazionale; è dunque importante
delineare il contesto ambientale e culturale in cui li studiamo.
Nell’ambito della vita consacrata, agiscono dinamiche specifiche, che
definiscono il contesto esistenziale e le relative risposte. Per quanto
riguarda i processi che caratterizzano in modo particolare questo genere
di vita, possiamo indicarne almeno tre4.
1.
Importanza data ai fattori ideali e alla tradizione. Come ben sappiamo,
nella vita consacrata il posto degli ideali è molto presente e non
raramente induce diversi tipi di disagio. P. es., quello di non sentirsi
adeguati rispetto agli ideali che si sono professati, ma anche quello di
trovare che... la comunità o l’istituto non sono coerenti con gli
ideali delle origini. Al tempo stesso, negli istituti di vita consacrata
viene dato sovente un peso molto elevato alla tradizione propria di
ciascun istituto, sia quella oggettiva - e quindi documentata negli
scritti del fondatore o della fondatrice, negli atti della s. Sede
diretti all’istituto, ecc. - che quella un po’... peregrina, cioè
fondata sul “ da noi si è sempre fatto così”. Ne segue che vi è
molto spesso una resistenza - non raramente acritica - dell’ambiente
(e chiaramente delle singole persone), nei confronti dei cambiamenti,
non solo degli stili di vita, ma molto di più verso le novità ideali,
di pensiero. Questi condizionamenti bloccano molto di frequente lo
sviluppo dell’identità delle singole persone, in quanto prevedono un
percorso “omogeneo” per tutti i/le componenti dell’istituto: di
qui, si generano conflitti tra situazioni personali e dinamiche sia
relazionali che istituzionali. Sottolineo che in molti ambienti di vita
religiosa, a causa delle loro origini o della provenienza socioculturale
delle prime generazioni, l’essere malati fa parte degli indicatori
necessari della santità. Un religioso in buona salute, senza alcun
malessere, evidentemente non è abbastanza santo da meritare di essere
“provato” da Dio... Per questo, è molto presente il rischio sottile
che l’ideologia dell’essere malato (possibilmente però di disturbi
che non abbiano conseguenze gravi, meglio se poco chiari!) possa
insinuarsi nei processi mentali di qualche religioso...
2.
La verità delle relazioni. Il problema della comunicazione è
sicuramente tra le fonti di disagio possibile, all’interno delle
comunità religiose. Differenze di età, cultura, educazione, modelli
ideali rendono sovente difficile attuare relazioni esplicite, dirette
eppure rispettose. Più facilmente, malintesi sentimenti di... carità o
di pudore, ma anche la immaturità delle persone, determinano
repressioni delle emozioni, comunicazioni formali, allusioni ed
eccessivo controllo delle proprie emozioni profonde. In particolare, il
rapporto con l’autorità non sembra essere, spesso, una relazione tra
persone adulte, tutte corresponsabili - sia pure con ruoli diversi -
della stessa fedeltà al carisma.
3.
La condizione della castità consacrata che, ove non sia vissuta con
motivazioni lucidamente consapevoli, con grande umiltà di vita e con
una maturità affettiva adeguata, induce vissuti e proiezioni molto
intense sulle realtà legate al corpo, non di rado distorcendole.
In questo contesto
possiamo più facilmente comprendere la funzione simbolico-espressiva,
appunto non verbale, dei disturbi che si presentano con maggiore
frequenza nell’ambito della vita consacrata.
5.1. Assimilare la
vita o rifiutarla?
Una parte notevole, per
frequenza e intensità, dei disturbi psicosomatici di cui si soffre
nelle comunità religiose riguarda l’apparato digerente. Dolori
durante la digestione, coliti, gastriti ecc. sono abbastanza frequenti.
Molto spesso, gli esami clinici non evidenziano alcuna disfunzione e, al
tempo stesso, il medico di base constata che l’alimentazione della
comunità è di buona qualità e cucinata in modo sano. Per questo,
molto spesso il medico, non potendo far altro, si limita alla
prescrizione di farmaci che tendono a ridurre la tensione nervosa a
livello gastrico, come sono alcuni tranquillanti minori, composti per
questo specifico effetto. A questo punto, sarebbe necessario chiedersi
quale disagio vogliamo esprimere mediante questi disturbi. Potremmo
allora scoprire che vi sono due filoni fondamentali di mal-essere, che
soggiacciono a questi disturbi.
Il primo riguarda le
difficoltà nell’accettare-assimilare le situazioni della vita: di qui
il riflesso, espresso dalla simbologia appunto della funzione digerente
nelle sue varie fasi, che appunto indica quanto la quotidianità sia
conflittuale rispetto al desiderio della persona. Le diverse difficoltà
di digerire... il cibo quotidiano - o di eliminarlo - indicano una
probabile area problematica (in termini generali) a questo riguardo. Poi
andrebbe valutato se si rifiuta di assimilare la relazione con una
determinata persona, o un ambiente, o uno stile di vita, oppure se
l’oggetto del rifiuto è il lasciare atteggiamenti e inclinazioni che
non sono omogenee o coerenti con la comunità o l’ambiente di lavoro.
Il secondo riguarda la
propria condizione, diciamo così, affettiva: quando una persona non si
ritiene sufficientemente “curata” o anche “amata”, allora le
esigenze espresse tramite l’alimentazione costringono l’ambiente
ad... occuparsi di lei. Di qui la necessità di diete (meglio se non
prescritte dal medico, ma derivate da... tradizioni personali) che,
sotto la copertura della salute (che, come si sa, viene prima di tutto),
costringe l’ambiente a occuparsi di noi. Una delle conseguenze più
frequenti - e anche più “ridicole” - di questo aspetto consiste nel
riflettere sulla quantità di attribuzioni fantasiose che viene fatta a
proposito di cibi che fanno bene o male, della virtù curativa di questo
o quell’alimento, dei diversi modi di preparazione e, in modo del
tutto peculiare, della virtù di certi cibi di essere “pesanti” o
“leggeri”.
Tutte queste
valutazioni, se guardate con una certa attenzione, nulla hanno a che
fare con quella “inutile” disciplina che è la medicina
“ufficiale”, ma affondano le proprie ragioni in oscure reminiscenze
dell’infanzia, degli usi di una certa zona o dei gusti personali. Così,
mi è capitato non raramente di sentire delle religiose ammalate di
gastrite lodare le virtù terapeutiche delle cipolle, meglio se fritte,
e la leggerezza delle uova al tegame con un po’ di pancetta (‘tutta
roba fatta in casa, sa’, genuina’...), a fronte l’orrenda
indigeribilità delle patate lesse o del riso in bianco con poco olio e
meno parmigiano...
5.2. Vigilate...
per non entrare in voi stessi!
Un altro ambito di
disturbi frequenti nelle comunità religiose riguarda l’aggressività
e l’attività. Conosciamo forse tutti la facilità con cui possiamo
essere preda di ritmi frenetici, dove non abbiamo mai tempo a
sufficienza, dove sembra appunto che dobbiamo “aggredire” la vita
con le nostre attività, quasi si trattasse di smantellare una fortezza
o di difenderci da qualche nemico che ci ruba lo spazio, il ruolo, il
tempo. A questa condizione si associa di frequente, ma talora ne è
indipendente, l’incapacità di manifestare le nostre emozioni
aggressive: di noia, di rabbia, di insoddisfazione. Due sono le aree di
disturbi psicosomatici che vengono caricate del compito di esprimere,
simbolicamente, questi disagi: i disturbi della pressione e le insonnie.
I disturbi della
pressione, di solito ipertensione ma talora anche ipotensione, indicano
appunto l’incapacità a darsi un ritmo, a lasciar fluire le emozioni
anche aggressive (peraltro sovente costruttive e non già distruttive!),
a non aver paura delle reazioni che proviamo. Questi fattori segnano
blocchi emotivi e ostacoli appunto al fluire del tempo (quanto
meriterebbe una riflessione accurata il saper vivere il tempo nella
nostra vita religiosa!), che vengono appunto tradotti in disturbi della
pressione. L’ipertensione, in particolare, ci dice di cariche
represse, di bisogni di attività e di manifestazione di sé che non
riescono a trovare un alveo in cui incanalarsi. E allora... su con gli
indicatori di pressione!
Associata
frequentemente all’ipertensione - anche se non necessariamente, né
esclusivamente - troviamo l’insonnia nelle sue diverse forme: non
riuscire ad addormentarsi, risvegli frequenti, sensazione di non
riuscire a riposare bene, ecc. Qui si aprono solitamente due
prospettive. La prima riguarda una certa insoddisfazione che implica un
contenuto, sovente mascherato, di depressione. Questo indicatore segnala
un vuoto nel nostro vissuto, che spesso non avvertiamo coscientemente,
ma che tuttavia abbiamo paura di riconoscere, perché potrebbe
riguardare il senso della nostra vita, la coerenza col nostro impegno di
fedeltà, l’insufficienza dell’esperienza di fede, ecc. Ci manca
qualche cosa, siamo insoddisfatti e allora non possiamo lasciarci andare
al riposo e a tutti i significati che il dormire include. Perché
affidare il proprio spirito al sonno è anche un richiamo al possibile
mancato risvegliarsi, alla morte. La frequenza di risvegli, invece,
esprime piuttosto il bisogno di continuare a fare e, quindi, a
controllare quanto avviene intorno a noi, il non potersi ritirare in se
stessi e lasciarsi andare. Allora, appena poco dopo esserci
addormentati, ecco che un breve risveglio interrompe il sonno e ci
tranquillizza che siamo ancora vivi e vigili... per continuare a
controllare tutto, ad agire, a fare anziché ad essere!
5.3. La carne è
debole...
Un ultimo tipo di
disturbo molto presente nelle comunità religiose è l’astenia. Si
tratta di un quadro clinico caratterizzato da un persistente e
indefinibile senso di malessere e di stanchezza fisica e psichica,
predominante al mattino, che impedisce sforzi muscolari e intellettuali
anche limitati; esso si accompagna, inoltre, a fragilità emotive,
ipersensibilità, insofferenza, irritabilità, tendenza alla sfiducia e
all’ipocondria. Anche qui, la dinamica del disturbo è molto
indicativa: si tratta, infatti, di malesseri che non trovano alcun
riscontro nelle indagini cliniche, che sono un po’ fumosi ma che,
comunque, vengono attribuiti al corpo e non alla mente... Di qui, i
tentativi sia del medico che degli esperti di casa di procedere a cure
ricostituenti, al bisogno di stare un po’ fuori ambiente, di
distrarsi, ecc. In realtà, l’astenia segue quasi sempre periodi
prolungati di stress emotivo e lavorativo, oppure indica uno stato di
prostrazione per un conflitto profondo che la persona non riesce ad
affrontare.
La problematicità
dell’astenia è data dal fatto che la persona che ne soffre molto
difficilmente accetta di collegare questo stato con il proprio stile di
vita e le motivazioni. Per questo, dà l’impressione di voler
vanificare (anche solo per la sfiducia che dimostra) tutti i tentativi
di sollecitarla ad... aiutarsi, mentre sembra accettare solo - e non
sempre - le cure farmacologiche, sia scientifiche che a base di tisane e
altri rimedi prodigiosi...
6.
Che fare?
Certamente vi sono
anche altri disturbi psicosomatici di cui non ho parlato, ma questi a
cui ho accennato sono quelli che l’esperienza mi ha fatto incontrare
con più frequenza e che, più facilmente, sono collegabili alla cultura
delle comunità religiose.
Il primo atteggiamento
da assumere, per aiutare chi manifesta questi disturbi, è tenere
presente che si tratta di persone che soffrono e che, quindi, vanno
rispettate e non trattate da visionari o attori...
In secondo luogo, si
tratta di instaurare dei rapporti fondati sulla verità. Una volta che
siamo riusciti a fare una riflessione sui disturbi psicosomatici - sia
nostri che di altre persone - sappiamo che, nella maggior parte dei
casi, è possibile trovare una buona soluzione nelle diverse tecniche
psicoterapeutiche: dalle tecniche di rilassamento, alle terapie
cognitive fino alle psicoterapia di matrice analitica. Sarà il medico
di base, oppure un altro esperto (intendo dire cioè uno specialista in
psicologia clinica o in medicina psicosomatica), a suggerire
l’intervento terapeutico più appropriato, magari coadiuvato, se
necessario, da terapie farmacologiche.
Vorrei, comunque,
sottolineare che una lunga esperienza mi ha portato a queste
conclusioni: un disturbo psicosomatico curato con appropriata
psicoterapia può essere l’inizio di una rinnovata maturazione nel
proprio cammino di identificazione e di autonomia, mentre un disturbo
psicosomatico trascurato o sottovalutato diviene spesso l’inizio di
una progressiva emarginazione della persona dall’ambiente, con
conseguenza sia sulla salute psichica di chi soffre di problemi
psicosomatici, che della vita nella comunità.
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