n. 6 giugno 2002

 

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Le malattie dello spirito
A proposito dei disturbi psicosomatici

di Lucio M. Pinkus
 

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1. Cos’è la psicosomatica?

Il termine malattia psicosomatica o, più semplicemente, disturbo psicosomatico è entrato da molto tempo nel linguaggio quotidiano. Nonostante ciò, vi sono ancora molte ambiguità nella comprensione di questa parola. Esse sono dovute in gran parte alle nostre radici culturali, soprattutto greco-romane, la cui antropologia, costruita su di un modello dualista (psiche + soma), esercita ancora oggi un influsso rilevante nel modo con cui concepiamo la persona umana. Benché siamo oggi consapevoli della profonda unitarietà dell’individuo umano, pure non siamo ancora riusciti a trovare, per descriverla, un modello linguistico e operativo migliore di quello “psiche e soma”. Per questo motivo, dobbiamo tener presente che ogni discorso sulla psicosomatica è tendenzialmente viziato da questa scissione, come pure dalle differenti concezioni filosofiche o religiose che si associano al concetto di personalità1. Comunque possiamo dire che fin dall’antichità gli studiosi hanno posto un impegno molto grande per riuscire a comprendere i rapporti tra i processi mentali (o psichici) e quelli somatici (o biologici) e, ancor di più, nel tentativo di spiegare come mai alcune esperienze psichiche si esprimono mediante manifestazioni somatiche.

Oggi intendiamo per psicosomatica:

 a) un approccio globale alla persona umana nell’ambito della salute come della malattia;

b) un settore specialistico interdisciplinare che va dalla medicina, alla psicologia e alle altre scienze umane, in quanto si ritiene che ogni persona vada collocata nel suo contesto ambientale e culturale per poterla comprendere;

c) lo studio di tutte le manifestazioni patologiche umane che risultano associate in misura rilevante a processi psichici, al punto che questi ultimi sono essenziali perché un determinato quadro possa essere definito come malattia (approccio somato-psichico), come pure di quelle manifestazioni somatiche cui è associata una dinamica psichica disfunzionale mentre sono assenti correlati biologici e vengono, pertanto, ritenute di origine psicologica. Il nodo cruciale della questione psicosomatica rimane però la comprensione del passaggio di informazioni dalla psiche (o mente) al corpo. Tale questione è ancora oggi molto dibattuta, tuttavia tre processi psichici sono assai utili alla comprensione dei disturbi psicosomatici: lo stress, il conflitto e il linguaggio del corpo2.

 

2. A proposito di stress...

Uno dei concetti che si sono rivelati più utili in psicosomatica è quello di stress. Possiamo pensare alla personalità come a un organismo che tende all’omeostasi (cioè al proprio equilibrio) e il cui stato interno – in un determinato periodo di tempo – è il risultato delle interazioni tra i propri automatismi biologici, geneticamente programmati, e le sollecitazioni ambientali. Ogni tipo di sollecitazione si presenta come una richiesta di modifica dell’omeostasi che, indipendentemente dalla fonte – cioè che si tratti di uno stimolo fisico, chimico o psico-sociale – è sempre associata, e in qualche modo mediata, da reazioni emotive. Da questo punto di vista, quindi, possiamo dire che lo stress è la risposta che la personalità fornisce, di fronte a ogni richiesta di modificare la propria omeostasi.

Di per sé il termine stress non ha necessariamente un significato negativo o patologico, in quanto vi sono stress positivi: p. es. un’esplosione di entusiasmo; del resto, ciò che rende negativo lo stress dipende da molte variabili (tipo di stimolo, frequenza, intensità), come pure dalle condizioni concrete della personalità, in un contesto determinato. In altri termini, la gravità “oggettiva” dell’agente che provoca lo stress viene considerata – entro certi limiti – relativa, mentre si ritiene che l’effetto “stressante” sia legato prevalentemente alle risorse, ai bisogni e alle motivazioni della personalità, come pure alle caratteristiche specifiche del contesto in cui la dinamica “stressante” viene a configurarsi.

Tuttavia nella nostra cultura è invalso l’uso di considerare lo stress come un fattore negativo, perché ritenuto fonte – almeno potenziale – di danno al benessere e alla salute. In ogni caso, come possiamo osservare con frequenza, ciò che soprattutto conta, dal punto di vista psicosomatico, è la modalità con cui l’individuo, posto dinanzi a determinate sollecitazioni, elabora una risposta che sintetizza vitalmente l’insieme dei fattori biologici, psicologici e culturali. Possiamo osservare che uno stesso evento, per esempio un abbassamento prolungato e forte della voce in una persona che abitualmente insegna o lavora nella catechesi, può essere vissuto come ricerca di interessi diversi in cui impegnarsi, oppure può essere vissuta con un senso di passività e d’impotenza, che gradatamente diviene permanente e si trasforma in astenia o depressione.

Se esaminiamo a fondo i due casi, potremo vedere quanto essi siano influenzati dal comportamento della comunità, dall’atteggiamento delle persone amiche, da quello della superiora e del medico, dall’immagine che quella determinata persona ha di se stessa e quindi dalla sua capacità di integrare l’aspetto “limitativo” del disturbo, anche in rapporto al modo con cui la cultura del suo gruppo di appartenenza giudica il fatto. L’insieme di tutti questi elementi trova poi un’espressione vitale unitaria nella risposta che emerge dal particolare tipo di personalità.

 

3 ... di conflitti...

In termini generali, il concetto di conflitto3 è il risultato di forze (es. bisogni, motivazioni, pulsioni) tra loro tendenzialmente opposte – o anche che si escludono radicalmente – che agiscono contemporaneamente sull’individuo, impedendogli di esprimersi con una risposta operativa coerente. E’ evidente come questa dinamica generi dello stress: per questo i concetti di stress e di conflitto sono strettamente uniti tra di loro nella traduzione in atto di una risposta. Il conflitto può svolgersi a un livello prevalentemente cosciente oppure, al contrario, inconscio, pur tenendo sempre presente che questa separazione è, nella realtà, artificiosa.

A un livello consapevole, noi viviamo il conflitto soprattutto come frustrazione. Infatti quando, in presenza di una situazione che determina un ostacolo, desideriamo tradurre in atto o anche portare a termine una certa attività, proviamo una gamma di reazioni sgradevoli, soprattutto delle emozioni disturbanti, quali la rabbia, la depressione o l’aumento dell’ansia. Queste emozioni, non solo possono ostacolare l’utilizzo costruttivo delle energie psichiche, ma possono anche essere convogliate in forme di tensione che si scaricano a livello somatico.

 

4. ... e del corpo...

 La necessità di comunicare i nostri vissuti ci spinge a ritenere che i concetti di mente/psiche e corpo/soma siano molto semplici, persino intuiti. In realtà non è così, perché si tratta di concetti legati a lunghe vicissitudini culturali e che, comunque, si riferiscono a realtà molto complesse e, per quanto ci riguarda, non conosciute. P. es., il concetto di corpo - o soma - ci rimanda alle nostre esperienze sensoriali immediate. La concretezza del nostro corpo ci viene quando, p. es., ci concentriamo sulla profondità del nostro respiro, oppure sul battito del nostro cuore, oppure sul nostro odore. Talora proviamo sensazioni piacevoli (una carezza, un sapore gradito) o fastidiose (un prurito, un formicolio, un senso di pesantezza o di gonfiore) o anche decisamente spiacevoli (un dolore). Infine, possiamo guardare parte del nostro corpo (le mani, i piedi, gli arti, l’addome), oppure coglierne l’immagine riflessa su di una superficie come p. es. in uno specchio. Tuttavia, ogni volta che cerchiamo di cogliere la nostra realtà corporea, ci accorgiamo che possiamo solo descriverla nella sua dimensione anatomica, ma la sua globalità - come pure la sua “essenza” (cioè ‘ciò che veramente rappresenta per noi) - ci sfugge. Del resto, abbiamo delle impressioni molto parziali anche degli altri: p. es. possiamo guardarli, toccarli, annusarli, avvertire il loro calore e il loro odore, fotografarli, ma ci troviamo sempre dinanzi a delle percezioni incomplete, molto diverse da quelle che vivono gli interessati. Possiamo anche pensare come - a volte - ci riesce molto difficile riconoscerci in certe fotografie, oppure nella nostra voce registrata su un nastro magnetico.

Anche le scienze biomediche si sono trovate dinanzi allo stesso problema: benché il corpo possa essere ridotto a numeri, che ne misurano le diverse funzioni (respiratoria, circolatoria ecc.), come pure la composizione dei suoi liquidi, oppure possa essere tradotto in fotogrammi (es. risonanza magnetica), rimane il fatto che tutte queste informazioni non sono ultimative, cioè non esauriscono il nostro sapere e ancor meno il nostro vissuto del corpo.

La cultura influisce profondamente sulle diverse percezioni che abbiamo del nostro corpo, così qualche volta ci sembra di avere un corpo, nel senso che ci rapportiamo con qualcosa di concreto e di tangibile. P. es., imparare una nuova posizione per dormire o per muoverci quando abbiamo disturbi artritici comporta un pensare al nostro corpo, considerandolo come qualcosa di oggettivo e concreto, come esterno a noi. Altre volte, invece, noi siamo il nostro corpo e quindi non ci soffermiamo su ogni sensazione somatica, ma viviamo un’esperienza di globalità corporea, senza porre l’attenzione a come i gesti e i movimenti si organizzino sul piano somatico. Considerando questi due dati, vediamo anche come il concetto di corpo non sia, quindi, così separato da quello di psiche.

Sappiamo oggi che la persona umana è capace di una rappresentazione psichica del proprio corpo. Questa funzione sembra svilupparsi durante l’infanzia e dipendere strettamente - in condizioni di sanità fisica - dalla qualità dell’esperienza che il bambino fa, all’interno della relazione con la propria madre. Il modo in cui questa si prende cura di lui/lei sembra fondamentale per lo sviluppo di una corretta rappresentazione del corpo in termini psicologici e per lo sviluppo di un sano equilibrio psicosomatico. Questa rappresentazione si modifica poi nel corso della vita, attirando la nostra attenzione sui cambiamenti che avvengono nel corpo. Così accade, p. es., durante l’adolescenza o la vecchiaia, quando le trasformazioni corporee tendono a sfuggire al nostro controllo comportando, in alcuni casi, conseguenze sgradite e l’insorgenza di nuovi problemi. P. es., la persona anziana, con il declino delle funzioni e del vigore fisico, può vivere il proprio corpo come insoddisfacente, sgradevole e fonte di problemi soltanto.

Il corpo svolge, inoltre, una funzione fondamentale nella comunicazione, che è quella di esprimersi con un linguaggio non verbale: il timbro della voce, lo sguardo, i gesti delle mani, la postura del corpo, l’abbigliamento, ma anche il dolore, il disagio, l’aumento o la diminuzione di diverse sensibilità, dall’appetito al sonno. Mediante il corpo, possiamo esprimere emozioni e sentimenti e fornire informazioni su aspetti che riguardano la relazione che abbiamo con gli altri. Nei bambini piccoli e negli animali il corpo rappresenta l’unico strumento per comunicare. La comunicazione non verbale è molto spontanea e viene espressa quasi completamente in modo inconscio: per questo, è molto difficile controllarla o mentire attraverso di essa.

La dimensione simbolica che è associata al linguaggio non verbale consente una comprensione unitaria del corpo e dei suoi dinamismi, normali e patologici, a livello del vissuto, soprattutto inconscio, e delle valenze simboliche sia individuali che collettive.

5. I disturbi psicosomatici e la vita consacrata

Disponiamo ora di tutte le informazioni per inquadrare bene il nostro tema. La caratteristica dei disturbi psicosomatici è quella di esprimere, mediante il linguaggio corporeo, le emozioni associate agli stati di disagio, che sono di natura prevalentemente relazionale; è dunque importante delineare il contesto ambientale e culturale in cui li studiamo. Nell’ambito della vita consacrata, agiscono dinamiche specifiche, che definiscono il contesto esistenziale e le relative risposte. Per quanto riguarda i processi che caratterizzano in modo particolare questo genere di vita, possiamo indicarne almeno tre4.

 

1. Importanza data ai fattori ideali e alla tradizione. Come ben sappiamo, nella vita consacrata il posto degli ideali è molto presente e non raramente induce diversi tipi di disagio. P. es., quello di non sentirsi adeguati rispetto agli ideali che si sono professati, ma anche quello di trovare che... la comunità o l’istituto non sono coerenti con gli ideali delle origini. Al tempo stesso, negli istituti di vita consacrata viene dato sovente un peso molto elevato alla tradizione propria di ciascun istituto, sia quella oggettiva - e quindi documentata negli scritti del fondatore o della fondatrice, negli atti della s. Sede diretti all’istituto, ecc. - che quella un po’... peregrina, cioè fondata sul “ da noi si è sempre fatto così”. Ne segue che vi è molto spesso una resistenza - non raramente acritica - dell’ambiente (e chiaramente delle singole persone), nei confronti dei cambiamenti, non solo degli stili di vita, ma molto di più verso le novità ideali, di pensiero. Questi condizionamenti bloccano molto di frequente lo sviluppo dell’identità delle singole persone, in quanto prevedono un percorso “omogeneo” per tutti i/le componenti dell’istituto: di qui, si generano conflitti tra situazioni personali e dinamiche sia relazionali che istituzionali. Sottolineo che in molti ambienti di vita religiosa, a causa delle loro origini o della provenienza socioculturale delle prime generazioni, l’essere malati fa parte degli indicatori necessari della santità. Un religioso in buona salute, senza alcun malessere, evidentemente non è abbastanza santo da meritare di essere “provato” da Dio... Per questo, è molto presente il rischio sottile che l’ideologia dell’essere malato (possibilmente però di disturbi che non abbiano conseguenze gravi, meglio se poco chiari!) possa insinuarsi nei processi mentali di qualche religioso...

2. La verità delle relazioni. Il problema della comunicazione è sicuramente tra le fonti di disagio possibile, all’interno delle comunità religiose. Differenze di età, cultura, educazione, modelli ideali rendono sovente difficile attuare relazioni esplicite, dirette eppure rispettose. Più facilmente, malintesi sentimenti di... carità o di pudore, ma anche la immaturità delle persone, determinano repressioni delle emozioni, comunicazioni formali, allusioni ed eccessivo controllo delle proprie emozioni profonde. In particolare, il rapporto con l’autorità non sembra essere, spesso, una relazione tra persone adulte, tutte corresponsabili - sia pure con ruoli diversi - della stessa fedeltà al carisma.

3. La condizione della castità consacrata che, ove non sia vissuta con motivazioni lucidamente consapevoli, con grande umiltà di vita e con una maturità affettiva adeguata, induce vissuti e proiezioni molto intense sulle realtà legate al corpo, non di rado distorcendole.

In questo contesto possiamo più facilmente comprendere la funzione simbolico-espressiva, appunto non verbale, dei disturbi che si presentano con maggiore frequenza nell’ambito della vita consacrata.

5.1. Assimilare la vita o rifiutarla?

Una parte notevole, per frequenza e intensità, dei disturbi psicosomatici di cui si soffre nelle comunità religiose riguarda l’apparato digerente. Dolori durante la digestione, coliti, gastriti ecc. sono abbastanza frequenti. Molto spesso, gli esami clinici non evidenziano alcuna disfunzione e, al tempo stesso, il medico di base constata che l’alimentazione della comunità è di buona qualità e cucinata in modo sano. Per questo, molto spesso il medico, non potendo far altro, si limita alla prescrizione di farmaci che tendono a ridurre la tensione nervosa a livello gastrico, come sono alcuni tranquillanti minori, composti per questo specifico effetto. A questo punto, sarebbe necessario chiedersi quale disagio vogliamo esprimere mediante questi disturbi. Potremmo allora scoprire che vi sono due filoni fondamentali di mal-essere, che soggiacciono a questi disturbi.

Il primo riguarda le difficoltà nell’accettare-assimilare le situazioni della vita: di qui il riflesso, espresso dalla simbologia appunto della funzione digerente nelle sue varie fasi, che appunto indica quanto la quotidianità sia conflittuale rispetto al desiderio della persona. Le diverse difficoltà di digerire... il cibo quotidiano - o di eliminarlo - indicano una probabile area problematica (in termini generali) a questo riguardo. Poi andrebbe valutato se si rifiuta di assimilare la relazione con una determinata persona, o un ambiente, o uno stile di vita, oppure se l’oggetto del rifiuto è il lasciare atteggiamenti e inclinazioni che non sono omogenee o coerenti con la comunità o l’ambiente di lavoro.

Il secondo riguarda la propria condizione, diciamo così, affettiva: quando una persona non si ritiene sufficientemente “curata” o anche “amata”, allora le esigenze espresse tramite l’alimentazione costringono l’ambiente ad... occuparsi di lei. Di qui la necessità di diete (meglio se non prescritte dal medico, ma derivate da... tradizioni personali) che, sotto la copertura della salute (che, come si sa, viene prima di tutto), costringe l’ambiente a occuparsi di noi. Una delle conseguenze più frequenti - e anche più “ridicole” - di questo aspetto consiste nel riflettere sulla quantità di attribuzioni fantasiose che viene fatta a proposito di cibi che fanno bene o male, della virtù curativa di questo o quell’alimento, dei diversi modi di preparazione e, in modo del tutto peculiare, della virtù di certi cibi di essere “pesanti” o “leggeri”.

Tutte queste valutazioni, se guardate con una certa attenzione, nulla hanno a che fare con quella “inutile” disciplina che è la medicina “ufficiale”, ma affondano le proprie ragioni in oscure reminiscenze dell’infanzia, degli usi di una certa zona o dei gusti personali. Così, mi è capitato non raramente di sentire delle religiose ammalate di gastrite lodare le virtù terapeutiche delle cipolle, meglio se fritte, e la leggerezza delle uova al tegame con un po’ di pancetta (‘tutta roba fatta in casa, sa’, genuina’...), a fronte l’orrenda indigeribilità delle patate lesse o del riso in bianco con poco olio e meno parmigiano...

 

5.2. Vigilate... per non entrare in voi stessi!

Un altro ambito di disturbi frequenti nelle comunità religiose riguarda l’aggressività e l’attività. Conosciamo forse tutti la facilità con cui possiamo essere preda di ritmi frenetici, dove non abbiamo mai tempo a sufficienza, dove sembra appunto che dobbiamo “aggredire” la vita con le nostre attività, quasi si trattasse di smantellare una fortezza o di difenderci da qualche nemico che ci ruba lo spazio, il ruolo, il tempo. A questa condizione si associa di frequente, ma talora ne è indipendente, l’incapacità di manifestare le nostre emozioni aggressive: di noia, di rabbia, di insoddisfazione. Due sono le aree di disturbi psicosomatici che vengono caricate del compito di esprimere, simbolicamente, questi disagi: i disturbi della pressione e le insonnie.

I disturbi della pressione, di solito ipertensione ma talora anche ipotensione, indicano appunto l’incapacità a darsi un ritmo, a lasciar fluire le emozioni anche aggressive (peraltro sovente costruttive e non già distruttive!), a non aver paura delle reazioni che proviamo. Questi fattori segnano blocchi emotivi e ostacoli appunto al fluire del tempo (quanto meriterebbe una riflessione accurata il saper vivere il tempo nella nostra vita religiosa!), che vengono appunto tradotti in disturbi della pressione. L’ipertensione, in particolare, ci dice di cariche represse, di bisogni di attività e di manifestazione di sé che non riescono a trovare un alveo in cui incanalarsi. E allora... su con gli indicatori di pressione!

Associata frequentemente all’ipertensione - anche se non necessariamente, né esclusivamente - troviamo l’insonnia nelle sue diverse forme: non riuscire ad addormentarsi, risvegli frequenti, sensazione di non riuscire a riposare bene, ecc. Qui si aprono solitamente due prospettive. La prima riguarda una certa insoddisfazione che implica un contenuto, sovente mascherato, di depressione. Questo indicatore segnala un vuoto nel nostro vissuto, che spesso non avvertiamo coscientemente, ma che tuttavia abbiamo paura di riconoscere, perché potrebbe riguardare il senso della nostra vita, la coerenza col nostro impegno di fedeltà, l’insufficienza dell’esperienza di fede, ecc. Ci manca qualche cosa, siamo insoddisfatti e allora non possiamo lasciarci andare al riposo e a tutti i significati che il dormire include. Perché affidare il proprio spirito al sonno è anche un richiamo al possibile mancato risvegliarsi, alla morte. La frequenza di risvegli, invece, esprime piuttosto il bisogno di continuare a fare e, quindi, a controllare quanto avviene intorno a noi, il non potersi ritirare in se stessi e lasciarsi andare. Allora, appena poco dopo esserci addormentati, ecco che un breve risveglio interrompe il sonno e ci tranquillizza che siamo ancora vivi e vigili... per continuare a controllare tutto, ad agire, a fare anziché ad essere!

 

5.3. La carne è debole...

Un ultimo tipo di disturbo molto presente nelle comunità religiose è l’astenia. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato da un persistente e indefinibile senso di malessere e di stanchezza fisica e psichica, predominante al mattino, che impedisce sforzi muscolari e intellettuali anche limitati; esso si accompagna, inoltre, a fragilità emotive, ipersensibilità, insofferenza, irritabilità, tendenza alla sfiducia e all’ipocondria. Anche qui, la dinamica del disturbo è molto indicativa: si tratta, infatti, di malesseri che non trovano alcun riscontro nelle indagini cliniche, che sono un po’ fumosi ma che, comunque, vengono attribuiti al corpo e non alla mente... Di qui, i tentativi sia del medico che degli esperti di casa di procedere a cure ricostituenti, al bisogno di stare un po’ fuori ambiente, di distrarsi, ecc. In realtà, l’astenia segue quasi sempre periodi prolungati di stress emotivo e lavorativo, oppure indica uno stato di prostrazione per un conflitto profondo che la persona non riesce ad affrontare.

La problematicità dell’astenia è data dal fatto che la persona che ne soffre molto difficilmente accetta di collegare questo stato con il proprio stile di vita e le motivazioni. Per questo, dà l’impressione di voler vanificare (anche solo per la sfiducia che dimostra) tutti i tentativi di sollecitarla ad... aiutarsi, mentre sembra accettare solo - e non sempre - le cure farmacologiche, sia scientifiche che a base di tisane e altri rimedi prodigiosi...

 

6. Che fare?

Certamente vi sono anche altri disturbi psicosomatici di cui non ho parlato, ma questi a cui ho accennato sono quelli che l’esperienza mi ha fatto incontrare con più frequenza e che, più facilmente, sono collegabili alla cultura delle comunità religiose.

Il primo atteggiamento da assumere, per aiutare chi manifesta questi disturbi, è tenere presente che si tratta di persone che soffrono e che, quindi, vanno rispettate e non trattate da visionari o attori...

In secondo luogo, si tratta di instaurare dei rapporti fondati sulla verità. Una volta che siamo riusciti a fare una riflessione sui disturbi psicosomatici - sia nostri che di altre persone - sappiamo che, nella maggior parte dei casi, è possibile trovare una buona soluzione nelle diverse tecniche psicoterapeutiche: dalle tecniche di rilassamento, alle terapie cognitive fino alle psicoterapia di matrice analitica. Sarà il medico di base, oppure un altro esperto (intendo dire cioè uno specialista in psicologia clinica o in medicina psicosomatica), a suggerire l’intervento terapeutico più appropriato, magari coadiuvato, se necessario, da terapie farmacologiche.

Vorrei, comunque, sottolineare che una lunga esperienza mi ha portato a queste conclusioni: un disturbo psicosomatico curato con appropriata psicoterapia può essere l’inizio di una rinnovata maturazione nel proprio cammino di identificazione e di autonomia, mentre un disturbo psicosomatico trascurato o sottovalutato diviene spesso l’inizio di una progressiva emarginazione della persona dall’ambiente, con conseguenza sia sulla salute psichica di chi soffre di problemi psicosomatici, che della vita nella comunità.

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