n. 6 giugno 2002

 

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C'È UN TEMPO PER...
di Maria Pia Bonanate
 

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C’è un tempo per gemere
e un tempo per danzare

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Dio che geme per la nostra lontananza e indifferenza. E noi che lo ignoriamo, che non ascoltiamo il singulto del suo amore non corrisposto. Dio che danza per la gioia del figlio ritrovato, per la felicità di un’intimità con gli uomini che diventa festa, alleluia, appartenenza, condivisione nell’attesa dell’unione eterna. 

«Quando Dio ballava il tango» s’intitola l’ultimo romanzo di una brava scrittrice, Laura Pariani, pubblicato di recente da Rizzoli. Sono storie d’immigrazione in Argentina viste dalla parte delle donne, dalla fine ottocento ai giorni nostri. Vicende uncinate dalla sofferenza e attraversate dal pianto perché a pagare i prezzi più alti di una condizione di sradicamento, di fatica, di alienazione furono soprattutto le donne, madri, mogli, figlie rimaste spesso sole ad affrontare l’inferno di una vita quotidiana in terra straniera. Donne che hanno sgranato la litania degli abbandoni, delle malattie, delle umiliazioni, ma che con il loro corazón, che sempre batte nei tempi buoni e in quelli cattivi, hanno salvato i figli e i figli dei figli. La Pariani con appassionata partecipazione riannoda i fili del destino di queste donne, gli sconosciuti sacrifici, la lotta per la sopravvivenza, le delusioni e le solitudini, le sconfitte e i lutti. 

In particolare si sofferma sul dramma delle mogli che hanno avuto i mariti desaparecidos negli anni crudeli della dittatura militare. Eppure da questa montagna di tristezze e di dolori si libera una speranza, quella di un Dio che non ci abbandona, entra ballando nelle nostre vite: «Sentendo che col rosa del cielo la vita si ricompone - nei suoi occhi, altri occhi, che contano i tredici colori necessari per fare una buona mattina - mentre tangheggiando Dio fa la sua entrata nel nuovo giorno con un volteggio da ballerino consumato». E’ il brano finale del libro e dell’ultima vicenda dove la protagonista, alla quale è stato portato via dai plotoni della morte il marito, ripensando all’allegro tangabile che lui le suonava al violoncello, ricupera la capacità di guardare avanti. Di sperare e di rimanere unita per sempre al suo uomo scomparso.

Gemito e ballo, sofferenza e felicità. Non solo nelle vicende narrate dalla Pariani e nel dramma dell’Argentina che ha ricominciato a gemere per la crisi economica e lo sconquasso sociale, ma anche in tanti altri angoli del mondo dove il gemito è un coro di lamenti che arrivano da bambini, donne, anziani, vittime di guerre, carestie, emarginazioni, tradimenti pubblici e privati. Ma dove, spesso, proprio da questa immensa sofferenza fioriscono la musica, il canto, il ballo. Una mia carissima amica, Chiara Castellani, eroico medico di frontiera (ha perso un braccio in un incidente automobilistico, ma non ha voluto abbandonare la sua missione) nella foresta delle Repubblica Democratica del Congo, dove dirige un ospedale senza acqua e senza luce, affollato da un’umanità crocifissa, mi raccontava che i suoi amici congolesi, ultimi fra gli ultimi, pur piagati dalla fame, dalla malattie e da tante altre miserie, creano di continuo musica. Sono diventati i maggiori esportatori di musica africana nel mondo e affidano alle loro canzoni, sentimenti e speranza, la gioia di sentirsi figli di un Dio padre e madre. Nell’attesa che il mondo si accorga di loro.

Nella pampa argentina, dove il vento raggiunge 120 chilometri orari e d’inverno la temperatura scende sotto i trenta gradi, un’altra mia amica, missionaria laica, Rita Comiotto, ogni settimana con la sua jeep percorre centinaia di chilometri per raggiungere gli indios che vivono in uno stato di totale indigenza in baracche che assomigliano ad antri. Rita mi ha confessato il suo stupore nel vedere come persone tanto provate dalla sofferenza, madri che non riescono a salvare i loro bimbi denutriti perché i soccorsi non arrivano mai in tempo, ammalati che muoiono perché non è possibile trasportarli all’ospedale, riescano non solo sempre a sorridere, ma a trovare sollievo alla loro opprimente condizione attraverso canti e danze, ringraziamenti a quel Dio che fa sorgere ogni giorno il sole e ha creato le meraviglie dell’universo. Nella loro saggezza antica e nella loro fede incandescente di «beati evangelici» hanno capito che il gemito, se non riesce a trovare la strada per sollevare gli occhi al cielo, per aprirsi alla speranza, diventa un abisso buio che tutto ingoia.

Quando sono stata nelle missioni del Madagascar ho visto  donne, uomini e bambini, dopo una settimana di stenti, di fame e di paure, danzare nella Messa domenicale con una partecipazione e un trasporto che arrivavano direttamente dal cuore della loro sofferenza. A Korogoco, bidonville spietata e crudele di Nairobi, dove metà degli abitanti hanno l’Aids, durante le Messe celebrate da Alex Zanotelli, il comboniano che si consuma per difendere i diritti di coloro che non hanno voce, ho visto una folla di umiliati ed offesi trasformarsi in una comunità esultante, avvicinarsi con passo danzante all’altare per partecipare all’eucarestia delle proprie pene e crocifissioni con l’eleganza e la spontaneità di chi è in armonia con la propria identità. 

Sono queste testimonianze di persone che non hanno mai letto il Qohelet, ma lo vivono nella propria carne e nel proprio spirito, che abitano con rassegnazione e dignità il tempo del gemito e del pianto, ma vivono con pienezza e trasporto anche quello della danza e della letizia, ad aiutarci ad entrare nel misterioso legame che esiste fra la sofferenza e la gioia. Perché questi due momenti così diversi fra di loro si nutrano a vicenda, legati da una contrapposizione che diviene unità e completezza, non riusciremo mai umanamente a capirlo. Ma trascinati da questi richiami che ci giungono dalla folla delle Beatitudini tentiamo di vivere queste due condizioni del destino umano nella profondità dei loro richiami, con lo sguardo nello sguardo di Dio. Allora forse ci riveleranno segreti utili per vivere e per sperare.

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