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Dio
che geme per la nostra lontananza e indifferenza. E noi che lo
ignoriamo, che non ascoltiamo il singulto del suo amore non corrisposto.
Dio che danza per la gioia del figlio ritrovato, per la felicità di
un’intimità con gli uomini che diventa festa, alleluia, appartenenza,
condivisione nell’attesa dell’unione eterna.
«Quando
Dio ballava il tango» s’intitola l’ultimo romanzo di una brava
scrittrice, Laura Pariani, pubblicato di recente da Rizzoli. Sono storie
d’immigrazione in Argentina viste dalla parte delle donne, dalla fine
ottocento ai giorni nostri. Vicende uncinate dalla sofferenza e
attraversate dal pianto perché a pagare i prezzi più alti di una
condizione di sradicamento, di fatica, di alienazione furono soprattutto
le donne, madri, mogli, figlie rimaste spesso sole ad affrontare
l’inferno di una vita quotidiana in terra straniera. Donne che hanno
sgranato la litania degli abbandoni, delle malattie, delle umiliazioni,
ma che con il loro corazón, che sempre batte nei tempi buoni e in
quelli cattivi, hanno salvato i figli e i figli dei figli. La Pariani
con appassionata partecipazione riannoda i fili del destino di queste
donne, gli sconosciuti sacrifici, la lotta per la sopravvivenza, le
delusioni e le solitudini, le sconfitte e i lutti.
In
particolare si sofferma sul dramma delle mogli che hanno avuto i mariti
desaparecidos negli anni crudeli della dittatura militare. Eppure da
questa montagna di tristezze e di dolori si libera una speranza, quella
di un Dio che non ci abbandona, entra ballando nelle nostre vite: «Sentendo
che col rosa del cielo la vita si ricompone - nei suoi occhi, altri
occhi, che contano i tredici colori necessari per fare una buona mattina
- mentre tangheggiando Dio fa la sua entrata nel nuovo giorno con un
volteggio da ballerino consumato». E’ il brano finale del libro e
dell’ultima vicenda dove la protagonista, alla quale è stato portato
via dai plotoni della morte il marito, ripensando all’allegro
tangabile che lui le suonava al violoncello, ricupera la capacità di
guardare avanti. Di sperare e di rimanere unita per sempre al suo uomo
scomparso.
Gemito
e ballo, sofferenza e felicità. Non solo nelle vicende narrate dalla
Pariani e nel dramma dell’Argentina che ha ricominciato a gemere per
la crisi economica e lo sconquasso sociale, ma anche in tanti altri
angoli del mondo dove il gemito è un coro di lamenti che arrivano da
bambini, donne, anziani, vittime di guerre, carestie, emarginazioni,
tradimenti pubblici e privati. Ma dove, spesso, proprio da questa
immensa sofferenza fioriscono la musica, il canto, il ballo. Una mia
carissima amica, Chiara Castellani, eroico medico di frontiera (ha perso
un braccio in un incidente automobilistico, ma non ha voluto abbandonare
la sua missione) nella foresta delle Repubblica Democratica del Congo,
dove dirige un ospedale senza acqua e senza luce, affollato da
un’umanità crocifissa, mi raccontava che i suoi amici congolesi,
ultimi fra gli ultimi, pur piagati dalla fame, dalla malattie e da tante
altre miserie, creano di continuo musica. Sono diventati i maggiori
esportatori di musica africana nel mondo e affidano alle loro canzoni,
sentimenti e speranza, la gioia di sentirsi figli di un Dio padre e
madre. Nell’attesa che il mondo si accorga di loro.
Nella
pampa argentina, dove il vento raggiunge 120 chilometri orari e
d’inverno la temperatura scende sotto i trenta gradi, un’altra mia
amica, missionaria laica, Rita Comiotto, ogni settimana con la sua jeep
percorre centinaia di chilometri per raggiungere gli indios che vivono
in uno stato di totale indigenza in baracche che assomigliano ad antri.
Rita mi ha confessato il suo stupore nel vedere come persone tanto
provate dalla sofferenza, madri che non riescono a salvare i loro bimbi
denutriti perché i soccorsi non arrivano mai in tempo, ammalati che
muoiono perché non è possibile trasportarli all’ospedale, riescano
non solo sempre a sorridere, ma a trovare sollievo alla loro opprimente
condizione attraverso canti e danze, ringraziamenti a quel Dio che fa
sorgere ogni giorno il sole e ha creato le meraviglie dell’universo.
Nella loro saggezza antica e nella loro fede incandescente di «beati
evangelici» hanno capito che il gemito, se non riesce a trovare la
strada per sollevare gli occhi al cielo, per aprirsi alla speranza,
diventa un abisso buio che tutto ingoia.
Quando
sono stata nelle missioni del Madagascar ho visto donne, uomini e bambini, dopo una settimana di stenti, di
fame e di paure, danzare nella Messa domenicale con una partecipazione e
un trasporto che arrivavano direttamente dal cuore della loro
sofferenza. A Korogoco, bidonville spietata e crudele di Nairobi, dove
metà degli abitanti hanno l’Aids, durante le Messe celebrate da Alex
Zanotelli, il comboniano che si consuma per difendere i diritti di
coloro che non hanno voce, ho visto una folla di umiliati ed offesi
trasformarsi in una comunità esultante, avvicinarsi con passo danzante
all’altare per partecipare all’eucarestia delle proprie pene e
crocifissioni con l’eleganza e la spontaneità di chi è in armonia
con la propria identità.
Sono
queste testimonianze di persone che non hanno mai letto il Qohelet, ma
lo vivono nella propria carne e nel proprio spirito, che abitano con
rassegnazione e dignità il tempo del gemito e del pianto, ma vivono con
pienezza e trasporto anche quello della danza e della letizia, ad
aiutarci ad entrare nel misterioso legame che esiste fra la sofferenza e
la gioia. Perché questi due momenti così diversi fra di loro si
nutrano a vicenda, legati da una contrapposizione che diviene unità e
completezza, non riusciremo mai umanamente a capirlo. Ma trascinati da
questi richiami che ci giungono dalla folla delle Beatitudini tentiamo
di vivere queste due condizioni del destino umano nella profondità dei
loro richiami, con lo sguardo nello sguardo di Dio. Allora forse ci
riveleranno segreti utili per vivere e per sperare.
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