n. 6 giugno 2002

 

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L'INTERVISTA

San Vittore
nelle parole di Suor Emma Paola Segalini

di Rita Salerno

 

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“Una volta ho conosciuto un giovane drogato. Una di quelle persone che non ti molla mai. Assillante come una zecca. A un primo sommario giudizio, uno che non ti arricchisce e che tu non sei in grado di arricchire, perché ripeteva ostinatamente sempre le stesse cose. In una parola, coglievi una sensazione di vuoto. Per questo decisi di non cercarlo più. Pensai che, quando avrebbe avuto qualcosa da dirmi, mi avrebbe chiamato lui. E’ stata la prima volta che ho rifiutato di avviare un dialogo con una persona. E non accadrà mai più. Qualche mese dopo mi sono imbattuta in una sua richiesta di colloquio. L’ho cercato per sapere di che cosa avesse bisogno e con mia grande meraviglia mi spiegò di averlo fatto solo per sapere notizie sul precario stato di salute dei miei genitori. Mi raccontò di aver pregato per loro. Io mi sono sentita un verme”. 

Una lezione che suor Emma Paola Segalini, della congregazione delle Suore di Maria Bambina, non dimenticherà mai. Suor Emma Paola svolge il suo ministero in un ambiente non facile: quello del carcere. Ne parla con passione e con pudore di chi non vuol mettersi in mostra, proprio come chi è avvezzo da sempre a questa realtà. Un “microcosmo nel macrocosmo”, come lei stessa definisce gli istituti di pena, un mondo che conosce bene con il quale è entrata a contatto più di venticinque anni. La religiosa, infatti, è una delle tante assistenti volontarie, questo il suo ruolo, che consacrano la loro vita al servizio di chi vive tra le sbarre. Non solo per portare il Vangelo tra chi è nei guai con la giustizia. Perché parlare di Dio non è facile e quasi mai avviene al primo contatto. Ma per essere un balsamo con la propria vicinanza a uomini sottoposti a un regime detentivo fisico e spirituale. Sono forti le motivazioni che stanno alla base di una scelta di vita religiosa come questa. Significa sentirsi Chiesa con i detenuti, con le guardie carcerarie, con gli operatori coinvolti a vario titolo nel penitenziario. “E’ un mondo non molto diverso da quello di chi vive fuori” – racconta la Segalini che è, tra l’altro, una stretta collaboratrice di monsignor Giorgio Caniato a capo dell’ispettorato generale dei cappellani – c’è il diffidente e l’estroverso, il superficiale e il curioso. Con una differenza rispetto all’esterno: il legame tra queste persone non è una loro libera scelta ma è imposto da altri. La difficoltà nasce dalla struttura più che dall’uomo. E la struttura non facilita i rapporti erigendo una serie di paletti nel dialogo tra le parti. Ma quando, finalmente, si riesce ad avere un colloquio ci si rende subito conto che non esistono ostacoli o differenze se non nelle nostre teste. Siamo di fronte a un uomo, non a un carcerato: questo è lo spirito giusto per affrontare la situazione. Si pensa sempre a poverini vittime di errori giudiziari o nel peggiore dei casi a criminali per i quali il minimo è buttare la chiave della cella in cui sono rinchiusi. Ma non è questa la soluzione giusta”.

 

Questo è il suo convincimento di oggi, forte di un’esperienza lunga venticinque anni e passa. Ma quando è entrata la prima volta? Con quale atteggiamento si è avvicinata a questo mondo?

“Io sono stata abbastanza incosciente perché nel ‘77, in base dell’articolo 78, il mio era ed è un impegno di natura morale che consiste nel fornire un sostegno spirituale a queste persone. Io non mi sono posta domande di come affrontare i dubbi e le domande dei detenuti. Mi dissi semplicemente che avrei dato aiuto a chi me l’avesse chiesto, nei limiti delle possibilità offerte dalla situazione. Con uno stato d’animo sereno. Fino ad allora le mie esperienze si limitavano a un liceo per ragazze e adolescenti. Una realtà completamente diversa. E’ chiaro che piombare in un’altra nuova in tutto e per tutto, all’inizio non è stato facile. Anche perché non c’è preparazione che tenga. Ma tutte le tensioni che si possono accumulare in un primo momento, sono destinate a sciogliersi come neve al sole non appena entri in dialogo con la persona che ti sta di fronte. Si tratta di un uomo che muore dal desiderio di parlare con l’assistente volontaria. La mia difficoltà non sta nel ‘cosa dirò?’, semmai è nel ‘come so ascoltare?’. È un altro approccio. Poi magari può capitare di non essere in grado di esaudire una richiesta d’aiuto. Ma quel che conta è che ti sei messo in ascolto del tuo fratello che ha bisogno. Non è poco”.

 

Non le capita mai la persona decisa a chiudersi in un silenzio carico di sofferenza?

“Veramente sono loro a chiedere di parlare con me. Ad eccezione di quelle poche persone che mi sono già segnalate dall’esterno. Diversamente io incontro chi ha fatto una richiesta. E non è infrequente che l’uomo dinanzi a me non abbia preghiere da sottoporre. Ma solo una grande voglia di parlare e così facendo è uscito dalla cella. Di colloquio in colloquio prende forma non dico un’amicizia che è una parola un pò grossa, visto che il dialogo ha una connotazione tutta particolare. Anche se in alcuni casi nasce qualcosa di simile. Quel che è certo è che, da subito, si stabilisce una corrente di simpatia. Perché chi sta dall’altra parte ha una sensibilità tutta particolare nel recepirla. Si affronta con la voglia di capire e di far emergere il lato buono della persona che è sommerso. A volte è la persona stessa a meravigliarsi dei tratti positivi della sua personalità che erano completamente schiacciate”.

 

E’ a questo punto che lei inizia a parlare di Dio?

“Non sempre. Bisogna tenere presente che tra queste persone non sono molte quelle cattoliche praticanti. La maggior parte si ritengono non credenti o nel migliore dei casi, atei. Io fin dall’inizio non mi sono presentata mai in divisa perché avevo compreso che la mia scelta avrebbe potuto generare strumentalizzazioni e dunque, condizionamenti. Ho preferito la tattica del cominciare a conoscerci da persone, come tutte le altre. Che poi si riveleranno per quello che sono. Non bisogna dimenticare che, oltre ad evangelizzare, dietro ognuno di loro c’è un itinerario da rispettare. A me piace pensare che ogni uomo ha un suo cammino che lo porta a Dio. Dio si rivela alle persone secondo un suo disegno imperscrutabile. Il mio compito è quello di affiancare quest’uomo nel suo cammino, dicendo anche cose che non sa e che potranno essere per lui consolatorie, ma non mi propongo subito come portatrice della parola di Dio”.

 

Da questo punto di vista, le sorprese non sono mancate…..

“Sicuramente. Penso, ad esempio, ai ragazzi di strada di cui si parla tanto. Ogni volta è come avere davanti una tabula rasa. Un substrato fatto di niente per ragazzi che già a quindici anni hanno sperimentato di tutto, a cominciare dal riformatorio. Con loro bisogna andare con il contagocce, instillando poco per volta. Non basta la pazienza. Devi attingere alla tua intelligenza amorosa. Voglio dire che devi capirlo affettuosamente. Se tu non gli vuoi bene, lui lo sente. E allora cala il freddo nel rapporto. L’importante è essere autentici, spontanei nel fare un tratto di strada insieme”.

Ogni giorno per lei è stata una lezione di vita che le ha permesso di conoscere meglio se stessa, non è vero?

“Non penso che si debba scoprire in noi delle ricchezze. Piuttosto, le nostre debolezze. Perché se io mi rendo conto delle mie lacune, sono anche in grado di accettare l’altro che fatica a camminare nel bene a causa delle proprie mancanze. Monsignor Canovai, che io amo citare, era solito dire: ‘prendi il poco che sono, dammi il tutto che sei’. Noi diamo le briciole agli altri. E questo vale per tutti.”

 

Ha vissuto gli anni bui del terrorismo e di tangentopoli…

“Il carcere è una lezione di vita che scuote, che fa saltare gli schemi preordinati di una vita. È un luogo dove si torna a essere umili. Che ti fa capire che la famosa livella esiste, specie quando devi chiedere un francobollo in prestito al tuo compagno di cella perché non disponi del sostegno economico che ti viene dall’esterno. Siamo tutti precari. Peccato che ce ne dimentichiamo spesso”.

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