 |
 |
 |
 |
“Una
volta ho conosciuto un giovane drogato. Una di quelle persone che non ti
molla mai. Assillante come una zecca. A un primo sommario giudizio, uno
che non ti arricchisce e che tu non sei in grado di arricchire, perché
ripeteva ostinatamente sempre le stesse cose. In una parola, coglievi
una sensazione di vuoto. Per questo decisi di non cercarlo più. Pensai
che, quando avrebbe avuto qualcosa da dirmi, mi avrebbe chiamato lui.
E’ stata la prima volta che ho rifiutato di avviare un dialogo con una
persona. E non accadrà mai più. Qualche mese dopo mi sono imbattuta in
una sua richiesta di colloquio. L’ho cercato per sapere di che cosa
avesse bisogno e con mia grande meraviglia mi spiegò di averlo fatto
solo per sapere notizie sul precario stato di salute dei miei genitori.
Mi raccontò di aver pregato per loro. Io mi sono sentita un verme”.
Una lezione che suor
Emma Paola Segalini, della congregazione delle Suore di Maria Bambina,
non dimenticherà mai. Suor Emma Paola svolge il suo ministero in un
ambiente non facile: quello del carcere. Ne parla con passione e con
pudore di chi non vuol mettersi in mostra, proprio come chi è avvezzo
da sempre a questa realtà. Un “microcosmo nel macrocosmo”, come lei
stessa definisce gli istituti di pena, un mondo che conosce bene con il
quale è entrata a contatto più di venticinque anni. La religiosa,
infatti, è una delle tante assistenti volontarie, questo il suo ruolo,
che consacrano la loro vita al servizio di chi vive tra le sbarre. Non
solo per portare il Vangelo tra chi è nei guai con la giustizia. Perché
parlare di Dio non è facile e quasi mai avviene al primo contatto. Ma
per essere un balsamo con la propria vicinanza a uomini sottoposti a un
regime detentivo fisico e spirituale. Sono forti le motivazioni che
stanno alla base di una scelta di vita religiosa come questa. Significa
sentirsi Chiesa con i detenuti, con le guardie carcerarie, con gli
operatori coinvolti a vario titolo nel penitenziario. “E’ un mondo
non molto diverso da quello di chi vive fuori” – racconta la
Segalini che è, tra l’altro, una stretta collaboratrice di monsignor
Giorgio Caniato a capo dell’ispettorato generale dei cappellani –
c’è il diffidente e l’estroverso, il superficiale e il curioso. Con
una differenza rispetto all’esterno: il legame tra queste persone non
è una loro libera scelta ma è imposto da altri. La difficoltà nasce
dalla struttura più che dall’uomo. E la struttura non facilita i
rapporti erigendo una serie di paletti nel dialogo tra le parti. Ma
quando, finalmente, si riesce ad avere un colloquio ci si rende subito
conto che non esistono ostacoli o differenze se non nelle nostre teste.
Siamo di fronte a un uomo, non a un carcerato: questo è lo spirito
giusto per affrontare la situazione. Si pensa sempre a poverini vittime
di errori giudiziari o nel peggiore dei casi a criminali per i quali il
minimo è buttare la chiave della cella in cui sono rinchiusi. Ma non è
questa la soluzione giusta”.
Questo
è il suo convincimento di oggi, forte di un’esperienza lunga
venticinque anni e passa. Ma quando è entrata la prima volta? Con quale
atteggiamento si è avvicinata a questo mondo?
“Io sono stata
abbastanza incosciente perché nel ‘77, in base dell’articolo 78, il
mio era ed è un impegno di natura morale che consiste nel fornire un
sostegno spirituale a queste persone. Io non mi sono posta domande di
come affrontare i dubbi e le domande dei detenuti. Mi dissi
semplicemente che avrei dato aiuto a chi me l’avesse chiesto, nei
limiti delle possibilità offerte dalla situazione. Con uno stato
d’animo sereno. Fino ad allora le mie esperienze si limitavano a un
liceo per ragazze e adolescenti. Una realtà completamente diversa. E’
chiaro che piombare in un’altra nuova in tutto e per tutto,
all’inizio non è stato facile. Anche perché non c’è preparazione
che tenga. Ma tutte le tensioni che si possono accumulare in un primo
momento, sono destinate a sciogliersi come neve al sole non appena entri
in dialogo con la persona che ti sta di fronte. Si tratta di un uomo che
muore dal desiderio di parlare con l’assistente volontaria. La mia
difficoltà non sta nel ‘cosa dirò?’, semmai è nel ‘come so
ascoltare?’. È un altro approccio. Poi magari può capitare di non
essere in grado di esaudire una richiesta d’aiuto. Ma quel che conta
è che ti sei messo in ascolto del tuo fratello che ha bisogno. Non è
poco”.
Non
le capita mai la persona decisa a chiudersi in un silenzio carico di
sofferenza?
“Veramente sono loro
a chiedere di parlare con me. Ad eccezione di quelle poche persone che
mi sono già segnalate dall’esterno. Diversamente io incontro chi ha
fatto una richiesta. E non è infrequente che l’uomo dinanzi a me non
abbia preghiere da sottoporre. Ma solo una grande voglia di parlare e
così facendo è uscito dalla cella. Di colloquio in colloquio prende
forma non dico un’amicizia che è una parola un pò grossa, visto che
il dialogo ha una connotazione tutta particolare. Anche se in alcuni
casi nasce qualcosa di simile. Quel che è certo è che, da subito, si
stabilisce una corrente di simpatia. Perché chi sta dall’altra parte
ha una sensibilità tutta particolare nel recepirla. Si affronta con la
voglia di capire e di far emergere il lato buono della persona che è
sommerso. A volte è la persona stessa a meravigliarsi dei tratti
positivi della sua personalità che erano completamente schiacciate”.
E’
a questo punto che lei inizia a parlare di Dio?
“Non sempre. Bisogna
tenere presente che tra queste persone non sono molte quelle cattoliche
praticanti. La maggior parte si ritengono non credenti o nel migliore
dei casi, atei. Io fin dall’inizio non mi sono presentata mai in
divisa perché avevo compreso che la mia scelta avrebbe potuto generare
strumentalizzazioni e dunque, condizionamenti. Ho preferito la tattica
del cominciare a conoscerci da persone, come tutte le altre. Che poi si
riveleranno per quello che sono. Non bisogna dimenticare che, oltre ad
evangelizzare, dietro ognuno di loro c’è un itinerario da rispettare.
A me piace pensare che ogni uomo ha un suo cammino che lo porta a Dio.
Dio si rivela alle persone secondo un suo disegno imperscrutabile. Il
mio compito è quello di affiancare quest’uomo nel suo cammino,
dicendo anche cose che non sa e che potranno essere per lui
consolatorie, ma non mi propongo subito come portatrice della parola di
Dio”.
Da
questo punto di vista, le sorprese non sono mancate…..
“Sicuramente. Penso,
ad esempio, ai ragazzi di strada di cui si parla tanto. Ogni volta è
come avere davanti una tabula rasa. Un substrato fatto di niente per
ragazzi che già a quindici anni hanno sperimentato di tutto, a
cominciare dal riformatorio. Con loro bisogna andare con il contagocce,
instillando poco per volta. Non basta la pazienza. Devi attingere alla
tua intelligenza amorosa. Voglio dire che devi capirlo affettuosamente.
Se tu non gli vuoi bene, lui lo sente. E allora cala il freddo nel
rapporto. L’importante è essere autentici, spontanei nel fare un
tratto di strada insieme”.
Ogni giorno per lei
è stata una lezione di vita che le ha permesso di conoscere meglio se
stessa, non è vero?
“Non penso che si
debba scoprire in noi delle ricchezze. Piuttosto, le nostre debolezze.
Perché se io mi rendo conto delle mie lacune, sono anche in grado di
accettare l’altro che fatica a camminare nel bene a causa delle
proprie mancanze. Monsignor Canovai, che io amo citare, era solito dire:
‘prendi il poco che sono, dammi il tutto che sei’. Noi diamo le
briciole agli altri. E questo vale per tutti.”
Ha
vissuto gli anni bui del terrorismo e di tangentopoli…
“Il carcere è una
lezione di vita che scuote, che fa saltare gli schemi preordinati di una
vita. È un luogo dove si torna a essere umili. Che ti fa capire che la
famosa livella esiste, specie quando devi chiedere un francobollo in
prestito al tuo compagno di cella perché non disponi del sostegno
economico che ti viene dall’esterno. Siamo tutti precari. Peccato che
ce ne dimentichiamo spesso”.
 |