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Supplemento
 n°1 del 2001

 

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Di notte con Giacobbe al guado del fiume
Il Dio fedele provoca a una lotta che si risolve in benedizione
Lectio divina
Gn 32, 25-33
di Maria Pia giudici

 

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 La lotta con Dio

25Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. 26Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27Quegli disse: "Lasciami andare perché è spuntata l’aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto". 28Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". 29Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!". 30Giacobbe allora gli chiese: "Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel "Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". 32Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. 33Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

Dal cap. 28 al 36, Genesi racconta vivacemente di Giacobbe che, mandato dal padre Isacco presso Labano, fratello di sua madre, più volte fa esperienza di Dio.

Le promesse del Dio fedele che, stretta Alleanza con il suo popolo, conduce la storia al suo punto focale la nuova ed eterna siglata dal sangue di Gesù passano anche attraverso di lui.

In questo brano vediamo Giacobbe nella notte al guado del fiume Jabbok, coinvolto in un’incredibile lotta con Dio.

Contesto

Come per Abramo, anche per Giacobbe la vita non è facile. Il suo andare e rimanere presso lo zio Labano da cui riceve in sposa prima Lia e poi Rachele, comporta il dover far fronte alle astuzie di Labano che, contro la sua volontà, gli fa prendere in moglie Lia prima di concedergli Rachele, l’altra sua figlia, quella che Giacobbe veramente ama. Anche a proposito del lavoro di pastorizia perseguito onestamente sorgono diverse difficoltà, tanto che Giacobbe decide di fuggire da Labano che gli è divenuto nemico e di tornare nella terra di suo padre con le mogli, le schiave, i figli e il bestiame. Labano lo insegue, cerca di vantar ragioni contro di lui, ma poi si riappacifica.

Le peripezie non sono però finite perché Giacobbe teme l’incontro col fratello Esaù. Decide, nottetempo, il passaggio del fiume Jabbok: un transito di frontiera che lo immetterà definitivamente nella sua terra, ma ancora in pericolo.

Ecco, egli fa passare le donne con i bambini, con le greggi e con tutti i suoi averi.

Lui solo, nella notte, non passa il guado: qualcuno sembra trattenerlo a forza.

Gli esegeti sono d’accordo nell’identificare Dio in questo misterioso personaggio e nel ritenere importantissimo questo episodio in cui il Signore cambia il nome e la vita a Giacobbe.

Anche l’ambientazione è indicativa. Si tratta di guadare le acque infide del fiume. Ed è notte. Incombe su Giacobbe il mistero.

Leggo approfondendo

v. 25 "Giacobbe Rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell’aurora".
Di notte, lungo il fiume, in solitudine, Giacobbe è affrontato da un personaggio sconosciuto. Il testo non usa più poi il termine uomo, ma solo il pronome di terza persona singolare che meglio rende l’atmosfera di mistero di cui è pervaso tutto l'episodio. Da notare che il termine ebraico "abaq" viene usato per "lottò" solo in questo passo. Importante! Unico infatti è questo tipo di lotta che è lotta con Dio.
v. 26

 "Vedendo che non riusciva a vincerlo lo colpì all'articolazione".
Il personaggio avvolto nel mistero si fa intrattenere da Giacobbe e nell'impari lotta lo colpisce all'anca. E' una sorta di gioco sovrumano questo coinvolgere l'uomo Giacobbe nella lotta della prova e della tentazione in cui, nella fede, egli, per così dire, tiene fronte a Dio, mentre da lui viene ferito perché diventi cosciente della sua creaturalità in ricerca dell'Assoluto, ma con fatica, con pena.

v. 27

"Quegli disse: "Lasciami andare". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, finché non mi avrai benedetto".
Inizia qui un dialogo serrato, di un’intensità e profondità abissali.
Agostino interpreta "Lasciami andare" rispetto a una comprensione solo carnale; "albeggia" , cioè non credermi uomo e guarda alla Luce vera (Gesù) per la quale tutte le cose sono state fatte. Di questa Luce vera godrai quando sarà passata la notte di questo secolo e verrà il Signore, poiché "ora vediamo come in uno specchio in modo confuso; allora, invece, faccia a faccia".
Giacobbe, chiedendo arditamente la benedizione a Colui col quale sta lottando, mostra di aver ben capito chi Egli sia!

vv. 28-30 

Gli domandò: "Come ti chiami? Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele perché hai combattuto con Dio e con gli uomini".
Il nuovo nome, indicativo della natura e della missione di colui che lo porta, segna una grande svolta nella vita di Giacobbe. E' infatti in ordine alla lotta che dovranno sostenere i suoi discendenti, come lui vittoriosi a causa di Dio, che Egli ottiene di essere benedetto. E la benedizione è quella del Dio fedele. Egli manterrà la promessa fatta ad Abramo fino a mandare Cristo che, prendendo carne dalla sua discendenza, sostituirà la maledizione antica con la benedizione, cioè la grazia dello Spirito Santo ottenuta dalla sua Passione e Morte.
Da notare: Dio qui non dice il suo nome che è misterioso e ineffabile come la sua Presenza.

vv. 31-33 "Giacobbe chiamò quel luogo Penuel (...). Spuntava il sole... Giacobbe zoppicava".
Penuel significa "volto di Dio". Interessante che nel testo originale, ai versi 21-22 si insista sulla parola "volto" (panè) quasi a preparare questa teofania in cui il volto di Dio prende misteriosamente volto d'uomo, quasi ad anticipare - dicono i Padri - il fatto centrale della storia; il Verbo che si fa uomo.
S. Agostino scrive: "L’unico Giacobbe è zoppo e benedetto. Zoppo in quei suoi discendenti di cui è detto: zoppicavano dalle loro vie (Sl 17,46), benedetto in coloro di cui è scritto: Un resto è stato salvato per elezione di grazia (Rm 11,5).
Giacobbe Israele è dunque ancora oggi benedetto in quelli che vivono bene, zoppica in quelli che vivono male.

Medito attualizzando

Giacobbe al guado del fiume Jabbok è nella notte. Dio lo afferra e lo coinvolge in una lotta che dura fino allo spuntar del sole. E' un'immagine del nostro essere stati afferrati da Dio, presi nel suo mistero, nella notte del nostro tempo e della nostra realtà esistenziale.

Capirlo a fondo vuol dire entrare "vivi" nel mistero della nostra chiamata.

Nella notte una voce: la voce del "Diletto" (cf Ct 2,8) anzitutto ci chiama a "durarla" nel dare il primo posto alla preghiera, nelle nostre giornate.

C’è nel cuore dell’uomo un’arsura di Dio, come una lancinante ferita. E’ il senso della nostra creaturalità assolutamente bisognosa di Lui.

Si tratta di dare la risposta pertinente che è anzitutto preghiera. E così per tutti: tanto più per chi ha "deciso nel suo cuore il santo viaggio" (Sl 13,6).

Ma le condizioni socioculturali oggi sembrano tacitare questo bisogno fondamentale.

Come se le urgenze della carità, della solidarietà, dell’annuncio del Regno fossero così forti e impellenti da imporre di sostituire la preghiera o almeno di restringerla, affrettarla, darla per scontata. Ed è confusione notturna soprattutto in questo equivoco!

No. Proprio queste "urgenze", solo se vengono assunte da un cuore reso saldo in una fede-fiducia, e illimpidito fino a essere trasparenza della sua misericordia, trovano vera udienza e realizzazione efficace. Perché solo le energie di Dio, veicolate dallo Spirito nella persona di chi prega, reggono alle difficoltà, le superano e portano a buon compimento l’azione caritativa apostolica pastorale. Se no, tutto si disperde e vanifica nella notte di camuffati egoismi.

Come per Giacobbe anche per noi spesso è notte e siamo soli. Credere che il Signore è presente, anche quando tutto attorno a noi e in noi sembra negarlo è l’inizio del nostro pregare, profondamente saldato a un esercizio di fede, per così dire, notturna.

E questa preghiera diverrà, a poco a poco, pace profonda di tutto l’essere, diverrà unificazione delle giornate e dell’intera vita: ma anzitutto deve essere decisione di "passare il guado" della mentalità accomodante e mondana. Ed è lotta. Sì, lotta con Dio.

E’ Dio infatti che mi costringe a darmi una disciplina perché la mia preghiera abbandonata o alla ripetitività delle cosiddette "pratiche di pietà" o all’improvvisazione, non si incenerisca nell’abitudine senza cuore e non si svuoti nel pressappochismo superficiale ed edonistico.

Oltre agli orari comuni è dunque necessario che io mi alleni a pregare in tempi e spazi personali.

Se voglio che la recitazione comunitaria dei salmi e delle preghiere diventi preghiera-respiro che nutre il mio cuore, bisogna che io preghi personalmente soprattutto la parola di Dio. Dico "pregare" che non è solo riflettere sul testo sacro! Pregare a lungo sul respiro un versetto salmico, pregare un’espressione del Vangelo o di San Paolo, quanta forza può darmi!

Preghiera come lotta è da intendersi anche in ordine a quelle continue scelte da farsi lungo la giornata. Se voglio che il mio cuore sia disposto a entrare nel mistero di Dio, a contattare la sua Presenza d’Amore e la Sua Parola di vita, bisogna che io vigili su di esso, dando con forza lo sfratto a situazioni di non perdono, a irritazioni, amarezze, sotterfugi.

C’è un’osmosi tra preghiera e vita: l’una cambia e migliora l’altra. "La vita è plasmata dalla preghiera e la preghiera è la quintessenza della vita" (A. Joheschel).

Come Giacobbe, lotterò con Dio per ottenere la benedizione: quella che anzitutto pacifica me e mi rende suo strumento di carità e di annuncio.

Bisogna però che, come lui, mi lasci ferire, non tanto all’anca quanto nel mio intimo, nel cuore.

Così la nostalgia di Dio sarà una cosa sola con me stessa e non mi permetterà di essere intrappolata nelle cose della terra, e la mentalità mondana non inquinerà il mio modo di rapportarmi a Lui, alla comunità, ai fratelli.

Dio, come Giacobbe, non mi darà il suo nome, cioè non etichetterà il suo mistero, non mi permetterà di banalizzarlo, ma mi benedirà perché io possa trasformare il quotidiano in una vita "con Dio", la sola che diventa utile anche ai fratelli.

Si legge, negli apoftegmi che un tale andò nel deserto per vedere i Padri. Non soddisfatto della sua curiosità, chiese a chi l’accompagnava: "Non vedo Abbà Antonio. Dov’è? Gli fu risposto: "Abbà Antonio è sempre là dov’è Dio".

Proprio da Antonio andavano ogni anno alcuni monaci per sottoporgli domande circa la vita con Dio. Uno però sempre taceva. Gli chiese Antonio: "E tu che vuoi?". "Mi basta vederti" fu la risposta.

Sulla Parola la mia preghiera

  • Lascio entrare in me il senso del mistero visualizzando una notte profonda e un fiume da passare a guado. Mi aiuto col salmo15: "Proteggimi o Dio, in te mi rifugio, ecc." intervallando le strofe con pause di silenzio. Invoco lo Spirito di Dio. Chiedo di cogliere, nella Fede, la grande Presenza.

  • Lascio poi emergere dalla mia interiorità, percepita come notte, le ragioni di tentazione e di lotta che sono nel mio vissuto: forse scontento di me, dell’ambiente in cui vivo, tentazione di giudicare gli altri, di ribellarmi a situazioni contraddittorie e di fatica, desiderio di accontentare in qualunque modo il bisogno di autoaffermazione, con disagio e sconfitta degli altri, bisogno di consensi e gratificazioni affettive, ecc.

  • Divenuta preghiera: "Signore guardo lucidamente in faccia queste cose. Le chiamo per nome e le afferro dentro il "giudizio" della Parola, lotta con me nella notte finché siano passate le tenebre. Aiutami ad astenermi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima (cf 1Pt 1,11); aiutami a fare del bene senza sperare nulla, ad essere benevole con gli ingrati, ad amare e a benedire quanti mi sono di ostacolo (cf Lc 6, 27-38) donec dies elucescat, finché trionfi il sole dell’amore in me, nella mia comunità, nel nostro essere Chiesa al guado del fiume, in questa svolta della storia.

  • Ascolto ora nel cuore l’augurio-preghiera di Paolo a Timoteo: "Grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostra speranza" (1Ts 1,2). Passo del tempo in quiete contemplativa aprendo tutti i canali del mio essere, perché penetri in me l’onda della grazia, della misericordia, della pace. Chiedo di sentirmi rigenerata, vivificata, di essere "figlia della luce", "figlia del giorno" in corrente sequela di chi ha detto: "Io sono la LUCE del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre" (Gv 8,12).

  • Infine ascolto in cuore: "Rispondete benedicendo perché siete chiamati ad avere in eredità la benedizione" (1Pt 3,11). Passo il tempo a chiedere di essere ampiamente benedetta dal Signore. Poi richiamo alla memoria persone e situazioni che intendo a mia volta benedire. E soprattutto invoco che la mia stessa femminilità consacrata diventi vivente benedizione, sia abitando con pazienza questo nostro tempo difficile e pieno di notturne contraddizioni, sia accogliendo con amore ogni segno profetico fino a diventare io stesso profeta del giorno solare di Cristo.

Itinerari contemplativi

Al guado del fiume
in notte pervasa di mistero,
incontrarti non è subito gioia,
Signore.

Mi raggela intorno il sentirmi sola,
e le tenebre sono complici
del tuo ingaggiare con me una lotta,
dapprima senza scampo.

Ecco, ora mi hai ferito,
mi hai ferito all’anca;
e più non correrò nel mondo
pazzamente avida delle cose.

Ancora, ancora lotterò con Te,
finché spunti il giorno eterno,
e il tuo essermi "Luce vera"
dissipi in me le tenebre
del mio non veder rilucere la perla,
del mio non saper vendere tutto
per afferrare il tesoro.

Ecco, mi hai ferito, mi hai ferito all’anca,
ma io ti prego: feriscimi nel cuore,
perché perdutamente innamorata di te,
da te sia benedetta;
e, mentre spunta l’aurora
del mio divenir finalmente consapevole
del tuo essermi AMORE fedele per sempre,
io per tutti divenga, a mia volta, benedizione!

 

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