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La lotta con Dio
25Giacobbe rimase solo e
un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. 26Vedendo che non
riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e
l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a
lottare con lui. 27Quegli disse: "Lasciami andare perché è
spuntata l’aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se
non mi avrai benedetto". 28Gli domandò: "Come ti
chiami?". Rispose: "Giacobbe". 29Riprese: "Non ti
chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e
con gli uomini e hai vinto!". 30Giacobbe allora gli chiese:
"Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il
nome?". E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo
Penuel "Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la
mia vita è rimasta salva". 32Spuntava il sole, quando Giacobbe
passò Penuel e zoppicava all’anca. 33Per questo gli Israeliti, fino ad
oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del
femore di Giacobbe nel nervo sciatico.
Dal cap. 28 al 36, Genesi
racconta vivacemente di Giacobbe che, mandato dal padre Isacco presso
Labano, fratello di sua madre, più volte fa esperienza di Dio.
Le promesse del Dio
fedele che, stretta Alleanza con il suo popolo, conduce la storia al suo
punto focale – la nuova ed eterna siglata dal sangue di Gesù –
passano anche attraverso di lui.
In questo brano vediamo
Giacobbe nella notte al guado del fiume Jabbok, coinvolto in un’incredibile
lotta con Dio.
Contesto
Come per Abramo, anche
per Giacobbe la vita non è facile. Il suo andare e rimanere presso lo
zio Labano da cui riceve in sposa prima Lia e poi Rachele, comporta il
dover far fronte alle astuzie di Labano che, contro la sua volontà, gli
fa prendere in moglie Lia prima di concedergli Rachele, l’altra sua
figlia, quella che Giacobbe veramente ama. Anche a proposito del lavoro
di pastorizia perseguito onestamente sorgono diverse difficoltà, tanto
che Giacobbe decide di fuggire da Labano che gli è divenuto nemico e di
tornare nella terra di suo padre con le mogli, le schiave, i figli e il
bestiame. Labano lo insegue, cerca di vantar ragioni contro di lui, ma
poi si riappacifica.
Le peripezie non sono
però finite perché Giacobbe teme l’incontro col fratello Esaù.
Decide, nottetempo, il passaggio del fiume Jabbok: un transito di
frontiera che lo immetterà definitivamente nella sua terra, ma ancora
in pericolo.
Ecco, egli fa passare le
donne con i bambini, con le greggi e con tutti i suoi averi.
Lui solo, nella notte,
non passa il guado: qualcuno sembra trattenerlo a forza.
Gli esegeti sono d’accordo
nell’identificare Dio in questo misterioso personaggio e nel ritenere
importantissimo questo episodio in cui il Signore cambia il nome e la
vita a Giacobbe.
Anche l’ambientazione
è indicativa. Si tratta di guadare le acque infide del fiume. Ed è
notte. Incombe su Giacobbe il mistero.
Leggo approfondendo
v. 25 |
"Giacobbe Rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntar
dell’aurora".
Di notte, lungo
il fiume, in solitudine, Giacobbe è affrontato da un
personaggio sconosciuto. Il testo non usa più poi il termine
uomo, ma solo il pronome di terza persona singolare che meglio
rende l’atmosfera di mistero di cui è pervaso tutto
l'episodio. Da notare che il termine ebraico "abaq"
viene usato per "lottò" solo in questo passo.
Importante! Unico infatti è questo tipo di lotta che è lotta
con Dio. |
v. 26 |
"Vedendo
che non riusciva a vincerlo lo colpì all'articolazione".
Il personaggio
avvolto nel mistero si fa intrattenere da Giacobbe e nell'impari
lotta lo colpisce all'anca. E' una sorta di gioco sovrumano
questo coinvolgere l'uomo Giacobbe nella lotta della prova e
della tentazione in cui, nella fede, egli, per così dire, tiene
fronte a Dio, mentre da lui viene ferito perché diventi
cosciente della sua creaturalità in ricerca dell'Assoluto, ma
con fatica, con pena.
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v.
27
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"Quegli disse: "Lasciami andare". Giacobbe
rispose: "Non ti lascerò, finché non mi avrai
benedetto".
Inizia qui un dialogo
serrato, di un’intensità e profondità abissali.
Agostino
interpreta "Lasciami andare" rispetto a una
comprensione solo carnale; "albeggia" , cioè non
credermi uomo e guarda alla Luce vera (Gesù) per la
quale tutte le cose sono state fatte. Di questa Luce vera godrai
quando sarà passata la notte di questo secolo e verrà il
Signore, poiché "ora vediamo come in uno specchio
in modo confuso; allora, invece, faccia a faccia".
Giacobbe, chiedendo arditamente
la benedizione a Colui col quale sta lottando, mostra di aver
ben capito chi Egli sia!
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vv. 28-30 |
Gli
domandò: "Come ti chiami? Non ti chiamerai più
Giacobbe, ma Israele perché hai combattuto con Dio e con gli
uomini".
Il nuovo nome,
indicativo della natura e della missione di colui che lo porta,
segna una grande svolta nella vita di Giacobbe. E' infatti in
ordine alla lotta che dovranno sostenere i suoi discendenti,
come lui vittoriosi a causa di Dio, che Egli ottiene di
essere benedetto. E la benedizione è quella del
Dio fedele. Egli manterrà la promessa fatta ad Abramo fino a
mandare Cristo che, prendendo carne dalla sua discendenza,
sostituirà la maledizione antica con la benedizione, cioè la
grazia dello Spirito Santo ottenuta dalla sua Passione e Morte.
Da notare: Dio
qui non dice il suo nome che è misterioso e ineffabile come la
sua Presenza.
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vv. 31-33 |
"Giacobbe chiamò quel luogo Penuel (...). Spuntava il sole...
Giacobbe zoppicava".
Penuel significa
"volto di Dio". Interessante che nel testo
originale, ai versi 21-22 si insista sulla parola
"volto" (panè) quasi a preparare questa teofania in cui il volto di
Dio prende misteriosamente volto d'uomo, quasi ad anticipare -
dicono i Padri - il fatto centrale della storia; il Verbo che si
fa uomo.
S. Agostino scrive:
"L’unico Giacobbe è zoppo e benedetto. Zoppo in quei suoi
discendenti di cui è detto: zoppicavano dalle loro vie (Sl 17,46),
benedetto in coloro di cui è scritto: Un resto è stato salvato
per elezione di grazia (Rm 11,5).
Giacobbe Israele è
dunque ancora oggi benedetto in quelli che vivono bene, zoppica in
quelli che vivono male.
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Medito attualizzando
Giacobbe al guado del
fiume Jabbok è nella notte. Dio lo afferra e lo coinvolge in una
lotta che dura fino allo spuntar del sole. E' un'immagine del nostro
essere stati afferrati da Dio, presi nel suo mistero, nella notte del
nostro tempo e della nostra realtà esistenziale.
Capirlo a fondo vuol dire
entrare "vivi" nel mistero della nostra chiamata.
Nella notte una voce: la
voce del "Diletto" (cf Ct 2,8) anzitutto ci chiama a
"durarla" nel dare il primo posto alla preghiera, nelle nostre
giornate.
C’è nel cuore dell’uomo
un’arsura di Dio, come una lancinante ferita. E’ il senso della
nostra creaturalità assolutamente bisognosa di Lui.
Si tratta di dare la
risposta pertinente che è anzitutto preghiera. E così per tutti: tanto
più per chi ha "deciso nel suo cuore il santo viaggio" (Sl
13,6).
Ma le condizioni
socioculturali oggi sembrano tacitare questo bisogno fondamentale.
Come se le urgenze della
carità, della solidarietà, dell’annuncio del Regno fossero così
forti e impellenti da imporre di sostituire la preghiera o almeno di
restringerla, affrettarla, darla per scontata. Ed è confusione notturna
soprattutto in questo equivoco!
No. Proprio queste
"urgenze", solo se vengono assunte da un cuore reso saldo in
una fede-fiducia, e illimpidito fino a essere trasparenza della sua
misericordia, trovano vera udienza e realizzazione efficace. Perché
solo le energie di Dio, veicolate dallo Spirito nella persona di chi
prega, reggono alle difficoltà, le superano e portano a buon compimento
l’azione caritativa apostolica pastorale. Se no, tutto si disperde e
vanifica nella notte di camuffati egoismi.
Come per Giacobbe anche
per noi spesso è notte e siamo soli. Credere che il Signore è
presente, anche quando tutto attorno a noi e in noi sembra negarlo è l’inizio
del nostro pregare, profondamente saldato a un esercizio di fede, per
così dire, notturna.
E questa preghiera
diverrà, a poco a poco, pace profonda di tutto l’essere, diverrà
unificazione delle giornate e dell’intera vita: ma anzitutto deve
essere decisione di "passare il guado" della mentalità
accomodante e mondana. Ed è lotta. Sì, lotta con Dio.
E’ Dio infatti che mi
costringe a darmi una disciplina perché la mia preghiera abbandonata o
alla ripetitività delle cosiddette "pratiche di pietà" o all’improvvisazione,
non si incenerisca nell’abitudine senza cuore e non si svuoti nel
pressappochismo superficiale ed edonistico.
Oltre agli orari comuni
è dunque necessario che io mi alleni a pregare in tempi e spazi
personali.
Se voglio che la
recitazione comunitaria dei salmi e delle preghiere diventi
preghiera-respiro che nutre il mio cuore, bisogna che io preghi
personalmente soprattutto la parola di Dio. Dico "pregare" che
non è solo riflettere sul testo sacro! Pregare a lungo sul respiro un
versetto salmico, pregare un’espressione del Vangelo o di San Paolo,
quanta forza può darmi!
Preghiera come lotta è
da intendersi anche in ordine a quelle continue scelte da farsi lungo la
giornata. Se voglio che il mio cuore sia disposto a entrare nel mistero
di Dio, a contattare la sua Presenza d’Amore e la Sua Parola di vita,
bisogna che io vigili su di esso, dando con forza lo sfratto a
situazioni di non perdono, a irritazioni, amarezze, sotterfugi.
C’è un’osmosi tra
preghiera e vita: l’una cambia e migliora l’altra. "La vita è
plasmata dalla preghiera e la preghiera è la quintessenza della
vita" (A. Joheschel).
Come Giacobbe, lotterò
con Dio per ottenere la benedizione: quella che anzitutto pacifica me e
mi rende suo strumento di carità e di annuncio.
Bisogna però che, come
lui, mi lasci ferire, non tanto all’anca quanto nel mio intimo, nel
cuore.
Così la nostalgia di Dio
sarà una cosa sola con me stessa e non mi permetterà di essere
intrappolata nelle cose della terra, e la mentalità mondana non
inquinerà il mio modo di rapportarmi a Lui, alla comunità, ai
fratelli.
Dio, come Giacobbe, non
mi darà il suo nome, cioè non etichetterà il suo mistero, non mi
permetterà di banalizzarlo, ma mi benedirà perché io possa
trasformare il quotidiano in una vita "con Dio", la sola che
diventa utile anche ai fratelli.
Si legge, negli apoftegmi
che un tale andò nel deserto per vedere i Padri. Non soddisfatto della
sua curiosità, chiese a chi l’accompagnava: "Non vedo Abbà
Antonio. Dov’è? Gli fu risposto: "Abbà Antonio è sempre là
dov’è Dio".
Proprio da Antonio
andavano ogni anno alcuni monaci per sottoporgli domande circa la vita
con Dio. Uno però sempre taceva. Gli chiese Antonio: "E tu che
vuoi?". "Mi basta vederti" fu la risposta.
Sulla Parola la mia preghiera
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Lascio entrare in
me il senso del mistero visualizzando una notte profonda e un
fiume da passare a guado. Mi aiuto col salmo15: "Proteggimi
o Dio, in te mi rifugio, ecc." intervallando le strofe con
pause di silenzio. Invoco lo Spirito di Dio. Chiedo di cogliere,
nella Fede, la grande Presenza.
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Lascio poi
emergere dalla mia interiorità, percepita come notte, le
ragioni di tentazione e di lotta che sono nel mio vissuto: forse
scontento di me, dell’ambiente in cui vivo, tentazione di
giudicare gli altri, di ribellarmi a situazioni contraddittorie
e di fatica, desiderio di accontentare in qualunque modo il
bisogno di autoaffermazione, con disagio e sconfitta degli
altri, bisogno di consensi e gratificazioni affettive, ecc.
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Divenuta
preghiera: "Signore guardo lucidamente in faccia queste
cose. Le chiamo per nome e le afferro dentro il
"giudizio" della Parola, lotta con me nella notte
finché siano passate le tenebre. Aiutami ad astenermi dai
desideri della carne che fanno guerra all’anima (cf 1Pt 1,11);
aiutami a fare del bene senza sperare nulla, ad essere benevole
con gli ingrati, ad amare e a benedire quanti mi sono di
ostacolo (cf Lc 6, 27-38) donec dies elucescat,
finché trionfi il sole dell’amore in me, nella mia comunità,
nel nostro essere Chiesa al guado del fiume, in questa svolta
della storia.
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Ascolto ora nel
cuore l’augurio-preghiera di Paolo a Timoteo: "Grazia,
misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostra
speranza" (1Ts 1,2). Passo del tempo in quiete
contemplativa aprendo tutti i canali del mio essere, perché
penetri in me l’onda della grazia, della misericordia, della
pace. Chiedo di sentirmi rigenerata, vivificata, di essere
"figlia della luce", "figlia del giorno" in
corrente sequela di chi ha detto: "Io sono la LUCE del
mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre" (Gv 8,12).
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Infine ascolto in
cuore: "Rispondete benedicendo perché siete chiamati ad
avere in eredità la benedizione" (1Pt 3,11). Passo
il tempo a chiedere di essere ampiamente benedetta dal Signore.
Poi richiamo alla memoria persone e situazioni che intendo a mia
volta benedire. E soprattutto invoco che la mia stessa femminilità
consacrata diventi vivente benedizione, sia abitando con
pazienza questo nostro tempo difficile e pieno di notturne
contraddizioni, sia accogliendo con amore ogni segno profetico
fino a diventare io stesso profeta del giorno solare di Cristo.
Itinerari contemplativi
Al guado del fiume
in notte pervasa di mistero,
incontrarti non è subito gioia,
Signore.
Mi raggela intorno il
sentirmi sola,
e le tenebre sono complici
del tuo ingaggiare con me una lotta,
dapprima senza scampo.
Ecco, ora mi hai ferito,
mi hai ferito all’anca;
e più non correrò nel mondo
pazzamente avida delle cose.
Ancora, ancora lotterò
con Te,
finché spunti il giorno eterno,
e il tuo essermi "Luce vera"
dissipi in me le tenebre
del mio non veder rilucere la perla,
del mio non saper vendere tutto
per afferrare il tesoro.
Ecco, mi hai ferito, mi
hai ferito all’anca,
ma io ti prego: feriscimi nel cuore,
perché perdutamente innamorata di te,
da te sia benedetta;
e, mentre spunta l’aurora
del mio divenir finalmente consapevole
del tuo essermi AMORE fedele per sempre,
io per tutti divenga, a mia volta, benedizione!
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