Il
termine "notte"
Trattando
la questione della fede san Tommaso afferma che "ogni creatura appare
tenebra quando è messa a fronte dell’immensità della luce
divina"1. La notte, quindi, la si comprende e definisce in relazione
al giorno, come le tenebre in relazione alla luce.
Analogicamente,
possiamo propriamente parlare di "notte della vita consacrata
oggi" solo se compariamo due momenti temporali di questa. Dobbiamo
altresì aggiungere che vanno tra di loro comparati momenti omogenei e di
significato comune.
In
questo senso bisogna diffidare di una indebita comparazione tra il momento
originario e originante di un Istituto di vita consacrata e il momento
della quotidianità dello svilupparsi storico di un determinato carisma. A
maggior ragione vanno evitate comparazioni e confronti tra la vita dei
cosiddetti "movimenti" e quella degli "Istituti di vita
consacrata". Queste comparazioni sono, come altre, improprie e
forvianti poiché mettono a confronto due momenti completamente differenti
nella genesi e nella struttura e che caratterizzano fenomeni tra loro
diversi. Il che, naturalmente, non esclude anzi favorisce il dialogo e il
reciproco arricchimento.
Per
usare un linguaggio caro a Sartre, non possiamo mettere a confronto il
momento irrepetibile del "gruppo in fusione", "la Bastiglia
come esigenza primaria della libertà comune", con il sistema
istituzionale che ne deriva e nel quale la libertà dei singoli rinvia
necessariamente all’autorità come terzo regolatore.
Riprendo
le categorie introdotte dal sociologo Francesco Alberoni e ne do una
interpretazione del tutto personale2. Alberoni usa le nozioni di stato
nascente, innamoramento, istituzione, amore.
L’innamoramento
lo possiamo considerare come l’irrompere del nuovo e del gratuito nella
vita, l’amore come l’unica possibilità di fedeltà a quell’istante
unico.
L’innamoramento
è libertà, rottura di vincoli precedenti, creazione di ciò che non v’era.
L’amore, invece, è legge che deriva da quell’innamoramento,
costruzione nello spazio e nel tempo del contenuto di quell’incontro.
L’amore
si colloca tra il principio e la fine ed è caratterizzato dalla nostalgia
e dal desiderio, muovendosi tra memoria e futuro. L’innamoramento
ascolta e contempla. L’amore attua e rende visibile, intelligibile,
comunicativo quel fondamento.
Si
ama perché si è innamorati. Se si è veramente innamorati non si può
non amare. Solo chi arriva a essere "contemplativo in azione"3
unisce nello stesso atto innamoramento e amore.
Se
dunque, riprendendo il concetto iniziale di san Tommaso, consideriamo la
vita consacrata nel suo attuarsi storico e la paragoniamo al carisma delle
origini e al suo pieno significato finale, dobbiamo sempre considerare il
tempo che viviamo come "notte".
Il
criterio del giudizio, infatti, ci è dato dall’alfa e dall’omega in
cui ci si muove e qualsiasi realizzazione è sempre "notte", di
fronte alla luminosità del mattino e allo splendore del giorno ultimo e
nuovo.
Se
si perdono di vista questi punti orientativi del cammino si evacua il
significato teologale e spirituale della notte, non si coglie la ricchezza
del tempo che ci è dato vivere, si creano attese e delusioni, progetti e
fallimenti, successi e smarrimenti che nulla hanno a che fare con il
carisma che ci è dato vivere.
Dico
questo poiché molte volte si usa il termine "notte" senza
specificarne il significato e si carica questo concetto di valenze
improprie. Sul piano dell’esperienza personale, poi, cui il termine è
maggiormente inerente, fenomeni come la malinconia, la depressione e altre
anomalie psichiche possono accompagnare la notte spirituale, ma non ne
costituiscono il proprium.
In
altre parole non tutto quello che non riusciamo a controllare e a far
rientrare in schemi rispondenti a una certa razionalità possiamo
chiamarlo "notte".
Questa
precisazione è fondamentale poiché introduce una distinzione tra
fenomeni differenti che vanno pertanto affrontati con una pluralità di
strumenti analitici, diversificando conseguentemente anche le risposte.
Va
evitato il rischio del riduzionismo a un solo fattore nell’analisi d’un
fenomeno che, invece, va abbordato con l’apporto delle differenti
discipline, nel rispetto dell’autonomia d’ogni campo d’indagine.
Questo permette l’individuazione sempre più precisa del problema nelle
sue giuste dimensioni e la conseguente risposta ai corrispondenti livelli.
Il
segno decisivo, per parlare di notte in senso teologale, è il ricordo di
Dio e la sollecitudine penosa di servirlo, pensando di non far nulla4.
San
Giovanni della Croce, proprio nella Notte oscura, sottolineava la
relazione struggente con l’illuminazione della "fede oscura e viva,
della speranza certa e della carità perfetta", proprio ladove più
alto è il momento delle tenebre e della morte interiore.
L’anima
– scrive san Giovanni della Croce – "indossava il bianco vestito
della fede mentre usciva da questa notte oscura, allorché camminando,
come è stato detto, in mezzo a tenebre e angustie interiori, l’intelletto
non trovava alcun sollievo di luce né in alto, poiché il cielo le pareva
chiuso e Dio nascosto, né in basso, poiché i suoi maestri non la
soddisfacevano. E così essa soffrì con perseveranza passando per quei
travagli senza stancarsi e venir meno all’Amato, il quale nei travagli
(e nelle tribolazioni) prova la fede della sua sposa, affinché essa possa
dire con verità le parole di David: Per le parole delle tue labbra io
perseverai per aspri sentieri"5.
Pluralità
di letture dei carismi
Un’altra
considerazione metodologica s’impone. Con l’espressione "vita
consacrata" ci si riferisce a una serie di fenomeni differenti per
origini, tipologie, datazione, finalità, aree geografiche e culturali,
per cui risulta del tutto impossibile dare una valutazione complessiva dei
problemi, delle difficoltà, degli aspetti negativi che non si vorrebbe
che passassero al nuovo millennio. Altrettanto dicasi delle speranze e
delle attese, delle sfide e delle proposte.
Riferendosi,
infatti, a un fenomeno di esteso significato, si rischia di affermare
qualcosa che, volendo abbracciare tutta la complessità del fenomeno, non
contiene nulla di significativamente rilevante.
Cosa
possono avere in comune Istituti di antica fondazione nati in paesi di
cristianità costituita e carichi di memorie, d’una teologia elaborata e
sperimentata, di finalità ben determinate, di strutture e finanziamenti
consolidati, con Istituti nati in paesi di recente evangelizzazione per
rispondere a esigenze contingenti, senza un fondamento spirituale proprio,
con strutture e finanziamenti precari?
Cosa
hanno in comune Istituti poveri di storia e di mezzi, ma affermati in
contesti altamente conflittuali e in espansione vocazionale, con Istituti
ridotti all’orlo della sopravvivenza, in attesa della vocazione che non
arriva e che non sono disposti, dopo aver perso l’ars viviendi, a
apprendere l’ars moriendi?
E
riferendosi ai contesti culturali e geografici, cosa hanno in comune
Istituti che vivono in aree ove ancora si respira il pre-moderno e altri
ove il postmoderno è avanzato? E cosa Istituti con un’apertura
internazionale e altri che si sviluppano solo su basi strettamente locali?
Vi sono poi Istituti così legati al periodo storico nel quale sono nati e
del quale hanno interpretato le esigenze che risultano difficilmente
capaci di inculturarsi in altre situazioni. In questi Istituti s’è
creata tra carisma e cultura del tempo di fondazione un tale amalgama che
i due elementi, se separati, rischiano di produrre la dissoluzione del
tutto.
Da
queste brevi e sommarie considerazioni ne consegue la necessità che ogni
Istituto rilegga il suo carisma e la sua storia nel tempo e nel luogo ove
è chiamato a vivere, facendo anche una pluralità di letture
contestualizzate.
Fedeltà
creativa nel tempo della globalizzazione
Una
delle chiavi di lettura del nostro tempo è senz’altro quella introdotta
da McLuhan quando parla del cosiddetto "villaggio globale".
Il
pianeta internet e tutto il sistema telematico permettono sempre più il
trasferimento d’ogni avvenimento dalla periferia al centro e
contemporaneamente dal centro a ogni punto della periferia. Questo
comporta la riduzione d’ogni realtà periferica a un’unica realtà
centrale, ma anche il frantumarsi del centro in una miriae di punti
periferici.
Mentre
si afferma sempre più una direzione unicentrale, si moltiplica in pari
tempo tutto un policentrismo, con conseguente esplosione di conflitti non
più governabili. Non si tratta di demonizzare il fenomeno e di cercare
nella parola magica "globalizzazione" il capro espiatorio su cui
scaricare tutti i problemi che si presentano. Si tratta, per noi, di
capire il fenomeno e di differenziare le risposte, a partire dallo spazio
che è nostro come consacrati.
La
vita consacrata, infatti, riacquista tutto il suo valore profetico solo
nella misura in cui riscopre la propria peculiarità e rinunzia con gioia
e pace a tutti quegli spazi che non costituiscono il suo proprium.
I
consacrati trovano la fonte della propria vita nello specifico carisma
autenticato dalla Chiesa che sono chiamati a leggere e inculturare nei
mutati contesti storici. Ciò richiede quella fedeltà creativa di cui
parla l’Esortazione apostolica Vita consecrata, ladove fa
risuonare l’appello "a ricercare la competenza nel proprio lavoro e
a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le
forme, quando è necessario, alle nuove situazioni e ai diversi bisogni,
in piena docilità all’ispirazione divina e a al discernimento
ecclesiale" (VC 37).
Analogicamente
alla lettura della Sacra Scrittura, anche il carisma d’un Istituto va
letto e interpretato con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale
è stato scritto all’inizio d’una storia (cf DV 12). Al di
fuori di quello Spirito possono darsi varie griglie di lettura, ma esse
non danno la ragione ultima dell’esistenza d’un Istituto e non ne
garantiscono più la sopravvivenza secondo il progetto di Dio.
In
tal caso l’Istituto può anche trovare una via di sopravvivenza, nuove
forme di consenso e anche di successo. Ma questa luce nulla avrebbe a che
fare con il suo alfa e il suo omega, unici punti nei quali un Istituto
trova le stelle orientative nella notte che deve vivere.
Ritorna
a questo punto il discorso sulla notte intesa in senso teologale, come
anche, in maniera speculare, quello sul giorno.
V’è
sempre la tentazione in agguato di sfuggire per vie traverse, attraverso
scorciatoie e improvvisazioni, alla notte e al deserto che dobbiamo
attraversare, se vogliamo arrivare alla pienezza della luce unica che
illumina il cammino.
Nell’espressione
"fedeltà creativa", cui i consacrati sono particolarmente
chiamati in questo tempo caratterizzato da profonde mutazioni contestuali
che configurano un’autentica svolta epocale, sono racchiusi l’alfa e l’omega,
il principio e la fine della vita consacrata.
Tra
questi due punti luminosi si compie il viaggio nel tempo della notte.
La
fedeltà creativa, infatti, contiene in sé la nascita e lo sviluppo del
carisma delle origini e richiama due dimensioni della vita consacrata:
quella
profetica e quella escatologica.
La
dimensione profetica
"La
funzione di segno, che il concilio Vaticano II riconosce alla vita
consacrata, si esprime nella testimonianza profetica del primato che Dio e
i valori del Vangelo hanno nella vita cristiana. In forza di tale primato
nulla può essere anteposto all’amore personale per Cristo e per i
poveri in cui Egli vive" (VC 84).
Si
configurano qui due istanze con le quali i consacrati sono chiamati a
rapportarsi. Si tratta, per riprendere alcune piste di ricerca delineate
da due dei maggiori teologi del nostro secolo, Karl Rahner e Edward
Schillebeeckx, d’una visione che sia allo stesso tempo mistica e d’impegno
sociale, politico ed economico. Impegno che esige assolutamente e
necessariamente una formazione teologale e teologica, con l’orecchio
teso alla voce del passato e della grande traizione religiosa e
umanistica, che deve cominciare a essere trasmessa sin dal noviziato6.
In
un tempo in cui v’è un’autentica inflazione di profeti e ognuno si
sente autorizzato non si sa bene da chi a smerciare le sue profezie, è
bene richiamare i caratteri del vero volto del profetismo cui i consacrati
sono in maniera del tutto speciale chiamati a confrontarsi.
Ravasi
indica tre criteri oggettivi7:
-
Il
segno attuato, così formulato da Geremia: "Egli sarà
riconosciuto come profeta mandato veramente dal Signore soltanto
quando la sua parola si realizzerà (Ger 28, 9).
-
L’analogia
della fede: non può il profeta essere in contraddizione col messaggio
globale della Rivelazione (cf Dt 13, 2-4).
-
La
non-burocratizzazione del carisma. Se il profeta perde la sua
autonomia nella fedeltà alla parola di Dio vivente nella storia e si
cristallizza in una struttura, dipendendo dalle formule fisse della
tradizione e del potere politico, non è più portavoce di Dio, ma
professionista servile (cf 1Re 22, 5-12).
Vivere
la funzione profetica comporterà quindi per i consacrati:
-
Il
vivere le cose dette, mostrando nella propria persona il volto
concreto della parola e ponendo all’interno della relazione l’incarnazione
della parola stessa. Con la certezza che il nuovo volto della vita
consacrata sarà soprattutto il volto della
relazione8.
-
Assumere
la globalità del messaggio rivelato senza mutilazioni o messe tra
parentesi delle parti che possano risultare scomode all’interlocutore.
Purtroppo molte volte si tagliano e sopprimono le parti del Vangelo
che la mentalità contemporanea, da noi interpretata, giudica
incomprensibili. Si elimina o edulcora così lo scandalo e la follia,
si riduce il tutto in pillole facilmente digeribili, si cerca di
propinare quel che si ritiene accettabile e si finisce col restare
assimilati in tutto e per tutto alle mode del tempo. Pronti poi, come
le mode cambiano, a strappare pagine non più assimilabili e, magari,
a rincollare quelle non prima usate. Si cae in tal maniera, pur
partendo dalle migliori intenzioni, in quella che il Card. Ratzinger
chiama "l’ideologia del dialogo, ideologia che si sostituisce
alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione"9.
-
Il
rispetto delle prime due condizioni farà del consacrato l’amico di
Dio e dei poveri. La sua presenza nel mondo non sarà di tipo
consolatorio e alienante, intimista e deresponsabilizzante. Al
contrario sarà una presenza, come richiesto nell’Evangelii
nuntiandi pronta a "sconvolgere mediante la forza del Vangelo
i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le
linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità,
che sono in contrasto con la parola di Dio e col disegno della
salvezza" (EN 19).
I
consacrati non dovranno aver paura di dire verità anche scomode, verità
che contrastano con l’indirizzo delle istituzioni politiche o religiose
e che possono mettere in pericolo la vita di chi le annunzia.
L’annunzio,
infatti, fa già irrompere il Regno nella storia e questa irruzione
comporta sempre, in qualche maniera, una morte.
La
dimensione escatologica
La
seconda dimensione richiamata dalla fedeltà creativa è la dimensione
escatologica. È nota l’affermazione di Balthasar: "L’escatologia
è il segno dei tempi della teologia contemporanea"10.
Il
grande teologo ricorda che "il regno di Dio, poiché Gesù è un
uomo, non viene soltanto dall’alto e dall’esterno; è essenzialmente
anche frutto della terra. Frutto di Maria e in essa di tutto il popolo
santo, il quale ha realmente una missione in questo mondo"11.
Per
il suo ruolo di segno escatologico, la vita consacrata ricorda che sola
cosa necessaria è cercare il regno di Dio e la sua giustizia, invocando
incessantemente la venuta del Signore (cfr. VC 26).
"Questa
attesa – è scritto nell’Esortazione apostolica – è tutt’altro
che inerte: pur rivolgendosi al Regno futuro, essa si traduce in lavoro e
missione, perché il Regno si renda già presente ora attraverso l’instaurazione
dello spirito delle beatitudini, capace di suscitare anche nella società
umana istanze efficaci di giustizia, di pace, di solidarietà e di
perdono" (VC 27).
Ritroviamo
qui le due configurazioni, mistica e politica, cui si è precedentemente
accennato.
Uno
dei rischi che corre oggi la vita consacrata è quello dell’intimismo e
della ricerca di spazi asettici e neutrali, dopo l’ubriacatura dell’impegno
del "tutto è politico" degli ultimi decenni. V’è in questo
sfuggire completamente la dimensione politica della realtà, come nel
voler ridurre tutto a politica, la presenza d’una crisi sempre in
agguato nel rapporto tra fede e storia, tra trascendenza e immanenza, tra
interiorità e mondo, tra escatologia e incarnazione.
Se
è difficile vivere la tensione dialettica tra i due poli, non per questo
è lecito sopprimerla e rifugiarsi in uno dei due elementi in questione a
esclusione dell’altro. Molte volte si è creata nella prassi una
separazione in ciò che doveva restare distinto, una confusione in ciò
che era chiamato a essere unito, costruendo situazioni nelle quali ognuno
viaggiava per suo conto assolvendo una funzione e lasciando a altri le
restanti funzioni. Si è venuta molte volte a creare una incomunicabilità
e una conseguente incomprensione di fondo, con gelose e accanite difese di
spazi ritenuti conquistati in eterno e percepiti come sempre insidiati. E
poiché le due polarità debbono sempre essere presenti, si è finito per
assumere comportamenti e posizioni ben distanti dalla propria vocazione e
dal proprio carisma.
È
triste vedere l’arroccarsi sulla propria identità arrivare, in nome
delle supposte esigenze di Dio e del carisma, alla strenua difesa, fino
alla rottura dell’unità, di quelle che altro non risultano essere che
espressioni culturali d’un altro tempo.
Sul
versante opposto la ricerca del presenzialismo a tutti i costi e dell’inseguire
l’ultima moda arriva al punto di negare l’autonomia del mondano e l’estraneità
di tante sue realtà, nel tentativo di mettere un distintivo o ricoprire d’una
croce anche quello che, pur dovendo essere amato, deve essere
riconosciuto, in nome del rispetto della libertà della persona, nella sua
alterità e forse anche nella sua opposizione.
Al
fondo v’è una paura della solitudine, del seguire nudi il Cristo nudo12,
dell’affidarsi completamente alla Parola che ci chiamò, del vivere fino
in fondo il sì della prima ora, fino alle sua conseguenze estreme.
Rischiamo
a volte di sovraccaricare la stessa comunità di attese e significati
impropri o cerchiamo nel mondo, magari illudendoci con la scusa della
missione, quello che dentro non sappiamo trovare o, più semplicemente,
non c’è dato di trovare.
La
dimensione escatologica, unita a quella profetica, la contemplazione del
Regno e delle sue esigenze unita all’annunzio senza vergogna e paura
della Parola ascoltata, pregata, contemplata e vissuta sono le uniche
stelle polari nel cammino della notte, notte che a volte si fa veramente
oscura.
Sentinella,
quanto resta della notte?
Se
la notte è, come abbiamo visto, il tempo che intercorre tra il principio
e la fine, al consacrato compete, in forza del suo ruolo di segno
escatologico, interpretare il tempo e porsi come sentinella cui ci si
rivolge per domandare quanto manca all’alba.
"Sentinella,
quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?" (Is
21, 11).
Nello
scorrere della notte, ove l’oscurità non permette più la percezione
distinta del succedersi delle ore e tutto diventa indistinto e confuso,
nella notte delle persone e dei popoli ed anche nella possibile notte
della comunità cristiana, si delinea il carisma insostituibile dei
consacrati, la loro dimensione escatologica e profetica.
Essi,
nel pieno della notte, sono le sentinelle che vigilano e a cui ci si
rivolge per domandare quanto ancora si deve attendere per veder spuntare l’alba
del mattino che viene.
"Sentinella,
quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?".
Sono
i consacrati la riserva escatologica del popolo di Dio, coloro che
scrutano incessantemente i segni del Regno di Dio e della sua giustizia, e
che sono illuminati dall’amore personale per Cristo e per i poveri in
cui Egli vive.
Se
la notte è il tempo così stabilito nel confronto con la luce del giorno,
la notte scomparirà quando spunterà il mattino.
Ma
quanto resta ancora da attendere?
Quando
vedremo finalmente lo spuntare dell’alba?
Giorno
e notte, luce e tenebre, bene e male, libertà e schiavitù, vita e morte
vanno da noi interpretate e lette come realtà teologali. Le scienze umane
vanno rispettate nella loro autonomia e nei loro statuti epistemologici.
Guai,
però, se perdiamo il senso ultimo del nostro carisma di consacrati,
assumendo una dimensione che non è il nostro proprium.
Il proprium
del consacrato non lo si trova nella finalità per cui un Istituto è
nato.
La
crisi, ma mi si permetta di dire la tragedia, di tante vocazioni religiose
la si trova nell’aver posto il fine come fondamento ontologico.
La
scuola, l’assistenza ai malati, l’educazione dei giovani, l’accompagnamento
dei disabili, la missione, la predicazione, o qualsiasi altra finalità
sono legate al tempo della notte. Queste finalità scompariranno.
Cielo
e terra di prima scompariranno e il mare non ci sarà più (cf Ap
21, 1).
In
quel tempo anche "le profezie scompariranno; il dono delle lingue
cesserà e la scienza svanirà" (1Cor 13, 8). "Non ci
sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno" (Ap
21,4).
Tutti
i carismi legati a un’opera svaniranno. Essi sono legati al tempo e
servono per illuminare la notte. Inoltre non bisogna mai dimenticare che
le singole comunità religiose possono spegnersi. Istituti che non sono
più adatti alla loro epoca possono essere costretti a chiudere. La
garanzia di durata perpetua sino alla fine del mondo, che è stata data
alla Chiesa nel suo insieme, non è necessariamente accordata ai singoli
Istituti religiosi13.
Lo
sguardo sulla luce che viene e dichiara la fine del tempo appartiene alla
sentinella, al consacrato.
Egli
non è chiamato alla mera gestione delle opere, ma a leggere ed
interpretare i segni dei tempi con fedeltà creativa, a annunziare
profeticamente quali siano le esigenze del Regno nelle mutevoli
circostanze storiche.
Se
le scienze umane possono e debbono aiutarlo, gli "occhi della
fede"14, che penetrano e scrutano ogni realtà, dovranno avere la
parola ultima.
Anche
su questa fedeltà siamo chiamati a rimetterci profondamente in questione.
Alla domanda posta: "Sentinella, quanto resta della notte?", la
sentinella risponde in maniera tale che lascia a chi domanda la parola
ultima, il gesto finale che impegna tutta la responsabilità personale:
"Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare,
domandate, convertitevi, venite!" (Is 21, 12).
Fino
alla fine dei tempi il profeta che viene da Dio non potrà mai annunziare
un mattino senza fine.
"Viene
il mattino, poi anche la notte". È falso profeta chi nella notte che
incombe non sa vedere il mattino che viene. Ma lo è altrettanto chi nel
mattino che sorge non sa intravedere la notte che sopraggiunge.
L’autentica
profezia non si accompagna alla ricerca del consenso e non si sottopone
alla tirannia dei numeri. Non si affida all’audience o ai
sondaggi d’opinione.
Il
vero profeta non dice quello che il pubblico che ascolta vuol sentire e
non si preoccupa dei risultati che verranno. Una folla che riempie i
templi o le piazze non è, in sé, segno d’una nuova primavera. Come non
è segno di notte profonda il vuoto e l’abbandono.
Fino
alla fine vi sarà un conflitto fra il potere del maligno ed il Regno di
Dio.
V’è
una dimensione esodiale, diasporica e crocifissa della realtà che non
possiamo illuderci mai di eliminare.
È
per questo che la sentinella, nell’individuare l’alternarsi di mattino
e notte non si sottrae al dialogo e alla pazienza dell’ascolto: "Se
volete domandare, domandate". Ma non esaurisce nel dialogo tutto il
suo essere sentinella.
Vi
sono due parole che deve dire, che non ha il potere di eliminare dal suo
vocabolario: "Convertitevi, venite!". Egli sa che "la
libertà per il male non ha più l’ultima parola"15, e per questo
anche l’annunzio della notte che ritorna dopo il mattino è annunzio di
speranza. Egli non teme, osa, accetta tutte le sfide. Egli è libero e con
gioia immette con la sua presenza nella storia degli uomini, nella storia
che è la sua storia, sulla terra che è la sua terra, un soffio di
libertà e gioia.
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