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supplemento
n. 10   2010

Fra poco sarò prete
Intervista a Davide Arcangeli

 

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 Perchè un giovane oggi sceglie di farsi prete? Che cosa cerca nel ministero? Che idee ha sul prete? Sono domande che vengono spontanee davanti ai seminaristi o ai giovani. Queste domande e altre analoghe sono state rivolte a Davide Arcangeli, diacono e non ancora prete, della diocesi di Rimini. Davide Arcangeli è entrato in seminario dopo la laurea in ingegneria e dopo essere stato per due anni Presidente Nazionale della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani).

GIOIA E TIMORE

D. Lei diventerà prete tra qualche mese. Con che animo si prepara a questo passo?

R. Vivo oggi la grande gioia di sentire confermata dalla Chiesa e da Dio un’intuizione che è nata in me circa dieci anni fa, all’età di 19 anni. Era un periodo di crisi positiva, di una radicale interrogazione sulla mia vita e sulla mia vocazione nel contesto del mio primo anno di università. Qui il Signore mi fece conoscere più profondamente il suo amore e mi donò anche una prima, germinale intuizione di cosa potesse significare consacrarsi a lui. Negli anni questa intuizione si è molto sviluppata e ha trovato diverse conferme, così che non posso non gioire nella certezza di essere incamminato a compiere la sua volontà.

Da un altro punto di vista, tuttavia, c’è in me anche molto timore, non solo perché sento la mia inadeguatezza e debolezza, e, come Paolo, ho la chiara percezione di custodire un tesoro in un vaso di creta (cf 2Cor 4,7), ma anche perché sono convinto che la mia identità sacerdotale sia in realtà ancora un groviglio di convinzioni, aspirazioni, ideali e progetti che attendono di essere messi alla prova e plasmati dalla vita. Mi ritrovo nelle parole del profeta Geremia, che alle parole di consacrazione di Dio risponde: «Ahimè, Signore Dio! Ecco io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Qui non si tratta tanto della giovane età, ma di quella inevitabile inesperienza di chi ha pregato e servito Dio negli ambienti protetti del culto (Geremia era un sacerdote di Israele), e ora deve, non senza contraddizioni, passare dalle forme ben disegnate all’asprezza spigolosa della realtà. È chiaro che questa obiezione non viene superata se non da un’incondizionata adesione alla parola di Dio, l’unica che potrà far aderire alla vita anche il mio parlare (cf Ger 1,9).

D. Lei ha deciso di entrare in seminario da giovane, al termine di un percorso di studio e di servizio alla Chiesa molto vivo e stimolante. Che cosa l’ha portata a prendere questa decisione?

R. Se l’intuizione di cui ho parlato sopra era qualcosa di piuttosto generico e suscettibile di evolvere in diverse direzioni, credo che sia stato decisivo il mio impegno da laico di Azione Cattolica nel contesto che stavo vivendo, quello dell’università, nel donarmi alcuni segni più specifici della mia vocazione. Ricordo in particolare l’Assemblea Federale della FUCI nel 2003 a Parma: molti sostenevano che questa associazione stava per morire, venivamo da un anno molto difficile e io non mi rassegnavo al ruolo di curatore fallimentare. Quel momento fu per me rivelatore: il contatto con i ragazzi e con i loro persona li cammini di fede mi fece penetrare più in profondità nel mistero della Chiesa, paradossale unione di debolezza umana e potenza di Dio.

Compresi che non ero io il protagonista, ma Dio. Compresi che mi trovavo dentro una realtà d’amore, in cui non spettava a me la gioia del possesso, ma una gioia diversa eppure reale, la gioia di chi ascolta la voce dello Sposo unito alla Sposa (cf Gv 3,29). È una gioia pasquale, che scaturisce dal travaglio di un radicale e sofferto decentramento da sé, dalle proprie attese e desideri umani. Intuivo così il mistero della Chiesa da un’angolatura particolare e dentro il simbolo sponsale, e questo, pur ancora dentro un’esperienza battesimale, mi ha avvicinato a ciò che mi sembra essere l’essenza del ministero ordinato.

TRA SCOPERTA E PROFONDITÀ

D. Quali sono gli elementi che hanno influito sulla sua scelta?

R. Credo che l’esperienza spirituale di cui ho tentato di parlare si sia poi ulteriormente approfondita, soprattutto nelle risonanze interiori delle mie personali esperienze affettive. Qui ho sempre cercato di integrare emozioni e affetti in una logica di donazione: questo, se da una parte umanamente mi ha fatto sperimentare tutta la durezza di un cammino di spoliazione, proprio attraverso di essa è scaturito il dono di una maggiore comprensione del mistero della mia vocazione.

Ho così progressivamente scoperto la mia inserzione personale nell’amore, quella dell’evangelizzatore, colui che è chiamato ad annunciare la salvezza, e mentre l’annuncia essa diviene presente per opera dello Spirito: egli non è lo Sposo di Gerusalemme, è solo un annunciatore, ma porta in sé i tratti dello Sposo, significati dalla bellezza dei suoi piedi (cf Is 52,7).

 Una parola che mi ha sempre donato molte consolazioni è Romani 11,14-15: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!». Oggi penso che tutto ciò di cui ho parlato in questa e nella precedente risposta non sia altro che la mia personale e progressiva scoperta di ciò che è contenuto in quella breve formulazione teologica che definisce il prete in persona Christi.

D. Che cosa la attrae della vita del prete?

R. Ricordo con particolare emozione quando alla FUCI stavamo preparando un appuntamento nazionale per i responsabili dei gruppi, che si sarebbe poi svolto a Firenze, sulle orme di La Pira e don Milani. Stavo leggendo un passo di Esperienze pastorali di don Milani, libro che rappresenta un primo tentativo, da parte di un parroco, di riflessione sistematica sulla pastorale. Fui attirato particolarmente da un passo in cui sembrava che don Milani avesse infuso tutto quello in cui credeva, tutta l’essenza della sua vocazione sacerdotale. Nel contesto di una pagina in cui se la prendeva con i preti che inseguivano le mode del momento per attirare i ragazzi in parrocchia, poi aggiungeva, con una sferzata improvvisa e rivelatrice (riproduco qui il senso complessivo della frase e non le parole esatte, non avendo il testo in mano): «Questi ragazzi, che vogliamo attirare con mezzucci umani, in realtà sono dei martiri in potenza».

Questa espressione, martiri in potenza, mi è rimasta profondamente impressa, e ancora oggi è per me come un concentrato dello sguardo con cui un prete vede la realtà e le cose. Egli vede le potenzialità di martirio, di dono totale a Dio attorno a sé e freme nello Spirito perché questo possa compiersi. Cerca così di mettere in atto tutte le sue risorse di sensibilità e intelligenza umana e tutta la sua personale santificazione, nell’ascolto di quei segnali dello Spirito che tracciano la storia di ogni persona, e cerca di collaborare perché  tutte le potenzialità umane e spirituali delle persone siano portate a compimento.

La presidenza dell’eucaristia, il ministero della Parola, la grazia sacramentale della riconciliazione, l’esercizio della carità attiva e la promozione della comunione ecclesiale, sono tutti strumenti perché ciascuno arrivi alla misura della pienezza di Cristo (cf Ef 4,13). Ciò che mi affascina nel prete è la capacità di guardare in profondità nelle persone, come Gesù: di fronte al giovane che aveva molte ricchezze – ci dice Marco - «fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). E poi gli indicò la via della sequela, che è la vera ricchezza del Vangelo. Ha saputo vedere delle potenzialità nascoste in quel giovane narcisista che cercava la lode del maestro, e al contempo ha saputo affidare alla potenza di Dio colui che, agli occhi dei discepoli, sembrava condannato a rimanere chiuso nel vicolo cieco delle proprie sicurezze umane.

TRA DIFFICOLTÀ E IMPEGNI

D. Quali sono le difficoltà che ha incontrato dentro di lei e attorno a lei nell’assumere questa decisione?

R. Le difficoltà sono state numerose e a tratti mi sono sembrate insuperabili. Anzitutto l’opposizione dei miei genitori, impauriti da un cammino di fede che sembrava preludere a qualcosa che era molto oltre le loro visioni e aspettative su di me. Nel superamento di questa paura, che è avvenuto solo grazie ad un cammino di fede iniziato dai miei genitori nel contesto degli anni di seminario, ho riconosciuto non una mia capacità a convertirli, ma solo la mano del Signore, che opera tutto ciò che vuole. Soggettivamente questo è il segno più importante della bontà agli occhi di Dio del cammino da me intrapreso.

 Altre difficoltà sono tutte relative a certi lati naturali del mio temperamento, come una riservatezza e una tendenza più all’elaborazione interiore che all’azione, che mi hanno procurato perplessità di fronte alle incombenze relazionali del ministero pastorale. Ma il Signore mi ha mostrato come avrei potuto far diventare punti di forza quegli stessi che a me sembravano alcune volte punti deboli, e in questi anni ha arricchito e trasformato il mio carattere, integrandolo al livello di una stabilità affettiva: proprio questa stabilità progressivamente mi rende capace di non temere le relazioni ma anzi di promuoverle.

Il cammino del seminario e gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio hanno avuto un ruolo fondamentale nel rendermi più cosciente di quel che il Signore andava operando in me.

D. Ma in definitiva, c’era proprio bisogno che si facesse prete?

 Non aveva davanti una vita soggettivamente buona, già impegnata nel servizio alla Chiesa?

R. Certamente, ma in questa frase modificherei solo l’avverbio “soggettivamente”, in ”oggettivamente”. Mi spiego: ci sono sempre state nella mia mente due convinzioni. La prima è il cercare “di più”, non accontentarsi mai delle mete raggiunte, ma sempre ogni giorno rinnovare dinamicamente la propria adesione alla volontà di Dio, considerando che ogni volta che ci si ferma, in realtà si regredisce. La seconda è l’essere convinto che Dio ha un progetto “per me”, che non può esaurirsi in una bontà misurata esteriormente, secondo canoni oggettivi. Se la vita del laico impegnato era già buona, e lo era oggettivamente, da un punto di vista soggettivo, “per me”, era pronto qualcosa di ulteriore da parte di Dio. Sarebbe lo stesso se dopo l’ordinazione mi accontentassi di un adempimento di ciò che ritengo essere il canone oggettivo della vita sacerdotale, risparmiandomi la fatica di cercare ogni giorno il mio specifico e originale modo di incarnare l’identità sacerdotale.

 

I PERCHÉ DI UNA CRISI

D. Quella della vita sacerdotale è una scelta ancora proponibile dunque ad un giovane...

R. Senza alcun dubbio, se c’è il desiderio di fare la volontà di Dio e non la ricerca di una qualche compensazione personale, che si proietta nella vita del ministero.

D. Eppure la vocazione al sacerdozio oggi appare in crisi: sono pochissimi - sempre meno - i giovani che scelgono questa strada per realizzare la loro vita e per mettersi al servizio degli altri. Perchè?

R. Alla base della crisi di vocazioni sacerdotali che i Paesi occidentali vivono, con alti e bassi, ormai da 50 anni, c’è una crisi della fede. Credo che non avrei mai potuto intuire questa strada se il Signore non mi avesse anche condotto attraverso un misterioso salto di fede, che è quel dono di una fioritura nella parte più alta della persona, laddove i sentimenti e i valori possono essere giudicati come veri e tutto è come unificato da un amore superiore. Altrimenti non possiamo essere davvero sicuri di nulla, dei sentimenti che proviamo e del nome che possiamo dare ad essi, così come della reale bontà dei valori morali. In questa insicurezza radicale, come potersi impegnare tutta la vita non solo nella vocazione sacerdotale, ma in qualsiasi vocazione?

Credo che al fondo di tutte le difficoltà ci sia questo timore, che è oggi una delle conseguenze della civiltà della tecnica e del mercato, dove tutto è misurabile e contrattabile e non c’è più nulla di realmente incondizionato. Ma in fondo questo male è antico quanto l’uomo e già ce ne parlano i profeti dell’Antico Testamento: l’idolo non ha occhi per vedere né orecchi per udire, perché è il prodotto dell’arte del fabbro. Esso non può entrare in una vera relazione, incondizionata, gratuita, perché è solo il prodotto rassicurante dei nostri sogni.

 

VERSO LA COMUNIONE DELLE DIVERSITÀ

D. Qual è l’idea di prete che lei ha in mente? Che prete vorrebbe essere domani?

R. Vorrei crescere nell’umanità, fino ad arrivare a «rallegrarmi con quelli che sono nella gioia e piangere con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15), fino a farmi «debole per i deboli, per guadagnare i deboli, fino a farmi tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (Rm 9,22). La trasmissione del Vangelo avviene infatti per una dinamica di incarnazione, di cui il prete, per opera dello Spirito, è testimone in prima linea: ma ciò non si realizza magicamente, in un sol colpo. C’è una faticosa maturazione della propria umanità che viene pazientemente modellata dallo Spirito. Io spero e desidero essere un prete che non si sottrae a questo impulso dolce e insieme scarnificante.

Tutto coopera a questo fine: la solitudine del celibato, le durezze dell’obbedienza al proprio vescovo, specie in certi passaggi, il superamento di tentazioni sempre in agguato, come appoggiare la propria vita su sicurezze materiali o anche relazionali, o come riporre la propria realizzazione in un particolare ruolo o servizio. Vorrei essere un prete la cui vita profuma della libertà del Vangelo, sempre aperto alla novità che lo Spirito suscita ogni giorno nel suo ministero. Penso che un prete così (e in realtà ne esistono!) non abbia bisogno di molte parole per proporre ad un giovane l’ideale della vita sacerdotale. Se qualcuno è chiamato dal Signore in questa strada, non potrà non essere in qualche modo contagiato dalla sua testimonianza.

D. Che cosa apprezza di più nei preti di oggi?

R. La varietà di carismi e tratti personali che modellano l’identità dei preti. Si parla spesso di crisi di identità del ministero sacerdotale. Certo vi è in molti anche una perdita di punti di riferimento e una percezione della sostanziale incapacità di tenuta dell’attuale spiritualità del ministero di fronte alle sfide del tempo presente. Ma positivamente questa crisi può anche essere dovuta all’estrema varietà di cammini spirituali: le persone arrivano al ministero in età adulta, dopo esperienze di vita le più varie, ma soprattutto i cammini di fede sono fortemente connotati da una libertà di ricerca soggettiva, che porta ad esprimere maggiormente le sfumature personali e singolari nell’incarnare l’identità del prete. Credo che questo sia il frutto positivo della modernità nella spiritualità occidentale. Non possiamo sottrarci a questa complessità, dobbiamo solo lavorare perché essa non diventi fermento di divisione o di confusione, ma piuttosto sia orientata ad una matura, armonica comunione dei diversi. Questo significa anche sopportare il peso delle crisi che spesso i preti attraversano, vedendole come passaggi per una più completa appropriazione della spiritualità sacerdotale nella propria vita, e non semplicemente come un pericolo da evitare.

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