Don
Giuseppe Zanon è prete della diocesi di Padova. Dopo aver avuto diversi
compiti, è stato incaricato per la formazione permanente dei sacerdoti.
In questo ruolo, ha ideato un’esperienza che si è rivelata di grande
successo: percorsi di formazione per i sacerdoti, capaci di valorizzare
la loro esperienza di fede e di vita, al di là del ruolo. E questo in un
contesto di condivisione e di fraternità. Si tratta di un modello
formativo che ora si va diffondendo anche in altre diocesi.
DA
FUNZIONARI DEL SACRO A CREDENTI AUTENTICI
D.
Che
cosa si aspetta da questo anno sacerdotale un prete che si occupa da
anni e con grande impegno della formazione dei suoi confratelli?
R.
Quando si pone attenzione ad una realtà vuol dire che manca o che c’è
qualche problema. Se il Papa ha indetto un anno sacerdotale ha percepito
che questo settore delle vita della Chiesa aveva bisogno di una
particolare attenzione. Le motivazioni che hanno mosso Benedetto XVI a
questa decisione possono essere molte: incoraggiare i preti ad un
rinnovamento del loro impegno di santificazione,
difendere o promuovere l’immagine del sacerdote, oggi intaccata nei mass
media, spingere i fedeli a prendersi cura delle vocazioni sacerdotali e
dei sacerdoti.
Personalmente condivido queste attese, spero soprattutto che i preti
possano trovare una spinta a prendersi cura della loro interiorità,
della loro fede e della loro preghiera, perché non si accontentino di
adempiere alle esigenze del ruolo e non siano “funzionari del sacro”.
Se i preti saranno di più credenti autentici, il ministero del prete
sarà certamente rinnovato. Ho il timore che una parte dei preti trovi
nel Curato d’Ars la giustificazione per un modello spiritualista, non in
sintonia con la spiritualità della Chiesa del Vaticano II, e che
un’altra parte non accolga la proposta per lo stesso motivo.
D.
Quando un giovane diventa prete, quanta parte della sua formazione ha
realizzato? Se lo dovesse esprimere con una percentuale?
R.
Oggi
ordinariamente uno entra in seminario a venti, trent’anni o più di età:
la sua personalità è già per il settanta per cento costituita
dall’esperienza familiare e dal percorso successivo. Se va bene, e non
succede l’effetto
tunnel,
i sei anni di seminario, tra studi teologici e formazione, incidono per
un quindici per cento. La vita, il ministero daranno un ulteriore
apporto.
D.
Che
cosa gli manca, secondo lei, oltre all’esperienza pastorale?
R.
Gli
manca la vita che deve ancora vivere. È importante che il giovane prete
non pensi di avere nella valigia tutto il necessario per essere prete,
ma porti con sé una ventiquattrore con dentro gli strumenti per
imparare. Se ha appreso la capacità di apprendere dalla vita, dal
ministero, se conserva il desiderio di farsi aiutare ha veramente
ricevuto il necessario dal seminario.
PROPOSTE FORMATIVE
D.
Potrebbe raccontare brevemente ciò che sta facendo per la formazione dei
preti nella sua diocesi?
R.
La
svolta nella formazione dei preti nella nostra diocesi è avvenuta in
seguito all’esperienza di una settimana residenziale proposta ai preti
nell’autunno del 2001. Il tema era la fede, il titolo era “Il
presbitero, uomo e credente”. L’inizio della settimana è stata la
condivisione della propria storia di fede in gruppi di dieci persone.
Ognuno aveva a disposizione sei o sette minuti, gli altri erano in
ascolto, senza ribattere e discutere, con l’impegno del riserbo su
quanto veniva detto nel gruppo.
Gli
effetti di questa metodologia, di partire cioè dalla narrazione e
condivisione della fede, sono stati sorprendenti. I preti si sono dati
fiducia l’un l’altro affidando agli altri qualcosa di intimo, si sono
sentiti accolti, è cresciuta la stima reciproca, si è creata
un’esperienza di fraternità nella comunicazione tra persone, non tra
ruoli.
Ci
siamo accorti che la condivisione della propria storia di fede e di vita
è uno strumento di formazione altrettanto rilevante che la lezione
magistrale, anzi produce risultati che questa non raggiunge. Da queste
intuizioni è sorta una impostazione di vari moduli formativi che si è
consolidata negli anni. Abbiamo realizzato due esperienze di settimane
residenziali nel 2001 e nel 2004, privilegiando il metodo narrativo,
senza rinunciare anche a interventi magistrali.
Ogni
anno in autunno proponiamo ad ogni vicariato un incontro residenziale,
nei primi anni solo per presbiteri, poi dal 2005 esteso anche ai laici,
vicepresidenti dei Consigli pastorali parrocchiali. Si affronta il tema
dell’anno pastorale in chiave formativa per i partecipanti, partendo
dalla condivisione della propria esperienza di fede e di vita. Questo è
un appuntamento che ormai è considerato come un momento rilevante di
partenza dell’anno pastorale ed ha prodotto effetti di cambiamento di
mentalità e una crescita di fraternità. Queste proposte sono rivolte a
tutto il clero, ci sono altre proposte a categorie o singoli.
D.
Che
accoglienza ha avuto questa proposta dai preti stessi? Come la valutano?
Quali sono secondo lei le ragioni del successo di questa impostazione?
R.
Già
la prima esperienza ha fatto maturare nei preti la richiesta alla
diocesi di creare una struttura, con un progetto, persone, sede e soldi,
perché si facesse carico della formazione permanente dei preti. È nato
così nel 2002 l’Istituto san Luca. In questi anni è cresciuta la
riconoscenza verso questo Istituto, perché i preti si sentono aiutati e
avanzano ulteriori richieste di intervento. Riguardo al metodo della
“narrazione della fede”, di partire cioè dalla condivisione, c’è stata
una crescente accoglienza ed un progressivo apprendimento della
metodologia.
Questo ha creato un clima di maggior fraternità, fra preti e fra preti e
laici, mettendo le condizioni per una maggiore collaborazione pastorale.
È cresciuta l’esperienza della sinodalità, mettendo in moto esigenze
sempre più precise di corresponsabilità a tutti i livelli. Anche gli
organismi di partecipazione ne hanno ricevuto uno stimolo
a
crescere.
NARRARE LA FEDE…
D.
Un
prete impegnato nella pastorale di quale formazione oggi ha bisogno?
E
per la sua crescita spirituale? Non ha l’impressione che i preti siano
molto soli da questo punto di vista?
R.
Quale formazione? La risposta potrebbe essere diversa a seconda del tipo
di pastorale, e quindi di prete, una persona condivide, guardando al
presente o al futuro prossimo. Alle spalle ci sono ovviamente
ecclesiologie diverse e diverse letture dei segni dei tempi. Di nuovo
rispetto al passato mi sembra vada sottolineata la necessità di
coltivare la dimensione relazionale: oggi il prete non gode quasi più
del prestigio che viene dal ruolo. Si rende credibile per la sua
testimonianza di uomo e di credente. Questa testimonianza è veicolata
dalla capacità di relazione.
Certo questa capacità relazionale ha bisogno di essere sostenuta da una
autentica spiritualità. Penso che la sua domanda: i preti si sentono
soli in questo cammino spirituale, colga un vissuto di molti, anche se a
volte i singoli preti non utilizzano le offerte delle diocesi. Altri le
cercano in associazioni e movimenti.
Noi
stiamo puntando ad inserire il cammino della spiritualità dentro un
cammino più complessivo: verso l’unità di vita. Per questo offriamo
anche uno specifico contributo, pensato, preparato e realizzato insieme
con la Congregazione dei Padri Venturini di Trento. Si tratta di una
proposta di itinerario sabbatico di tre settimane. L’originalità e la
scelta è di non puntare ad offrire nuovi contenuti, ma di concentrare
l’attenzione sulla persona, nelle sue dimensioni di uomo, credente e
prete. L’esperienza si svolge mediante la condivisione della propria
storia di vita e di fede in un gruppo di una quindicina di preti. È un
modulo formativo che si rivolge alle persone ordinarie, non ai casi
patologici.
È
stato collaudato da sette edizioni, con grande beneficio dei
partecipanti, che hanno in genere cominciato a prendersi cura di se
stessi nelle dimensioni umana, cristiana e presbiterale.
…
PURIFICANDOLA CON LE SCIENZE UMANE
D.
Talvolta si ha l’impressione che ai preti manchi soprattutto una buona
formazione umana, quella che fa da fondamento ad ogni altra dimensione.
Lei che ne pensa? Come nel suo progetto di formazione sacerdotale questo
aspetto è tenuto presente?
R.
Effettivamente, solo nell’esortazione
Pastores dabo vobis
di
Giovanni Paolo II, la formazione umana appare distinta dalla formazione
spirituale. Grazie alla buona formazione familiare, sociale ed
ecclesiale del seminario, ci sono preti anziani dalla personalità sana e
bella, da far invidia alle nuove generazioni. Però ci sono in genere
delle unilateralità e delle carenze di formazione umana di cui gli
stessi preti anziani si lamentano.
Oggi
in genere i seminari sono impostati in modo diverso, curano la
formazione umana e si avvalgono anche degli strumenti delle scienze
umane. Questo lavoro sarà sempre più necessario, perché il contesto
sociale e culturale, la situazione delle famiglie rischia di far
crescere persone che hanno bisogno di un lavoro impegnativo per trovare
unità, equilibrio, solidità.
Per
aiutare la formazione della dimensione umana dei preti, stiamo
sperimentando con loro lo strumento della supervisione, già in uso per
le categorie che per la loro professione incontrano situazioni personali
cariche di sofferenza e che rischiano in questa situazione il loro
stesso equilibrio. In gruppi eterogenei di età e provenienza, otto preti
s’incontrano con una guida esperta, un’ora e mezza al mese per
condividere il loro vissuto nelle dinamiche pastorali. Dalla presenza e
dalla puntualità dei partecipanti abbiamo capito l’incidenza di questo
percorso. Imparano a guardare in faccia e a dare un nome alle loro
emozioni e sentimenti senza rimuoverli, in un clima sereno di non
giudizio.
MOLTEPLICI OPPORTUNITÀ
D.
Un
prete avrebbe diverse occasioni di formazione, soprattutto pastorale:
l’esercizio stesso del ministero, il dialogo e la solidarietà con altri
preti, l’esperienza pastorale concreta. Quanto incidono effettivamente
queste opportunità?
R.
Credo che poche professioni offrano un’opportunità di formazione come il
ministero del prete. Dalla celebrazione liturgica alla preghiera
personale, dall’ascolto della parola di Dio all’incontro con le persone
in tutte le situazioni di vita: dalla nascita, matrimonio, sofferenza,
morte. Tutto può essere formativo: si tratta di vedere quanta capacità
di accogliere, quanta ospitalità al diverso, quanta disponibilità a
cambiare, la persona possiede. A sviluppare queste attitudini dovrebbero
servire gli strumenti della formazione permanente strutturata. Sulla
docibilitas,
come condizione fondamentale per la formazione permanente nella vita
ordinaria, è maestro il p. Amedeo Cencini in tutte le sue pubblicazioni
sulla formazione permanente.
D.
Quali
sono le difficoltà maggiori che oggi un prete incontra nel suo
ministero?
E
quelle che lo mettono in scacco?
R.
Mi
riconosco nei risultati delle ricerche, sintetizzate da Alessandro
Castegnaro, in un articolo su
Credere oggi
(6/2008, 7-21): il sovraccarico, la molteplicità delle competenze
richieste, la solitudine pastorale ed ecclesiale… Quelle che lo mettono
in scacco? Sono le stesse, con incidenza diversa da persona a persona,
secondo la personalità, la storia, le condizioni. Non c’è una storia
eguale all’altra. Quale che sia la causa iniziale, quasi sempre
l’approdo è l’area dell’affettività.
D.
Che
cosa apprezza di più nei preti di oggi?
R.
Ho
molta stima dei preti: più li conosco personalmente, più li amo e li
stimo. Ma alla domanda devo rispondere con un’altra domanda: chi sono i
preti d’oggi? Quelli delle ultime generazioni, i preti della stagione
del Papa Giovanni Paolo II, la maggioranza dei preti che sono quelli
oltre i sessant’anni? Vi è in quasi tutti una disponibilità al lavoro, a
volte eccessiva, la cura delle relazioni personali, la tenacia nel
testimoniare la fede in un mondo secolarizzato.
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