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n. 10   2010

La formazione dei preti
Intervista a don Giuseppe Zanon

 

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Don Giuseppe Zanon è prete della diocesi di Padova. Dopo aver avuto diversi compiti, è stato incaricato per la formazione permanente dei sacerdoti. In questo ruolo, ha ideato un’esperienza che si è rivelata di grande successo: percorsi di formazione per i sacerdoti, capaci di valorizzare la loro esperienza di fede e di vita, al di là del ruolo. E questo in un contesto di condivisione e di fraternità. Si tratta di un modello formativo che ora si va diffondendo anche in altre diocesi.

DA FUNZIONARI DEL SACRO A CREDENTI AUTENTICI

D. Che cosa si aspetta da questo anno sacerdotale un prete che si occupa da anni e con grande impegno della formazione dei suoi confratelli?

R. Quando si pone attenzione ad una realtà vuol dire che manca o che c’è qualche problema. Se il Papa ha indetto un anno sacerdotale ha percepito che questo settore delle vita della Chiesa aveva bisogno di una particolare attenzione. Le motivazioni che hanno mosso Benedetto XVI a questa decisione possono essere molte: incoraggiare i preti ad un rinnovamento del loro impegno di santificazione, difendere o promuovere l’immagine del sacerdote, oggi intaccata nei mass media, spingere i fedeli a prendersi cura delle vocazioni sacerdotali e dei sacerdoti.

Personalmente condivido queste attese, spero soprattutto che i preti possano trovare una spinta a prendersi cura della loro interiorità, della loro fede e della loro preghiera, perché non si accontentino di adempiere alle esigenze del ruolo e non siano “funzionari del  sacro”. Se i preti saranno di più credenti autentici, il ministero del prete sarà certamente rinnovato. Ho il timore che una parte dei preti trovi nel Curato d’Ars la giustificazione per un modello spiritualista, non in sintonia con la spiritualità della Chiesa del Vaticano II, e che un’altra parte non accolga la proposta per lo stesso motivo.

D. Quando un giovane diventa prete, quanta parte della sua formazione ha realizzato? Se lo dovesse esprimere con una percentuale?

R. Oggi ordinariamente uno entra in seminario a venti, trent’anni o più di età: la sua personalità è già per il settanta per cento costituita dall’esperienza familiare e dal percorso successivo. Se va bene, e non succede l’effetto tunnel, i sei anni di seminario, tra studi teologici e formazione, incidono per un quindici per cento. La vita, il ministero daranno un ulteriore apporto.

D. Che cosa gli manca, secondo lei, oltre all’esperienza pastorale?

R. Gli manca la vita che deve ancora vivere. È importante che il giovane prete non pensi di avere nella valigia tutto il necessario per essere prete, ma porti con sé una ventiquattrore con dentro gli strumenti per imparare. Se ha appreso la capacità di apprendere dalla vita, dal ministero, se conserva il desiderio di farsi aiutare ha veramente ricevuto il necessario dal seminario.

 

PROPOSTE FORMATIVE

D. Potrebbe raccontare brevemente ciò che sta facendo per la formazione dei preti nella sua diocesi?

R. La svolta nella formazione dei preti nella nostra diocesi è avvenuta in seguito all’esperienza di una settimana residenziale proposta ai preti nell’autunno del 2001. Il tema era la fede, il titolo era “Il presbitero, uomo e credente”. L’inizio della settimana è stata la condivisione della propria storia di fede in gruppi di dieci persone. Ognuno aveva a disposizione sei o sette minuti, gli altri erano in ascolto, senza ribattere e discutere, con l’impegno del riserbo su quanto veniva detto nel gruppo.

Gli effetti di questa metodologia, di partire cioè dalla narrazione e condivisione della fede, sono stati sorprendenti. I preti si sono dati fiducia l’un l’altro affidando agli altri qualcosa di intimo, si sono sentiti accolti, è cresciuta la stima reciproca, si è creata un’esperienza di fraternità nella comunicazione tra persone, non tra ruoli.

Ci siamo accorti che la condivisione della propria storia di fede e di vita è uno strumento di formazione altrettanto rilevante che la lezione magistrale, anzi produce risultati che questa non raggiunge. Da queste intuizioni è sorta una impostazione di vari moduli formativi che si è consolidata negli anni. Abbiamo realizzato due esperienze di settimane residenziali nel 2001 e nel 2004, privilegiando il metodo narrativo, senza rinunciare anche a interventi magistrali.

Ogni anno in autunno proponiamo ad ogni vicariato un incontro residenziale, nei primi anni solo per presbiteri, poi dal 2005 esteso anche ai laici, vicepresidenti dei Consigli pastorali parrocchiali. Si affronta il tema dell’anno pastorale in chiave formativa per i partecipanti, partendo dalla condivisione della propria esperienza di fede e di vita. Questo è un appuntamento che ormai è considerato come un momento rilevante di partenza dell’anno pastorale ed ha prodotto effetti di cambiamento di mentalità e una crescita di fraternità. Queste proposte sono rivolte a tutto il clero, ci sono altre proposte a categorie o singoli.

D. Che accoglienza ha avuto questa proposta dai preti stessi? Come la valutano? Quali sono secondo lei le ragioni del successo di questa impostazione?

R. Già la prima esperienza ha fatto maturare nei preti la richiesta alla diocesi di creare una struttura, con un progetto, persone, sede e soldi, perché si facesse carico della formazione permanente dei preti. È nato così nel 2002 l’Istituto san Luca. In questi anni è cresciuta la riconoscenza verso questo Istituto, perché i preti si sentono aiutati e avanzano ulteriori richieste di intervento. Riguardo al metodo della “narrazione della fede”, di partire cioè dalla condivisione, c’è stata una crescente accoglienza ed un progressivo apprendimento della metodologia.

Questo ha creato un clima di maggior fraternità, fra preti e fra preti e laici, mettendo le condizioni per una maggiore collaborazione pastorale. È cresciuta l’esperienza della sinodalità, mettendo in moto esigenze sempre più precise di corresponsabilità a tutti i livelli. Anche gli organismi di partecipazione ne hanno ricevuto uno stimolo

a crescere.

NARRARE LA FEDE…

D. Un prete impegnato nella pastorale di quale formazione oggi ha bisogno?

E per la sua crescita spirituale? Non ha l’impressione che i preti siano molto soli da questo punto di vista?

R. Quale formazione? La risposta potrebbe essere diversa a seconda del tipo di pastorale, e quindi di prete, una persona condivide, guardando al presente o al futuro prossimo. Alle spalle ci sono ovviamente ecclesiologie diverse e diverse letture dei segni dei tempi. Di nuovo rispetto al passato mi sembra vada sottolineata la necessità di coltivare la dimensione relazionale: oggi il prete non gode quasi più del prestigio che viene dal ruolo. Si rende credibile per la sua testimonianza di uomo e di credente. Questa testimonianza è veicolata dalla capacità di relazione.

Certo questa capacità relazionale ha bisogno di essere sostenuta da una autentica spiritualità. Penso che la sua domanda: i preti si sentono soli in questo cammino spirituale, colga un vissuto di molti, anche se a volte i singoli preti non utilizzano le offerte delle diocesi. Altri le cercano in associazioni e movimenti.

Noi stiamo puntando ad inserire il cammino della spiritualità dentro un cammino più complessivo: verso l’unità di vita. Per questo offriamo anche uno specifico contributo, pensato, preparato e realizzato insieme con la Congregazione dei Padri Venturini di Trento. Si tratta di una proposta di itinerario sabbatico di tre settimane. L’originalità e la scelta è di non puntare ad offrire nuovi contenuti, ma di concentrare l’attenzione sulla persona, nelle sue dimensioni di uomo, credente e prete. L’esperienza si svolge mediante la condivisione della propria storia di vita e di fede in un gruppo di una quindicina di preti. È un modulo formativo che si rivolge alle persone ordinarie, non ai casi patologici.

È stato collaudato da sette edizioni, con grande beneficio dei partecipanti, che hanno in genere cominciato a prendersi cura di se stessi nelle dimensioni umana, cristiana e presbiterale.

… PURIFICANDOLA CON LE SCIENZE UMANE

D. Talvolta si ha l’impressione che ai preti manchi soprattutto una buona formazione umana, quella che fa da fondamento ad ogni altra dimensione. Lei che ne pensa? Come nel suo progetto di formazione sacerdotale questo aspetto è tenuto presente?

 

R. Effettivamente, solo nell’esortazione Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II, la formazione umana appare distinta dalla formazione spirituale. Grazie alla buona formazione familiare, sociale ed ecclesiale del seminario, ci sono preti anziani dalla personalità sana e bella, da far invidia alle nuove generazioni. Però ci sono in genere delle unilateralità e delle carenze di formazione umana di cui gli stessi preti anziani si lamentano.

Oggi in genere i seminari sono impostati in modo diverso, curano la formazione umana e si avvalgono anche degli strumenti delle scienze umane. Questo lavoro sarà sempre più necessario, perché il contesto sociale e culturale, la situazione delle famiglie rischia di far crescere persone che hanno bisogno di un lavoro impegnativo per trovare unità, equilibrio, solidità.

Per aiutare la formazione della dimensione umana dei preti, stiamo sperimentando con loro lo strumento della supervisione, già in uso per le categorie che per la loro professione incontrano situazioni personali cariche di sofferenza e che rischiano in questa situazione il loro stesso equilibrio. In gruppi eterogenei di età e provenienza, otto preti s’incontrano con una guida esperta, un’ora e mezza al mese per condividere il loro vissuto nelle dinamiche pastorali. Dalla presenza e dalla puntualità dei partecipanti abbiamo capito l’incidenza di questo percorso. Imparano a guardare in faccia e a dare un nome alle loro emozioni e sentimenti senza rimuoverli, in un clima sereno di non giudizio.

MOLTEPLICI OPPORTUNITÀ

D. Un prete avrebbe diverse occasioni di formazione, soprattutto pastorale: l’esercizio stesso del ministero, il dialogo e la solidarietà con altri preti, l’esperienza pastorale concreta. Quanto incidono effettivamente queste opportunità?

 

R. Credo che poche professioni offrano un’opportunità di formazione come il ministero del prete. Dalla celebrazione liturgica alla preghiera personale, dall’ascolto della parola di Dio all’incontro con le persone in tutte le situazioni di vita: dalla nascita, matrimonio, sofferenza, morte. Tutto può essere formativo: si tratta di vedere quanta capacità di accogliere, quanta ospitalità al diverso, quanta disponibilità a cambiare, la persona possiede. A sviluppare queste attitudini dovrebbero servire gli strumenti della formazione permanente strutturata. Sulla docibilitas, come condizione fondamentale per la formazione permanente nella vita ordinaria, è maestro il p. Amedeo Cencini in tutte le sue pubblicazioni sulla formazione permanente.

D. Quali sono le difficoltà maggiori che oggi un prete incontra nel suo ministero?

E quelle che lo mettono in scacco?

R. Mi riconosco nei risultati delle ricerche, sintetizzate da Alessandro Castegnaro, in un articolo su Credere oggi (6/2008, 7-21): il sovraccarico, la molteplicità delle competenze richieste, la solitudine pastorale ed ecclesiale… Quelle che lo mettono in scacco? Sono le stesse, con incidenza diversa da persona a persona, secondo la personalità, la storia, le condizioni. Non c’è una storia eguale all’altra. Quale che sia la causa iniziale, quasi sempre l’approdo è l’area dell’affettività.

D. Che cosa apprezza di più nei preti di oggi?

R. Ho molta stima dei preti: più li conosco personalmente, più li amo e li stimo. Ma alla domanda devo rispondere con un’altra domanda: chi sono i preti d’oggi? Quelli delle ultime generazioni, i preti della stagione del Papa Giovanni Paolo II, la maggioranza dei preti che sono quelli oltre i sessant’anni? Vi è in quasi tutti una disponibilità al lavoro, a volte eccessiva, la cura delle relazioni personali, la tenacia nel testimoniare la fede in un mondo secolarizzato.

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