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ella
Chiesa le vocazioni, i ministeri, i carismi sono diversissimi, ma tutti
lavorano per la stessa causa, per l’avvento del Regno di Dio. Lo
Spirito, sempre creativo, suscita i doni più vari e nello stesso tempo
tutti li unifica nell’amore. La scelta dei padri del Concilio Vaticano
II di premettere, alla trattazione sulle varie vocazioni nella Chiesa,
la riflessione sull’unico popolo di Dio, ha messo potentemente in luce
l’unica dignità di tutti i fedeli e la convergenza verso l’unica opera.
«Non
c’è che un popolo di Dio scelto da lui: “un solo Signore, una sola fede,
un solo battesimo” (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro
rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la
vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola
speranza e una carità senza divisioni. […]. Quantunque alcuni per
volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e
pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza
riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli
nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32).
L’attenzione portata dall’USMI, in questo anno sacerdotale, sulla
sinergia tra religiosi e presbiteri, richiederebbe una premessa sul
compito specifico delle religiose e quello dei presbiteri, sul tipico
apporto delle due vocazioni nella vita della Chiesa e della sua
missione, la comunione tra di esse in vista della missione. Rivolgendomi
direttamente alle religiose mi viene tuttavia spontaneo riferirmi
soprattutto al compito richiesto loro nei confronti dei sacerdoti,
tralasciando di parlare di come questi dovrebbero porsi nei confronti
delle religiose. Svolgerò
il
tema a partire dalle tre dimensioni dell’ecclesiologia di comunione.
Lo
schema dei
tria
munera
ai
padri conciliari era apparso particolarmente adatto ad esprimere la
fisionomia e l’identità, la natura e la missione della vocazione dei
ministri ordinati. La
Lumen gentium,
parlando dei vescovi, delinea la funzione ad essi affidata
d’insegnamento, di santificazione, di governo (cf LG 25-27). La stessa
trilogia venne ripresa per i presbiteri (cf LG 28 e PO 4-6) e per i
diaconi (cf LG 29). Attorno a questo triplice
munere
si è
elaborata tutta una spiritualità presbiterale.
Il
Sinodo dei vescovi del 1985, a 20 anni dalla conclusione del Concilio,
prendendo le mosse dall’ecclesiologia di comunione, offrì una nuova
triade partendo dalle dimensioni fondamentali della Chiesa: mistero,
comunione, missione. È su questa triade che successivamente si struttura
l’impianto di fondo della
Christifideles laici
(1988), poi riproposta dalla
Pastores dabo vobis
(1992) come chiave per una nuova comprensione del ministero presbiterale
(n. 12).
Questi tre aspetti affondano le radici nei versetti centrali della
preghiera di Gesù per l’unità (cf Gv 17), che non a caso è stata
chiamata anche “Preghiera sacerdotale”: che siano uno come io e te (comunione)
- tu in me e io in loro (mistero)
- affinché il mondo creda (missione).
«L’ecclesiologia di comunione - ne deduce Giovanni Paolo II - diventa
decisiva per cogliere l’identità del presbitero, la sua originale
dignità, la sua vocazione e missione nel popolo di Dio e nel mondo» (Pastores
dabo vobis
12).
Potrebbe essere questa la chiave per una comprensione del compito delle
religiose
accanto ai presbiteri in vista della comune costruzione della Chiesa.
IL MISTERO DEL SACERDOZIO
E IL COMPITO DELLE RELIGIOSE
Non
nascondo un certo disagio nel parlare del “sacerdozio” dei presbiteri,
perché, nel Nuovo Testamento il sacerdozio è attribuito in esclusiva a
Cristo e, in rapporto a lui, a tutto il popolo di Dio. Nessuno degli
apostoli, neppure Paolo, si è mai attribuito questo titolo. Il disagio
viene soprattutto dal fatto che certi modelli di riferimento, anche in
questo anno sacerdotale, sono fermi a quelli anticotestamentari. Si
parla di “novelli leviti”, di “purità rituale”, di separazione dal
popolo… Si rischia un ritualismo esasperato, un formalismo distaccato,
un elitarismo di maniera, i quali contrastano con un Gesù che, proprio
durante la “santa messa”, lava i piedi, che non si fa servire, ma che
serve, che invita a prendere l’ultimo posto, che non pone a modello i
potenti, ma i piccoli…
Gesù
non apparteneva alla classe sacerdotale anticotestamentaria, quella dei
discendenti di Aronne, della tribù di Levi. Egli «passò beneficando e
risanando tutti» (At 10,38) come un “laico” e istituì il sacerdozio
cristiano senza alcuna continuità tra il sacerdozio ereditario giudaico
e quello che in lui appariva come una novità salvifica assoluta
(sacerdozio nella “figliolanza divina”, secondo le testimonianze estese
della Lettera agli Ebrei). Il sacerdozio nuovo di Gesù si identifica con
l’offerta di sé, della propria vita, donata senza riserve al Padre e
all’umanità.
L’apice di tale sacerdozio inatteso si rivela in un luogo inaudito: sul
Calvario, in un contesto decisamente “anti-sacerdotale” – un
immondezzaio - e in una veste estremamente “anti-liturgica” – un
semplice perizoma e forse neppure quello -, se il metro della sua
comprensione dovesse provenire dalla matrice giudaica. Questo sacerdote
nel suo nascere viene teologicamente dichiarato “maledetto” dalla Legge
stessa in quanto appeso sul legno (cf Dt 21,22-23), segno di un orribile
anti-valore e della completa inaccessibilità alla salvezza per chi
intendesse unirsi alla sua offerta (una vita dannata) e al suo altare
(il patibolo di chi muore senza speranza). Gesù muore in una completa
nudità umana e in un oscuramento relazionale impenetrabile. La sua è una
“liturgia” senza precedenti, lontana mille miglia dalla purità rituale.
Rimanendo però l’Amore fino al suo ultimo respiro (che coincide con il
dono del suo Spirito -
emisit spiritum),
per una risposta dello stesso Amore, viene riportato in vita per l’opera
del Padre e ridonato all’umanità quale sacerdote della definitiva
alleanza.
Gesù
pone fine a una forma provvisoria di sacerdozio e ne dischiude un’altra.
Nasce il culto nuovo che l’Apostolo Paolo proporrà ai seguaci di Gesù,
come l’unico modo “logico” di piacere a Dio (cf Rm 12, 1-2). Più tardi,
anche Giovanni lo indicherà come il “luogo” che il Padre cerca per
essere adorato «nello Spirito e nella verità», cioè in Gesù e nella sua
verità che coincide con l’amore (cf Gv 4,23).1
«Voi siete la stirpe eletta»
La
religiosa, al pari di ogni membro del popolo di Dio, ne è resa partecipe
in pienezza: «voi siete
la
stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio
si è acquistato perché proclami le opere meravigliose
di
lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che
un tempo eravate
non-popolo,
ora invece siete
il
popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia,
ora invece
avete ottenuto misericordia»
(1Pt 2,9-10).
Lo
ha espresso in maniera chiara il Concilio Vaticano II:
«Nostro Signore Gesù, “che il Padre santificò e inviò nel mondo” (Gv
10,36), ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione
dello Spirito che egli ha ricevuto: in esso, infatti, tutti i fedeli
formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per
mezzo di Gesù Cristo, e annunziano le grandezze di colui che li ha
chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Non vi è dunque
nessun membro che non abbia parte nella missione di tutto il corpo, ma
ciascuno di essi deve santificare Gesù nel suo cuore e rendere
testimonianza di Gesù con spirito di profezia» (PO 2).
Proprio perché partecipe del sacerdozio comune la religiosa può aiutare
il presbitero a ricordare come Gesù ha esercitato il suo sacerdozio e
prima ancora dove sta l’essenza della partecipazione, in quanto
presbitero, al sacerdozio di Gesù.
Il
mediatore fra Dio e gli uomini, «l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se
stesso in riscatto per tutti» (1Tm 2,5-6), ci ha riconciliati tutti «con
Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso
l’inimicizia» (Ef 2,14-16). Soltanto quando sarà levato in alto da
terra, attirerà tutti a sé (cf Gv 12,32). Il presbiterato è innanzitutto
partecipazione a questo evento pasquale: in termini paolini, è
“con-morto” e “con-risorto” con Cristo. È chiamato ad entrare nel
mistero di Cristo, a prendere la sua forma configurando la propria vita
a quella del suo essere Crocifisso e Risorto. Lo ricorda lo stesso rito
dell’ordinazione quando esorta l’ordinando, con riferimento all’annuncio
della Parola di Dio: “vivi quello che leggi e annuncia quello che vivi”,
e riguardo all’eucaristia: “agite quod tractatis”.
Essere “cristiano”
Soltanto rivivendo questo mistero - scrive Hubertus Blaumeiser -, il
presbitero non avrà la tentazione di essere una “istanza intermedia” fra
i credenti e Dio, ma vorrà essere pura trasparenza di Cristo e condurre
all’esperienza dell’immediatezza del rapporto fra credenti e Dio. La
massima perfezione del presbiterato sta in una sempre maggiore
trasparenza (inesistenza) che mette in luce Cristo come l’unico
sacerdote.
Se
egli ci ha schiuso il rapporto diretto con il Padre, attraverso il più
totale annientamento di sé (cf Fil 2) il presbitero non può non rivivere
in sé questo.2
Il
cardinale di Praga Miloslav Vlk ricordava che quando, per vent’anni, a
causa della proibizione di ogni attività pastorale da parte del governo,
era ridotto a un semplice lavavetri dei negozi, si sentiva costretto a
cercare la sua identità sacerdotale: senza ministero, senza apparente
utilità, senza essere
leader.
Eppure Gesù, quando fissato alla croce non poteva fare i miracoli,
predicare ma - abbandonato – solo tacere e patire, ha raggiunto il
vertice del suo sacerdozio. Ho trovato in lui la mia vera identità
sacerdotale, che mi ha riempito di gioia e di pace».3
Conchita Cabrera De Armida, che tanto ha vissuto e lavorato per i
sacerdoti, ha scritto in proposito: «Il grande ideale dell’anima del
sacerdote deve essere Gesù crocifisso, e la sua unica aspirazione sulla
terra deve essere di imitarlo, di assomigliare a lui interiormente ed
esteriormente. Gesù crocifisso: il suo libro, la sua meditazione, il suo
esempio, il suo ideale e il suo amore, perché non c’è niente più della
follia della Croce […] che stimoli l’amore divino nell’anima».4
Come
non cogliere l’affinità tra questa dimensione sostanziale del mistero
del sacerdozio ministeriale e la consacrazione religiosa? Le liturgie
dell’Oriente e dell’Occidente, nel rito della professione monastica o
religiosa e nella consacrazione delle vergini, testimoniano che la
Chiesa associa le persone prescelte all’oblazione, al sacrificio di
Cristo, fino a renderle sacrificio vivente a Dio gradito.
Con
l’esercizio del loro sacerdozio universale, partecipazione soggettiva e
perciò esistenzialmente conforme alla vita di amore di Gesù, le
religiose possono contribuire a rendere consapevole chi esercita il
ministero ordinato che egli resta “cristiano”. Quindi permane egli
stesso recettore della grazia, e non può accampare pretesa alcuna
derivante dal suo ruolo, se non quella della fedeltà e della
trasparenza. «Per voi religiose, dovrebbe dire il sacerdote parafrasando
sant’Agostino, sono presbitero, con voi religiose sono cristiano».
Conformato a Cristo immolato
La
vita delle consacrate, che non comporta esercizio di potere, che è tutta
incentrata sul mistero di morte e di vita di Cristo, potrebbe essere un
aiuto, un richiamo costante a esercitare il sacerdozio ministeriale come
piena conformazione a Cristo che si immola sulla croce, un
alter Christus
in
questa direzione. Questa attenzione costante all’essenza del sacerdozio
presbiterale va di pari passo con la vita di preghiera e la coltivazione
della dimensione contemplativa. Le esigenze del ministero sono talmente
impellenti ed esigenti che rischiano di fagocitare il prete in
un
vortice di attività capace di svuotarlo di ogni interiorità. Il
ministero è certamente causa di vita interiore sia perché consente
all’amore di esprimersi in tutta concretezza, sia perché è incontro con
Cristo in chi aspetta una parola, un consiglio, un aiuto, la
condivisione di una sofferenza…, ma esso va accompagnato da momenti di
silenzio, di raccoglimento, di preghiera, di adorazione.
«Dio
- diceva Paolo VI durante l’ordinazione di presbiteri e diaconi - ha in
noi il suo vivo strumento, il suo ministro, perciò il suo interprete,
l’eco della sua voce; il suo tabernacolo, il segno storico e sociale
della sua presenza nell’umanità; il focolare ardente d’irradiazione del
suo amore per gli uomini. Questo fatto prodigioso comporta un dovere, il
primo e il più dolce della nostra vita sacerdotale: quello dell’intimità
con Cristo, nello Spirito Santo, e perciò con Te, o Padre (cf Gv 16,27);
quello cioè di una autentica e personale vita interiore, non solo
gelosamente custodita nel pieno stato di grazia, ma altresì espressa in
un continuo atto riflesso di consapevolezza, di colloquio, di amorosa,
contemplativa sospensione. La ripetuta parola di Gesù nell’ultima cena:
“Manete in dilectione mea” (Gv 15,9; 15,4.) è per noi. In questo anelito
di unione con Cristo e con la rivelazione, da lui aperta sul mondo
divino ed umano, è il primo atteggiamento caratteristico del ministro
fatto rappresentante di Cristo».5
Medesima convinzione in Giovanni Paolo II: «Ho scritto una volta: “La
preghiera crea il sacerdote e il sacerdote si crea attraverso la
preghiera”. Sì, il sacerdote dev’essere innanzitutto
uomo
di preghiera,
convinto che il tempo dedicato all’incontro intimo con Dio è sempre il
meglio impiegato, perché oltre che a lui giova anche al suo lavoro
Apostolico ».6
Maestro di preghiera
Benedetto XVI, richiamando il mistero della mediazione di Cristo, ha
ricordato che il sacerdote può essere “ponte” se appartiene alle due
sfere, quella di Dio e quella dell’uomo. Ne trae quindi alcune pratiche
conclusioni. Se è così, un sacerdote deve essere realmente un uomo di
Dio, deve conoscere Dio da vicino, e lo conosce in comunione con Cristo.
Dobbiamo allora vivere questa comunione: la celebrazione della Santa
Messa, la preghiera del Breviario, la preghiera personale sono elementi
dell’essere con Dio, dell’essere uomini di Dio. Il nostro essere, la
nostra vita, il nostro cuore devono essere fissati in Dio, punto dal
quale non dobbiamo uscire. Ciò si realizza, si rafforza giorno per
giorno, anche con brevi preghiere nelle quali ci ricolleghiamo con Dio e
diventiamo sempre più uomini di Dio, che vivono nella sua comunione e
possono così parlare di Dio e guidare a Dio.7
La
comunità religiosa, luogo di contemplazione e di preghiera, potrebbe
diventare punto di riferimento per la contemplazione e per preghiera del
parroco o dei presbiteri del territorio. Il ritmo ordinato delle
pratiche di pietà e, prima ancora, la vita di consacrazione nel dono
assoluto e costante a Dio possono aiutare anche loro a trovare ritmi e
modi per l’adorazione silenziosa, l’intrattenimento amoroso con Colui
che li ha scelti per stare con lui ed essere strumenti del suo amore.
Quando s’invita il sacerdote a celebrare l’eucaristia nella cappella
della comunità o a guidare una
lectio divina,
un ritiro, un corso di Esercizi, lo si può coinvolgere nella preghiera
della comunità e non semplicemente “sfruttarlo” per la sua competenza o
per il suo ministero. È prima di tutto un fratello, chiamato alla
medesima sequela, a “manere in dilectione Domini”.
Anche la partecipazione delle religiose alla liturgia parrocchiale può
diventare un contributo perché la parrocchia si trasformi in “scuola di
preghiera” per tutti, sacerdote compreso.
L’ISTANZA DELLA COMUNIONE
Se
la Chiesa, come leggiamo all’inizio della
Lumen gentium,
«è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano» (n. 1), ogni altro sacramento, all’interno della sua struttura, è
una particolare espressione di questa sua natura sacramentale ed è per
l’intima unione con Dio e per l’unità di tutto il genere umano, compreso
il sacramento dell’Ordine.
Uscire dalla solitudine
La
comunione e l’unità sono costitutivi del suo essere mistero e
determinano la sua missione. Lo riafferma a chiare lettere il Concilio:
«Tutti i presbiteri […] sono uniti tra di loro da un’intima fraternità
sacramentale […]. Ciascuno dei presbiteri è dunque legato ai confratelli
col vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione nelle
forme più diverse, manifestando così quella unità con cui Cristo volle
che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo sappia che il Figlio
è stato inviato dal Padre» (PO 8).
Il
Concilio invita inoltre i presbiteri a riunirsi «volentieri per
trascorrere assieme serenamente qualche momento di distensione e riposo,
ricordando le parole con cui il Signore stesso invitava gli apostoli
stremati dalla fatica: “Venite in un luogo deserto a riposare un poco” (Mc
6,31)» (PO 8).
Questo tema fondamentale s’innesta direttamente sul sacramento che rende
partecipe del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, «in
modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la
comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi» (PO 7).
«Il ministero ordinato - ha poi spiegato in maniera inequivocabile
Giovanni Paolo II - ha una radicale “forma comunitaria” e può essere
assolto solo come “un’opera collettiva”» (Pastores
dabo vobis
17).
Da
questa prima fondamentale unità del presbiterio attorno al vescovo e tra
i presbiteri stessi, la comunione è chiamata a dilatarsi su tutto il
popolo cristiano: il sacerdote è l’uomo della comunione, chiamato a
vivere in comunione e a creare la comunione.
Ma
anche per questo aspetto sappiamo quante difficoltà incombono sui
sacerdoti, quanta solitudine! I risvolti pastorali sono quelli
dell’individualismo, della mancanza di confronto e di verifica, della
personalizzazione e del protagonismo. Più gravi possono essere le
conseguenze spirituali e psicologiche. Anche su questa attualità
dell’unità dei presbiteri il Concilio era stato perentorio:
«L’unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai
nostri giorni, dato che oggi, per diversi motivi, le imprese apostoliche
debbono non solo rivestire forme molteplici, ma anche trascendere i
limiti di una parrocchia o di una diocesi. Nessun presbitero è quindi in
condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e
per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri
presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa» (PO 7).
Un’istanza disattesa
È un
aspetto, questo della comunione, stranamente lasciato in oblio nel
riproporre l’identità del presbitero in questo anno sacerdotale. È una
istanza tanto disattesa quanto estremamente urgente, anche alla luce
della “spiritualità della comunione” che Giovanni Paolo II ha proposto
per il terzo millennio. Concretamente, ciò significa innanzi tutto:
aprire e mantenere aperto lo spazio in cui si possano esprimere i doni
di tutti i battezzati onde cooperare insieme al comune compito di
edificare il Corpo di Cristo (cf PO 9). Vale a dire: garantire che lo
spazio dei rapporti di reciprocità trinitaria non venga usurpato
indebitamente dall’uno o l’altro “io” che non si scioglie nella
koinonia
ecclesiale, e tanto meno dall’io del presbitero. Da parte di quest’ultimo
ciò domanda allo stesso tempo la massima presenza personale e la massima
trasparenza e spersonalizzazione, in modo da essere presenza e strumento
efficace di Gesù che, annullandosi in croce, ha aperto lo spazio per una
moltitudine di fratelli che, ripieni dello Spirito, sono tutti insieme
l’unico Figlio.
Lo
domanda il compito specifico dei presbiteri in seno all’unico popolo,
ossia la chiamata a vivere e operare in maniera tale da condurre tutti
al pieno dono di sé, affinché si possa realizzare quella circolarità
ecclesiale nella quale si manifesta la presenza del Risorto e del suo
Spirito. «Compito – come scrive Hubertus Blaumeiser – che essi dovranno
svolgere non tanto e non solo in maniera dottrinale o sotto forma di
guida (governo), ma innanzi tutto per la via dell’esempio e della
testimonianza, generando la vita trinitaria fra tutti, ad immagine di
Gesù abbandonato che, perdendo la sensazione della sua unione con il
Padre, ha effuso lo Spirito».
Verrebbe da dire che senza l’unità consumata con tutti i membri del
popolo di Dio, senza essere l’espressione della comunione ecclesiale, il
sacerdote ministro non può svolgere appieno e nella verità il proprio
mandato.
«Se
tu fossi un sacerdote, come celebreresti la Messa?», fu chiesto una
volta a Chiara Lubich. «Non sono un sacerdote e quindi non so - rispose.
Provo a dire lo stato d’animo che dovrebbe avere un sacerdote. Il
sacerdote in genere va da solo sull’altare, perché è solo con la sua
anima, con i suoi affetti... Il sacerdote - stava parlando del sacerdote
appartenente al Movimento dei focolari - può andare sull’altare solo se
è in unità con tutti gli altri. Quando è in unità con tutti gli altri,
non è più lui che va da solo a celebrare, ma va con quell’anima che è
l’anima di tutti. Siamo o non siamo un’anima sola?! Essere un’anima sola
non è un modo di dire, è la realtà che siamo, perché lo Spirito Santo ci
fa tutti uno. Gesù in mezzo non è una parola: ci fa tutti uno. È vero
che siamo due come è vero che siamo uno. Quando il sacerdote va
sull’altare con nell’anima tutti - perché è riuscito a fare unità con
tutti, ha la pace con tutti, ha comunicato tutto -, allora sente
veramente di essere a posto, di non essere debitore con nessuno. Quando
sale sull’altare così, non è più lui che sale, sale tutta l’unità
sull’altare, e solo così egli è un vero bambino evangelico».
Far crescere la spiritualità di comunione
Se
la religiosa è una “esperta di comunione” avrà molto a che fare nel
contribuire alla piena comunione del presbiterio e dilatarne la
comunione su tutto il popolo di Dio.
Da
anni questa particolare qualifica rimbalza da un documento ecclesiale
all’altro. Nel 1980, nel definire religiosi e religiose “esperti di
comunione”,
Optiones evangelicae
li
presentava come dei «chiamati ad essere nella Chiesa, comunità
ecclesiale, e nel mondo, testimoni e artefici di quel progetto di
comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio» (n.
24).
Nel
1996 Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica
Vita
consecrata,
riprendendo questa definizione, la portava alla sua logica conclusione:
se essi sono esperti di comunione, devono essere capaci di aiutare tutti
gli altri membri della Chiesa a vivere la comunione. Per questo «la
Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di
far
crescere la spiritualità della comunione»
(n. 51). Non si poteva esprimere in maniera più chiara ed esigente
quanto ci si attende dalle persone consacrate.
Questa esigenza nei confronti della vita religiosa nasce dalla
convinzione che la vita fraterna dei consacrati è “segno” della
Chiesa-comunione.
«La
storia della vita consacrata - leggiamo, ad esempio, in un altro
documento ecclesiale,
La
vita fraterna in comunità
-
testimonia modalità differenti di vivere l’unica comunione secondo la
natura dei singoli istituti. [...] Tuttavia nella varietà delle sue
forme, la vita fraterna in comune è sempre apparsa come una
radicalizzazione del comune spirito fraterno che unisce tutti i
cristiani».
Ed
ancora: «le famiglie religiose [...] hanno la missione di essere segni
particolarmente leggibili dell’intima comunione che anima e costituisce
la Chiesa, e di essere sostegno per la realizzazione del piano di Dio»
(n. 10).
A
sua volta l’esortazione apostolica
Vita
consecrata,
continuando l’insegnamento conciliare, ribadisce che la vita consacrata
costituisce un «segno eloquente della comunione ecclesiale» perché
«intende rispecchiare la profondità e la ricchezza di tale mistero» (nn.
42; 41). Di questo mistero di comunione la vita consacrata è «segno e
profezia», luogo privilegiato in cui si manifesta l’adempimento del
progetto di Dio sull’umanità, che è un progetto di comunione: renderla
partecipe della sua vita intima e così inserirla nella società d’amore
che è la Trinità.
“Esperte di comunione”, le religiose non esauriscono all’interno della
fraternità questo dono. L’aver sperimentato la vita fraterna in tutte le
sue dimensioni consente loro di porsi al servizio della Chiesa, fino a
diventare capaci di aiutare tutti gli altri membri della Chiesa a vivere
la comunione.
Vita
consecrata
fa
esplicito appello alla capacità dei consacrati di esprimere
«un’esemplare fraternità, che sia di stimolo alle altre componenti
ecclesiali» (n. 52). Infatti la vita consacrata, «per il fatto stesso di
coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza
privilegiata di dialogo», che può giovare ai rapporti che si devono
instaurare tra le differenti componenti ecclesiali (n. 74). Si potrà
pensare ad aprire le comunità religiose anche ai sacerdoti, perché vi
trovino “case e scuole di comunione”? Potremo invitare assieme i parroci
e i sacerdoti del territorio per favorire la loro comunione?
LA MISSIONE PER LA COMUNIONE
Il
terzo aspetto che caratterizza l’ecclesiologia e la spiritualità della
comunione è la missione. Rimane fissata per sempre la celebre frase di
Christifideles laici:
«la comunione è missionaria e la missione è per la comunione» (n. 32).
La missione del sacerdote non è confinata nella sua parrocchia o nella
sua diocesi. Già in
Presbyterorum ordinis
si
leggeva:
«Il
dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li
prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e
universale missione di salvezza, “fino agli ultimi confini della terra”
(At 1,8), dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della
stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli
apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo, di cui i presbiteri sono resi
realmente partecipi, si dirige necessariamente a tutti i popoli e a
tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, nazione o età,
come già veniva prefigurato in modo arcano con Melchisedek. Ricordino
quindi i presbiteri che a essi incombe la sollecitudine di tutte le
Chiese» (n. 10).
La
vita consacrata potrà aiutare i presbiteri, anche in questa dilatazione
degli orizzonti? Le nostre comunità sono in costante relazione con tutto
l’Istituto, con tutte le Chiese sparse nel mondo e respirano con
naturalezza ad ampi polmoni, condividendo gioie e angosce dei più
diversi popoli. «Ogni Istituto – ricorda l’Istruzione
Mutuae relationes
– è
nato per la Chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie
caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione specifica»
(n. 14; cf ET 50). A sua volta il documento della Congregazione per la
dottrina della fede,
La
Chiesa come comunione
(28.05.1992), accenna al compito ecclesiale che hanno le differenti
espressioni carismatiche:
«Nel
contesto della Chiesa intesa come comunione, vanno considerati pure i
molteplici istituti e società, espressione dei carismi di vita
consacrata e di vita apostolica, con i quali lo Spirito Santo
arricchisce il corpo mistico di Cristo: pur non appartenendo alla
struttura gerarchica della Chiesa, appartengono alla sua vita e alla sua
santità. Per il loro carattere sovradiocesano, radicato nel ministero
petrino, tutte queste realtà ecclesiali sono anche elementi al servizio
della comunione tra le diverse chiese particolari» (n. 46).
Pienamente inserita nella Chiesa locale, la religiosa rimane espressione
di quella Chiesa universale a cui il carisma la destina. «Ovunque vi
troviate nel mondo - affermava Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai
religiosi -, voi siete con la vostra vocazione ‘per la Chiesa
universale’, attraverso la vostra missione ‘in una determinata Chiesa
locale’. Quindi, la vostra vocazione per la Chiesa universale si
realizza entro le strutture della chiesa locale. Bisogna far di tutto,
affinché ‘la vita consacrata’ si sviluppi nelle singole chiese locali,
affinché contribuisca all’edificazione spirituale di esse, affinché
costituisca la loro particolare forza. L’unità con la Chiesa universale,
attraverso la chiesa locale: ecco la vostra via» (24 novembre 1978).
Si
può così portare, nella Chiesa nella quale si serve, quel particolare
soffio dello Spirito che l’arricchisce con i doni del carisma, la
spalanca sugli orizzonti della missione, la rinsalda nella comunione con
tutti i carismi e tutti i ministeri, nell’unità dell’unica famiglia.
Questo suppone una visione ecclesiologica che tenga effettivamente
presente il “principio carismatico”, accanto al quello “petrino”.
È
tuttora dominante una ecclesiologia che non dà sufficiente spazio, né a
livello dottrinale né a livello pastorale, alla dimensione carismatica.
La comunione “organica” ecclesiale – ricorda l’Esortazione apostolica
post-sinodale
Christifideles laici
– è
«caratterizzata dalla compresenza della diversità e della
complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri,
dei carismi e delle responsabilità » (n. 20).
Complementarietà con forze vive
Se
l’ecclesiologia di comunione si appiattisse sul principio gerarchico e
sulla rigida divisione in diocesi e parrocchie, quale unica struttura
ecclesiale, sarebbe giocoforza che anche la vita religiosa venisse
inquadrata in questa organizzazione o non presa in considerazione,
rischiando di rimanere un elemento decorativo della realtà ecclesiale,
bello, ma marginale.
Occorre aiutare il clero a prendere coscienza della complementarietà con
le altre forze vive nella Chiesa, a cominciare proprio dalle religiose,
ma non solo. A volte le religiose vengono emarginate dalla
programmazione pastorale o da compiti ministeriali, che pure potrebbero
svolgere ottimamente, perché ritenute impreparate dal punto di vista
teologico. Altre volte accade il contrario: accorgendosi che la
religiosa è più preparata del sacerdote, questi tenta di emarginarla
perché la considera una concorrente. Il rapporto di fraternità e di
comunione giocherà in maniera determinante per attuare il disegno di una
Chiesa comunione.
Il
carattere universale della missione della Chiesa, e in essa del
presbitero, richiede di intraprendere con il Cristo pasquale l’esodo
extra muros:
fuori dal recinto sacro (cf Eb 13,12). La tentazione è sempre quella di
restringersi al proprio gregge, di non varcare le soglie dell’ambito dei
“vicini”.
Uscire dal recinto sacro - come ha scritto Hubertus Blaumeiser -,
significa innanzi tutto: non scambiare i pur preziosissimi mezzi della
salvezza con il fine, che non è la struttura sacramentale e ministeriale
della Chiesa (essa è mezzo!) ma la partecipazione alla vita trinitaria
fino ai “confini” della terra: in ogni realtà umana, e quindi anche
negli ambiti più laici della vita, come la politica, l’economia, la
comunicazione, ecc.
Affinché la vita trinitaria possa fiorire con questa ampiezza e
informare sempre più e perciò salvare l’umano, occorre posporre una
visione di Chiesa troppo centrata
in
sacris,
e quindi anche nei ministri ordinati; se questi, come tutta la realtà
sacramentale-ministeriale hanno funzione strumentale, al centro non deve
rimanere il ministero ma Cristo stesso.
Vicinanza fraterna e amica
Uscire dal recinto sacro significa ancora: aprirsi a un dialogo
universale, percorrendo con Gesù la via dello svuotamento di sé e della
propria realtà “divina”; non tenere per sé alcuna ricchezza: né il
proprio ministero, né la sicurezza della propria fede, per essere con il
cuore e la mente completamente aperti a fianco a ogni fratello e a ogni
sorella. E portare proprio così, con la vita prima che con l’annuncio
esplicito, la realtà di quel Dio che è amore e che si è manifestato e
comunicato nel dono estremo di Cristo.
Le
religiose, grazie alle loro attività, sono in contatto con tante persone
che mai o raramente vengono avvicinate dal sacerdote e che rimangono
fuori del “recinto sacro”. Le religiose più di altri nella Chiesa si
rendono conto delle nuove emergenze, delle nuove povertà, delle nuove
aree bisognose di evangelizzazione.
Una
vicinanza fraterna e amica con i sacerdoti può aiutarli a prendere
coscienza di quanto avviene fuori degli ambiti della Chiesa e anche
delle nuove opportunità di portare il Vangelo là dove difficilmente
arriva.
La
religiosa ha poi opportunità uniche per una concreta vicinanza con la
gente. Può entrare in ambienti ostili o refrattari al sacerdote. Là dove
non si vuol vedere il prete, la religiosa è spesso attesa, accolta. Lui
rappresenta, anche senza volerlo, una immagine di Chiesa dura, nel suo
aspetto giuridico, di potere. Lei una immagine di Chiesa “mariana”,
accanto alla gente. Lei, perché donna, richiama la figura di madre e di
sorella, ed è più facilmente accettata.
Non
potrebbe la religiosa, grazie a questa sua possibilità, far da ponte per
il sacerdote? Si tratta di approfondire insieme con lui l’arte paolina
del “farsi tutto per tutti” (cf 1Cor 9,22), preferire di essere anatema
al posto dei propri fratelli (cf Rm 9,3), per far fiorire in ogni
persona e in ogni situazione umana quei germi della risurrezione che lo
Spirito, donato da Gesù in croce, ha posto ovunque.
«Quale pastore del gregge di Cristo - ha ricordato Giovanni Paolo II -,
[il sacerdote] non può dimenticare che il suo Maestro è giunto a donare
la propria vita per amore. Alla luce di un simile esempio, il sacerdote
sa di non essere più padrone di se stesso, ma di doversi fare tutto a
tutti, accettando ogni sacrificio connesso con l’amore. Ciò suppone un
cuore generoso ed aperto alla comprensione e alla simpatia di tutti».8
CONCLUSIONE
Il
rapporto è sempre reciproco e quindi anche i sacerdoti hanno un
contributo ricchissimo da offrire alla vita religiosa. Essendo questo
mio testo rivolto alle religiose, mi sono limitato, come scrivevo
all’inizio, all’apporto delle religiose alla vita dei sacerdoti. Gli
ambiti della collaborazione in vista della costruzione della Chiesa sono
molteplici, come ho appena accennato: il radicamento in Cristo
alimentato dalla vita di preghiera e dalla contemplazione, premessa per
ogni altro tipo di servizio; la crescita della comunione, struttura
intima e feconda della Chiesa; l’adempimento del mandato missionario
nella concretezza della presenza tra la gente e nell’apertura ai nuovi
bisogni, ai molteplici dialoghi a cui tutto il popolo di Dio è chiamato.
Sarà
accettata questa cooperazione della religiosa? Abitualmente i sacerdoti
sono abituati a dare più che a ricevere. Sono loro che nutrono
spiritualmente le persone. Ma la comunione e la reciprocità nella Chiesa
non sono mai a senso unico, come si evince da un passo dell’Esortazione
postsinodale
Christifideles laici:
«...gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i
religiosi nel loro cammino
spirituale e pastorale» (n. 63). Quello che vale per i laici vale anche
per le religiose che non soltanto possono, ma “devono” aiutare i
sacerdoti, sia per progredire nel cammino della vita spirituale, sia per
un rinnovato slancio pastorale.
Questa visione della reciprocità delle vocazioni nella Chiesa è iscritta
in una pagina luminosa della Costituzione conciliare sulla Chiesa:
«In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle
altre parti e a tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole
parti si accrescono con l’apporto di tutte, che sono in comunione le une
con le altre, e coi loro sforzi si orientano verso la pienezza
dell’unità. Ne consegue che il Popolo di Dio, non solo si raccoglie da
diversi popoli, ma in se stesso si sviluppa mediante l’unione di vari
ordini» (LG 13).
In
questo nuovo clima di comunione ecclesiale religiose e sacerdoti, lungi
dall’ignorarsi vicendevolmente o dall’organizzarsi soltanto in vista di
attività comuni, o dal rapportarsi unicamente attraverso una certa
subordinazione nella quale le religiose sarebbero solo dipendenti da
sacerdoti, possono ritrovare il giusto rapporto di comunione e una
rinnovata esperienza di fraternità evangelica e di vicendevole
emulazione carismatica. «Tutti gli stati di vita, sia nel loro insieme,
sia ciascuno di essi in rapporto agli altri sono al servizio della
crescita della Chiesa, sono modalità diverse che si unificano
profondamente nel
mistero di comunione
della Chiesa e che si coordinano dinamicamente nella sua unica missione»
(CfL 55).
Vita consecrata
rileva che «uno dei frutti della dottrina della Chiesa come comunione,
in questi anni, è stata la presa di coscienza che le sue componenti
possono e devono unire le loro forze, in atteggiamento di collaborazione
e di scambio di doni, per partecipare più efficacemente alla missione
ecclesiale» (n. 54). In definitiva è domandato di unire le ispirazioni e
le forze e di concertare insieme la maturazione del dialogo di comunione
all’interno della Chiesa.
Occorre affrontare insieme le sfide della nuova evangelizzazione, della
globalizzazione, del dialogo ecumenico e interreligioso, della
credibilità in una società secolarizzata, multiculturale, postmoderna.
Piuttosto che lasciarsi guidare da prevenzioni o perdersi in sterili
polemiche, occorre avere il coraggio di una autentica comunione
fraterna, piena di stima e di fiducia reciproca. Occorre
guardarsi gli uni gli altri,
conoscersi meglio, giungere alla comunione piena,
in
vista di guardare oltre,
insieme, e lavorare per la Chiesa e per l’intera umanità.
1
Cf A. WODKA,
«Un anno sacerdotale», in
Unità e Carismi
19 (2009) 6, 2-3.
2
Cf H. BLAUMEISER,
«Un mediatore che è nulla», in
Nuova Umanità
20 (1998) 385-407.
3
H. BLAUMEISER-T.
GANDOLFO
(a cura di),
Come il Padre ha amato me… 365 pensieri per l’anno
sacerdotale,
I, Città Nuova, Roma 2009, 25.
4
C. CABRERA
DE
ARMIDA,
Sacerdoti di Cristo,
Città Nuova, Roma 2008, 369.
5
PAOLO
VI, «Omelia», Bogotà, 22 agosto 1968, in H. BLAUMEISER-T.
GANDOLFO
(a cura di),
Come
il Padre ha amato me…,
55.
6
Dono e mistero,
LEV, Città del Vaticano 1996, 98-101.
7
Cf “Lectio divina”, Incontro con i parroci e i sacerdoti della diocesi
di Roma, 11 febbraio 2010.
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