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supplemento
n. 10   2010

Religiose e sacerdoti
costruttori della Chiesa

DI FABIO CIARDI

 

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ella Chiesa le vocazioni, i ministeri, i carismi sono diversissimi, ma tutti lavorano per la stessa causa, per l’avvento del Regno di Dio. Lo Spirito, sempre creativo, suscita i doni più vari e nello stesso tempo tutti li unifica nell’amore. La scelta dei padri del Concilio Vaticano II di premettere, alla trattazione sulle varie vocazioni nella Chiesa, la riflessione sull’unico popolo di Dio, ha messo potentemente in luce l’unica dignità di tutti i fedeli e la convergenza verso l’unica opera.

«Non c’è che un popolo di Dio scelto da lui: “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. […]. Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32).

L’attenzione portata dall’USMI, in questo anno sacerdotale, sulla sinergia tra religiosi e presbiteri, richiederebbe una premessa sul compito specifico delle religiose e quello dei presbiteri, sul tipico apporto delle due vocazioni nella vita della Chiesa e della sua missione, la comunione tra di esse in vista della missione. Rivolgendomi direttamente alle religiose mi viene tuttavia spontaneo riferirmi soprattutto al compito richiesto loro nei confronti dei sacerdoti, tralasciando di parlare di come questi dovrebbero porsi nei confronti delle religiose. Svolgerò

il tema a partire dalle tre dimensioni dell’ecclesiologia di comunione.

Lo schema dei tria munera ai padri conciliari era apparso particolarmente adatto ad esprimere la fisionomia e l’identità, la natura e la missione della vocazione dei ministri ordinati. La Lumen gentium, parlando dei vescovi, delinea la funzione ad essi affidata d’insegnamento, di santificazione, di governo (cf LG 25-27). La stessa trilogia venne ripresa per i presbiteri (cf LG 28 e PO 4-6) e per i diaconi (cf LG 29). Attorno a questo triplice munere si è elaborata tutta una spiritualità presbiterale.

Il Sinodo dei vescovi del 1985, a 20 anni dalla conclusione del Concilio, prendendo le mosse dall’ecclesiologia di comunione, offrì una nuova triade partendo dalle dimensioni fondamentali della Chiesa: mistero, comunione, missione. È su questa triade che successivamente si struttura l’impianto di fondo della Christifideles laici (1988), poi riproposta dalla Pastores dabo vobis (1992) come chiave per una nuova comprensione del ministero presbiterale (n. 12).

Questi tre aspetti affondano le radici nei versetti centrali della preghiera di Gesù per l’unità (cf Gv 17), che non a caso è stata chiamata anche “Preghiera sacerdotale”: che siano uno come io e te (comunione) - tu in me e io in loro (mistero) - affinché il mondo creda (missione). «L’ecclesiologia di comunione - ne deduce Giovanni Paolo II - diventa decisiva per cogliere l’identità del presbitero, la sua originale dignità, la sua vocazione e missione nel popolo di Dio e nel mondo» (Pastores dabo vobis 12). Potrebbe essere questa la chiave per una comprensione del compito delle religiose

accanto ai presbiteri in vista della comune costruzione della Chiesa.

 

IL MISTERO DEL SACERDOZIO
E IL COMPITO DELLE RELIGIOSE

Non nascondo un certo disagio nel parlare del “sacerdozio” dei presbiteri, perché, nel Nuovo Testamento il sacerdozio è attribuito in esclusiva a Cristo e, in rapporto a lui, a tutto il popolo di Dio. Nessuno degli apostoli, neppure Paolo, si è mai attribuito questo titolo. Il disagio viene soprattutto dal fatto che certi modelli di riferimento, anche in questo anno sacerdotale, sono fermi a quelli anticotestamentari. Si parla di “novelli leviti”, di “purità rituale”, di separazione dal popolo… Si rischia un ritualismo esasperato, un formalismo distaccato, un elitarismo di maniera, i quali contrastano con un Gesù che, proprio durante la “santa messa”, lava i piedi, che non si fa servire, ma che serve, che invita a prendere l’ultimo posto, che non pone a modello i potenti, ma i piccoli…

Gesù non apparteneva alla classe sacerdotale anticotestamentaria, quella dei discendenti di Aronne, della tribù di Levi. Egli «passò beneficando e risanando tutti» (At 10,38) come un “laico” e istituì il sacerdozio cristiano senza alcuna continuità tra il sacerdozio ereditario giudaico e quello che in lui appariva come una novità salvifica assoluta (sacerdozio nella “figliolanza divina”, secondo le testimonianze estese della Lettera agli Ebrei). Il sacerdozio nuovo di Gesù si identifica con l’offerta di sé, della propria vita, donata senza riserve al Padre e all’umanità.

L’apice di tale sacerdozio inatteso si rivela in un luogo inaudito: sul Calvario, in un contesto decisamente “anti-sacerdotale” – un immondezzaio - e in una veste estremamente “anti-liturgica” – un semplice perizoma e forse neppure quello -, se il metro della sua comprensione dovesse provenire dalla matrice giudaica. Questo sacerdote nel suo nascere viene teologicamente dichiarato “maledetto” dalla Legge stessa in quanto appeso sul legno (cf Dt 21,22-23), segno di un orribile anti-valore e della completa inaccessibilità alla salvezza per chi intendesse unirsi alla sua offerta (una vita dannata) e al suo altare (il patibolo di chi muore senza speranza). Gesù muore in una completa nudità umana e in un oscuramento relazionale impenetrabile. La sua è una “liturgia” senza precedenti, lontana mille miglia dalla purità rituale. Rimanendo però l’Amore fino al suo ultimo respiro (che coincide con il dono del suo Spirito - emisit spiritum), per una risposta dello stesso Amore, viene riportato in vita per l’opera del Padre e ridonato all’umanità quale sacerdote della definitiva alleanza.

Gesù pone fine a una forma provvisoria di sacerdozio e ne dischiude un’altra. Nasce il culto nuovo che l’Apostolo Paolo proporrà ai seguaci di Gesù, come l’unico modo “logico” di piacere a Dio (cf Rm 12, 1-2). Più tardi, anche Giovanni lo indicherà come il “luogo” che il Padre cerca per essere adorato «nello Spirito e nella verità», cioè in Gesù e nella sua verità che coincide con l’amore (cf Gv 4,23).1

«Voi siete la stirpe eletta»

La religiosa, al pari di ogni membro del popolo di Dio, ne è resa partecipe in pienezza: «voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt 2,9-10).

Lo ha espresso in maniera chiara il Concilio Vaticano II:

«Nostro Signore Gesù, “che il Padre santificò e inviò nel mondo” (Gv 10,36), ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione dello Spirito che egli ha ricevuto: in esso, infatti, tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per mezzo di Gesù Cristo, e annunziano le grandezze di colui che li ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Non vi è dunque nessun membro che non abbia parte nella missione di tutto il corpo, ma ciascuno di essi deve santificare Gesù nel suo cuore e rendere testimonianza di Gesù con spirito di profezia» (PO 2).

 

Proprio perché partecipe del sacerdozio comune la religiosa può aiutare il presbitero a ricordare come Gesù ha esercitato il suo sacerdozio e prima ancora dove sta l’essenza della partecipazione, in quanto presbitero, al sacerdozio di Gesù.

Il mediatore fra Dio e gli uomini, «l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1Tm 2,5-6), ci ha riconciliati tutti «con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia» (Ef 2,14-16). Soltanto quando sarà levato in alto da terra, attirerà tutti a sé (cf Gv 12,32). Il presbiterato è innanzitutto partecipazione a questo evento pasquale: in termini paolini, è “con-morto” e “con-risorto” con Cristo. È chiamato ad entrare nel mistero di Cristo, a prendere la sua forma configurando la propria vita a quella del suo essere Crocifisso e Risorto. Lo ricorda lo stesso rito dell’ordinazione quando esorta l’ordinando, con riferimento all’annuncio della Parola di Dio: “vivi quello che leggi e annuncia quello che vivi”, e riguardo all’eucaristia: “agite quod tractatis”.

Essere “cristiano”

Soltanto rivivendo questo mistero - scrive Hubertus Blaumeiser -, il presbitero non avrà la tentazione di essere una “istanza intermedia” fra i credenti e Dio, ma vorrà essere pura trasparenza di Cristo e condurre all’esperienza dell’immediatezza del rapporto fra credenti e Dio. La massima perfezione del presbiterato sta in una sempre maggiore trasparenza (inesistenza) che mette in luce Cristo come l’unico sacerdote.

Se egli ci ha schiuso il rapporto diretto con il Padre, attraverso il più totale annientamento di sé (cf Fil 2) il presbitero non può non rivivere in sé questo.2

Il cardinale di Praga Miloslav Vlk ricordava che quando, per vent’anni, a causa della proibizione di ogni attività pastorale da parte del governo, era ridotto a un semplice lavavetri dei negozi, si sentiva costretto a cercare la sua identità sacerdotale: senza ministero, senza apparente utilità, senza essere leader. Eppure Gesù, quando fissato alla croce non poteva fare i miracoli, predicare ma - abbandonato – solo tacere e patire, ha raggiunto il vertice del suo sacerdozio. Ho trovato in lui la mia vera identità sacerdotale, che mi ha riempito di gioia e di pace».3

Conchita Cabrera De Armida, che tanto ha vissuto e lavorato per i sacerdoti, ha scritto in proposito: «Il grande ideale dell’anima del sacerdote deve essere Gesù crocifisso, e la sua unica aspirazione sulla terra deve essere di imitarlo, di assomigliare a lui interiormente ed esteriormente. Gesù crocifisso: il suo libro, la sua meditazione, il suo esempio, il suo ideale e il suo amore, perché non c’è niente più della follia della Croce […] che stimoli l’amore divino nell’anima».4

Come non cogliere l’affinità tra questa dimensione sostanziale del mistero del sacerdozio ministeriale e la consacrazione religiosa? Le liturgie dell’Oriente e dell’Occidente, nel rito della professione monastica o religiosa e nella consacrazione delle vergini, testimoniano che la Chiesa associa le persone prescelte all’oblazione, al sacrificio di Cristo, fino a renderle sacrificio vivente a Dio gradito.

Con l’esercizio del loro sacerdozio universale, partecipazione soggettiva e perciò esistenzialmente conforme alla vita di amore di Gesù, le religiose possono contribuire a rendere consapevole chi esercita il ministero ordinato che egli resta “cristiano”. Quindi permane egli stesso recettore della grazia, e non può accampare pretesa alcuna derivante dal suo ruolo, se non quella della fedeltà e della trasparenza. «Per voi religiose, dovrebbe dire il sacerdote parafrasando sant’Agostino, sono presbitero, con voi religiose sono cristiano».

 

Conformato a Cristo immolato

La vita delle consacrate, che non comporta esercizio di potere, che è tutta incentrata sul mistero di morte e di vita di Cristo, potrebbe essere un aiuto, un richiamo costante a esercitare il sacerdozio ministeriale come piena conformazione a Cristo che si immola sulla croce, un alter Christus in questa direzione. Questa attenzione costante all’essenza del sacerdozio presbiterale va di pari passo con la vita di preghiera e la coltivazione della dimensione contemplativa. Le esigenze del ministero sono talmente impellenti ed esigenti che rischiano di fagocitare il prete in

un vortice di attività capace di svuotarlo di ogni interiorità. Il ministero è certamente causa di vita interiore sia perché consente all’amore di esprimersi in tutta concretezza, sia perché è incontro con Cristo in chi aspetta una parola, un consiglio, un aiuto, la condivisione di una sofferenza…, ma esso va accompagnato da momenti di silenzio, di raccoglimento, di preghiera, di adorazione.

«Dio - diceva Paolo VI durante l’ordinazione di presbiteri e diaconi - ha in noi il suo vivo strumento, il suo ministro, perciò il suo interprete, l’eco della sua voce; il suo tabernacolo, il segno storico e sociale della sua presenza nell’umanità; il focolare ardente d’irradiazione del suo amore per gli uomini. Questo fatto prodigioso comporta un dovere, il primo e il più dolce della nostra vita sacerdotale: quello dell’intimità con Cristo, nello Spirito Santo, e perciò con Te, o Padre (cf Gv 16,27); quello cioè di una autentica e personale vita interiore, non solo gelosamente custodita nel pieno stato di grazia, ma altresì espressa in un continuo atto riflesso di consapevolezza, di colloquio, di amorosa, contemplativa sospensione. La ripetuta parola di Gesù nell’ultima cena: “Manete in dilectione mea” (Gv 15,9; 15,4.) è per noi. In questo anelito di unione con Cristo e con la rivelazione, da lui aperta sul mondo divino ed umano, è il primo atteggiamento caratteristico del ministro fatto rappresentante di Cristo».5

Medesima convinzione in Giovanni Paolo II: «Ho scritto una volta: “La preghiera crea il sacerdote e il sacerdote si crea attraverso la preghiera”. Sì, il sacerdote dev’essere innanzitutto uomo di preghiera, convinto che il tempo dedicato all’incontro intimo con Dio è sempre il meglio impiegato, perché oltre che a lui giova anche al suo lavoro Apostolico ».6

Maestro di preghiera

Benedetto XVI, richiamando il mistero della mediazione di Cristo, ha ricordato che il sacerdote può essere “ponte” se appartiene alle due sfere, quella di Dio e quella dell’uomo. Ne trae quindi alcune pratiche conclusioni. Se è così, un sacerdote deve essere realmente un uomo di Dio, deve conoscere Dio da vicino, e lo conosce in comunione con Cristo. Dobbiamo allora vivere questa comunione: la celebrazione della Santa Messa, la preghiera del Breviario, la preghiera personale sono elementi dell’essere con Dio, dell’essere uomini di Dio. Il nostro essere, la nostra vita, il nostro cuore devono essere fissati in Dio, punto dal quale non dobbiamo uscire. Ciò si realizza, si rafforza giorno per giorno, anche con brevi preghiere nelle quali ci ricolleghiamo con Dio e diventiamo sempre più uomini di Dio, che vivono nella sua comunione e possono così parlare di Dio e guidare a Dio.7

La comunità religiosa, luogo di contemplazione e di preghiera, potrebbe diventare punto di riferimento per la contemplazione e per preghiera del parroco o dei presbiteri del territorio. Il ritmo ordinato delle pratiche di pietà e, prima ancora, la vita di consacrazione nel dono assoluto e costante a Dio possono aiutare anche loro a trovare ritmi e modi per l’adorazione silenziosa, l’intrattenimento amoroso con Colui che li ha scelti per stare con lui ed essere strumenti del suo amore.

Quando s’invita il sacerdote a celebrare l’eucaristia nella cappella della comunità o a guidare una lectio divina, un ritiro, un corso di Esercizi, lo si può coinvolgere nella preghiera della comunità e non semplicemente “sfruttarlo” per la sua competenza o per il suo ministero. È prima di tutto un fratello, chiamato alla medesima sequela, a “manere in dilectione Domini”.

Anche la partecipazione delle religiose alla liturgia parrocchiale può diventare un contributo perché la parrocchia si trasformi in “scuola di preghiera” per tutti, sacerdote compreso.

 

L’ISTANZA DELLA COMUNIONE

Se la Chiesa, come leggiamo all’inizio della Lumen gentium, «è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (n. 1), ogni altro sacramento, all’interno della sua struttura, è una particolare espressione di questa sua natura sacramentale ed è per l’intima unione con Dio e per l’unità di tutto il genere umano, compreso il sacramento dell’Ordine.

Uscire dalla solitudine

La comunione e l’unità sono costitutivi del suo essere mistero e determinano la sua missione. Lo riafferma a chiare lettere il Concilio:

«Tutti i presbiteri […] sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale […]. Ciascuno dei presbiteri è dunque legato ai confratelli col vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione nelle forme più diverse, manifestando così quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre» (PO 8).

Il Concilio invita inoltre i presbiteri a riunirsi «volentieri per trascorrere assieme serenamente qualche momento di distensione e riposo, ricordando le parole con cui il Signore stesso invitava gli apostoli stremati dalla fatica: “Venite in un luogo deserto a riposare un poco” (Mc 6,31)» (PO 8).

Questo tema fondamentale s’innesta direttamente sul sacramento che rende partecipe del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, «in modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi» (PO 7). «Il ministero ordinato - ha poi spiegato in maniera inequivocabile Giovanni Paolo II - ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva”» (Pastores dabo vobis 17).

Da questa prima fondamentale unità del presbiterio attorno al vescovo e tra i presbiteri stessi, la comunione è chiamata a dilatarsi su tutto il popolo cristiano: il sacerdote è l’uomo della comunione, chiamato a vivere in comunione e a creare la comunione.

Ma anche per questo aspetto sappiamo quante difficoltà incombono sui sacerdoti, quanta solitudine! I risvolti pastorali sono quelli dell’individualismo, della mancanza di confronto e di verifica, della personalizzazione e del protagonismo. Più gravi possono essere le conseguenze spirituali e psicologiche. Anche su questa attualità dell’unità dei presbiteri il Concilio era stato perentorio:

«L’unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai nostri giorni, dato che oggi, per diversi motivi, le imprese apostoliche debbono non solo rivestire forme molteplici, ma anche trascendere i limiti di una parrocchia o di una diocesi. Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa» (PO 7).

 

Un’istanza disattesa

È un aspetto, questo della comunione, stranamente lasciato in oblio nel riproporre l’identità del presbitero in questo anno sacerdotale. È una istanza tanto disattesa quanto estremamente urgente, anche alla luce della “spiritualità della comunione” che Giovanni Paolo II ha proposto per il terzo millennio. Concretamente, ciò significa innanzi tutto: aprire e mantenere aperto lo spazio in cui si possano esprimere i doni di tutti i battezzati onde cooperare insieme al comune compito di edificare il Corpo di Cristo (cf PO 9). Vale a dire: garantire che lo spazio dei rapporti di reciprocità trinitaria non venga usurpato indebitamente dall’uno o l’altro “io” che non si scioglie nella koinonia ecclesiale, e tanto meno dall’io del presbitero. Da parte di quest’ultimo ciò domanda allo stesso tempo la massima presenza personale e la massima trasparenza e spersonalizzazione, in modo da essere presenza e strumento efficace di Gesù che, annullandosi in croce, ha aperto lo spazio per una moltitudine di fratelli che, ripieni dello Spirito, sono tutti insieme l’unico Figlio.

Lo domanda il compito specifico dei presbiteri in seno all’unico popolo, ossia la chiamata a vivere e operare in maniera tale da condurre tutti al pieno dono di sé, affinché si possa realizzare quella circolarità ecclesiale nella quale si manifesta la presenza del Risorto e del suo Spirito. «Compito – come scrive Hubertus Blaumeiser – che essi dovranno svolgere non tanto e non solo in maniera dottrinale o sotto forma di guida (governo), ma innanzi tutto per la via dell’esempio e della testimonianza, generando la vita trinitaria fra tutti, ad immagine di Gesù abbandonato che, perdendo la sensazione della sua unione con il Padre, ha effuso lo Spirito».

Verrebbe da dire che senza l’unità consumata con tutti i membri del popolo di Dio, senza essere l’espressione della comunione ecclesiale, il sacerdote ministro non può svolgere appieno e nella verità il proprio mandato.

«Se tu fossi un sacerdote, come celebreresti la Messa?», fu chiesto una volta a Chiara Lubich. «Non sono un sacerdote e quindi non so - rispose. Provo a dire lo stato d’animo che dovrebbe avere un sacerdote. Il sacerdote in genere va da solo sull’altare, perché è solo con la sua anima, con i suoi affetti... Il sacerdote - stava parlando del sacerdote appartenente al Movimento dei focolari - può andare sull’altare solo se è in unità con tutti gli altri. Quando è in unità con tutti gli altri, non è più lui che va da solo a celebrare, ma va con quell’anima che è l’anima di tutti. Siamo o non siamo un’anima sola?! Essere un’anima sola non è un modo di dire, è la realtà che siamo, perché lo Spirito Santo ci fa tutti uno. Gesù in mezzo non è una parola: ci fa tutti uno. È vero che siamo due come è vero che siamo uno. Quando il sacerdote va sull’altare con nell’anima tutti - perché è riuscito a fare unità con tutti, ha la pace con tutti, ha comunicato tutto -, allora sente veramente di essere a posto, di non essere debitore con nessuno. Quando sale sull’altare così, non è più lui che sale, sale tutta l’unità sull’altare, e solo così egli è un vero bambino evangelico».

Far crescere la spiritualità di comunione

Se la religiosa è una “esperta di comunione” avrà molto a che fare nel contribuire alla piena comunione del presbiterio e dilatarne la comunione su tutto il popolo di Dio.

Da anni questa particolare qualifica rimbalza da un documento ecclesiale all’altro. Nel 1980, nel definire religiosi e religiose “esperti di comunione”, Optiones evangelicae li presentava come dei «chiamati ad essere nella Chiesa, comunità ecclesiale, e nel mondo, testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio» (n. 24).

Nel 1996 Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Vita consecrata, riprendendo questa definizione, la portava alla sua logica conclusione: se essi sono esperti di comunione, devono essere capaci di aiutare tutti gli altri membri della Chiesa a vivere la comunione. Per questo «la Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione» (n. 51). Non si poteva esprimere in maniera più chiara ed esigente quanto ci si attende dalle persone consacrate.

Questa esigenza nei confronti della vita religiosa nasce dalla convinzione che la vita fraterna dei consacrati è “segno” della Chiesa-comunione.

«La storia della vita consacrata - leggiamo, ad esempio, in un altro documento ecclesiale, La vita fraterna in comunità - testimonia modalità differenti di vivere l’unica comunione secondo la natura dei singoli istituti. [...] Tuttavia nella varietà delle sue forme, la vita fraterna in comune è sempre apparsa come una radicalizzazione del comune spirito fraterno che unisce tutti i cristiani».

Ed ancora: «le famiglie religiose [...] hanno la missione di essere segni particolarmente leggibili dell’intima comunione che anima e costituisce la Chiesa, e di essere sostegno per la realizzazione del piano di Dio» (n. 10).

A sua volta l’esortazione apostolica Vita consecrata, continuando l’insegnamento conciliare, ribadisce che la vita consacrata costituisce un «segno eloquente della comunione ecclesiale» perché «intende rispecchiare la profondità e la ricchezza di tale mistero» (nn. 42; 41). Di questo mistero di comunione la vita consacrata è «segno e profezia», luogo privilegiato in cui si manifesta l’adempimento del progetto di Dio sull’umanità, che è un progetto di comunione: renderla partecipe della sua vita intima e così inserirla nella società d’amore che è la Trinità.

“Esperte di comunione”, le religiose non esauriscono all’interno della fraternità questo dono. L’aver sperimentato la vita fraterna in tutte le sue dimensioni consente loro di porsi al servizio della Chiesa, fino a diventare capaci di aiutare tutti gli altri membri della Chiesa a vivere la comunione. Vita consecrata fa esplicito appello alla capacità dei consacrati di esprimere «un’esemplare fraternità, che sia di stimolo alle altre componenti ecclesiali» (n. 52). Infatti la vita consacrata, «per il fatto stesso di coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza privilegiata di dialogo», che può giovare ai rapporti che si devono instaurare tra le differenti componenti ecclesiali (n. 74). Si potrà pensare ad aprire le comunità religiose anche ai sacerdoti, perché vi trovino “case e scuole di comunione”? Potremo invitare assieme i parroci e i sacerdoti del territorio per favorire la loro comunione?

LA MISSIONE PER LA COMUNIONE

Il terzo aspetto che caratterizza l’ecclesiologia e la spiritualità della comunione è la missione. Rimane fissata per sempre la celebre frase di Christifideles laici: «la comunione è missionaria e la missione è per la comunione» (n. 32). La missione del sacerdote non è confinata nella sua parrocchia o nella sua diocesi. Già in Presbyterorum ordinis si leggeva:

«Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, “fino agli ultimi confini della terra” (At 1,8), dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo, di cui i presbiteri sono resi realmente partecipi, si dirige necessariamente a tutti i popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, nazione o età, come già veniva prefigurato in modo arcano con Melchisedek. Ricordino quindi i presbiteri che a essi incombe la sollecitudine di tutte le Chiese» (n. 10).

La vita consacrata potrà aiutare i presbiteri, anche in questa dilatazione degli orizzonti? Le nostre comunità sono in costante relazione con tutto l’Istituto, con tutte le Chiese sparse nel mondo e respirano con naturalezza ad ampi polmoni, condividendo gioie e angosce dei più diversi popoli. «Ogni Istituto – ricorda l’Istruzione Mutuae relationes – è nato per la Chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione specifica» (n. 14; cf ET 50). A sua volta il documento della Congregazione per la dottrina della fede, La Chiesa come comunione (28.05.1992), accenna al compito ecclesiale che hanno le differenti espressioni carismatiche:

«Nel contesto della Chiesa intesa come comunione, vanno considerati pure i molteplici istituti e società, espressione dei carismi di vita consacrata e di vita apostolica, con i quali lo Spirito Santo arricchisce il corpo mistico di Cristo: pur non appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, appartengono alla sua vita e alla sua santità. Per il loro carattere sovradiocesano, radicato nel ministero petrino, tutte queste realtà ecclesiali sono anche elementi al servizio della comunione tra le diverse chiese particolari» (n. 46).

Pienamente inserita nella Chiesa locale, la religiosa rimane espressione di quella Chiesa universale a cui il carisma la destina. «Ovunque vi troviate nel mondo - affermava Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai religiosi -, voi siete con la vostra vocazione ‘per la Chiesa universale’, attraverso la vostra missione ‘in una determinata Chiesa locale’. Quindi, la vostra vocazione per la Chiesa universale si realizza entro le strutture della chiesa locale. Bisogna far di tutto, affinché ‘la vita consacrata’ si sviluppi nelle singole chiese locali, affinché contribuisca all’edificazione spirituale di esse, affinché costituisca la loro particolare forza. L’unità con la Chiesa universale, attraverso la chiesa locale: ecco la vostra via» (24 novembre 1978).

Si può così portare, nella Chiesa nella quale si serve, quel particolare soffio dello Spirito che l’arricchisce con i doni del carisma, la spalanca sugli orizzonti della missione, la rinsalda nella comunione con tutti i carismi e tutti i ministeri, nell’unità dell’unica famiglia. Questo suppone una visione ecclesiologica che tenga effettivamente presente il “principio carismatico”, accanto al quello “petrino”.

È tuttora dominante una ecclesiologia che non dà sufficiente spazio, né a livello dottrinale né a livello pastorale, alla dimensione carismatica. La comunione “organica” ecclesiale – ricorda l’Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici – è «caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità » (n. 20).

Complementarietà con forze vive

Se l’ecclesiologia di comunione si appiattisse sul principio gerarchico e sulla rigida divisione in diocesi e parrocchie, quale unica struttura ecclesiale, sarebbe giocoforza che anche la vita religiosa venisse inquadrata in questa organizzazione o non presa in considerazione, rischiando di rimanere un elemento decorativo della realtà ecclesiale, bello, ma marginale.

Occorre aiutare il clero a prendere coscienza della complementarietà con le altre forze vive nella Chiesa, a cominciare proprio dalle religiose, ma non solo. A volte le religiose vengono emarginate dalla programmazione pastorale o da compiti ministeriali, che pure potrebbero svolgere ottimamente, perché ritenute impreparate dal punto di vista teologico. Altre volte accade il contrario: accorgendosi che la religiosa è più preparata del sacerdote, questi tenta di emarginarla perché la considera una concorrente. Il rapporto di fraternità e di comunione giocherà in maniera determinante per attuare il disegno di una Chiesa comunione.

Il carattere universale della missione della Chiesa, e in essa del presbitero, richiede di intraprendere con il Cristo pasquale l’esodo extra muros: fuori dal recinto sacro (cf Eb 13,12). La tentazione è sempre quella di restringersi al proprio gregge, di non varcare le soglie dell’ambito dei “vicini”.

Uscire dal recinto sacro - come ha scritto Hubertus Blaumeiser -, significa innanzi tutto: non scambiare i pur preziosissimi mezzi della salvezza con il fine, che non è la struttura sacramentale e ministeriale della Chiesa (essa è mezzo!) ma la partecipazione alla vita trinitaria fino ai “confini” della terra: in ogni realtà umana, e quindi anche negli ambiti più laici della vita, come la politica, l’economia, la comunicazione, ecc.

Affinché la vita trinitaria possa fiorire con questa ampiezza e informare sempre più e perciò salvare l’umano, occorre posporre una visione di Chiesa troppo centrata in sacris, e quindi anche nei ministri ordinati; se questi, come tutta la realtà sacramentale-ministeriale hanno funzione strumentale, al centro non deve rimanere il ministero ma Cristo stesso.

Vicinanza fraterna e amica

Uscire dal recinto sacro significa ancora: aprirsi a un dialogo universale, percorrendo con Gesù la via dello svuotamento di sé e della propria realtà “divina”; non tenere per sé alcuna ricchezza: né il proprio ministero, né la sicurezza della propria fede, per essere con il cuore e la mente completamente aperti a fianco a ogni fratello e a ogni sorella. E portare proprio così, con la vita prima che con l’annuncio esplicito, la realtà di quel Dio che è amore e che si è manifestato e comunicato nel dono estremo di Cristo.

Le religiose, grazie alle loro attività, sono in contatto con tante persone che mai o raramente vengono avvicinate dal sacerdote e che rimangono fuori del “recinto sacro”. Le religiose più di altri nella Chiesa si rendono conto delle nuove emergenze, delle nuove povertà, delle nuove aree bisognose di evangelizzazione.

Una vicinanza fraterna e amica con i sacerdoti può aiutarli a prendere coscienza di quanto avviene fuori degli ambiti della Chiesa e anche delle nuove opportunità di portare il Vangelo là dove difficilmente arriva.

La religiosa ha poi opportunità uniche per una concreta vicinanza con la gente. Può entrare in ambienti ostili o refrattari al sacerdote. Là dove non si vuol vedere il prete, la religiosa è spesso attesa, accolta. Lui rappresenta, anche senza volerlo, una immagine di Chiesa dura, nel suo aspetto giuridico, di potere. Lei una immagine di Chiesa “mariana”, accanto alla gente. Lei, perché donna, richiama la figura di madre e di sorella, ed è più facilmente accettata.

Non potrebbe la religiosa, grazie a questa sua possibilità, far da ponte per il sacerdote? Si tratta di approfondire insieme con lui l’arte paolina del “farsi tutto per tutti” (cf 1Cor 9,22), preferire di essere anatema al posto dei propri fratelli (cf Rm 9,3), per far fiorire in ogni persona e in ogni situazione umana quei germi della risurrezione che lo Spirito, donato da Gesù in croce, ha posto ovunque.

«Quale pastore del gregge di Cristo - ha ricordato Giovanni Paolo II -, [il sacerdote] non può dimenticare che il suo Maestro è giunto a donare la propria vita per amore. Alla luce di un simile esempio, il sacerdote sa di non essere più padrone di se stesso, ma di doversi fare tutto a tutti, accettando ogni sacrificio connesso con l’amore. Ciò suppone un cuore generoso ed aperto alla comprensione e alla simpatia di tutti».8

CONCLUSIONE

Il rapporto è sempre reciproco e quindi anche i sacerdoti hanno un contributo ricchissimo da offrire alla vita religiosa. Essendo questo mio testo rivolto alle religiose, mi sono limitato, come scrivevo all’inizio, all’apporto delle religiose alla vita dei sacerdoti. Gli ambiti della collaborazione in vista della costruzione della Chiesa sono molteplici, come ho appena accennato: il radicamento in Cristo alimentato dalla vita di preghiera e dalla contemplazione, premessa per ogni altro tipo di servizio; la crescita della comunione, struttura intima e feconda della Chiesa; l’adempimento del mandato missionario nella concretezza della presenza tra la gente e nell’apertura ai nuovi bisogni, ai molteplici dialoghi a cui tutto il popolo di Dio è chiamato.

Sarà accettata questa cooperazione della religiosa? Abitualmente i sacerdoti sono abituati a dare più che a ricevere. Sono loro che nutrono spiritualmente le persone. Ma la comunione e la reciprocità nella Chiesa non sono mai a senso unico, come si evince da un passo dell’Esortazione postsinodale Christifideles laici: «...gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino

spirituale e pastorale» (n. 63). Quello che vale per i laici vale anche per le religiose che non soltanto possono, ma “devono” aiutare i sacerdoti, sia per progredire nel cammino della vita spirituale, sia per un rinnovato slancio pastorale.

Questa visione della reciprocità delle vocazioni nella Chiesa è iscritta in una pagina luminosa della Costituzione conciliare sulla Chiesa:

«In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si accrescono con l’apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre, e coi loro sforzi si orientano verso la pienezza dell’unità. Ne consegue che il Popolo di Dio, non solo si raccoglie da diversi popoli, ma in se stesso si sviluppa mediante l’unione di vari ordini» (LG 13).

In questo nuovo clima di comunione ecclesiale religiose e sacerdoti, lungi dall’ignorarsi vicendevolmente o dall’organizzarsi soltanto in vista di attività comuni, o dal rapportarsi unicamente attraverso una certa subordinazione nella quale le religiose sarebbero solo dipendenti da sacerdoti, possono ritrovare il giusto rapporto di comunione e una rinnovata esperienza di fraternità evangelica e di vicendevole emulazione carismatica. «Tutti gli stati di vita, sia nel loro insieme, sia ciascuno di essi in rapporto agli altri sono al servizio della crescita della Chiesa, sono modalità diverse che si unificano profondamente nel mistero di comunione della Chiesa e che si coordinano dinamicamente nella sua unica missione» (CfL 55).

Vita consecrata rileva che «uno dei frutti della dottrina della Chiesa come comunione, in questi anni, è stata la presa di coscienza che le sue componenti possono e devono unire le loro forze, in atteggiamento di collaborazione e di scambio di doni, per partecipare più efficacemente alla missione ecclesiale» (n. 54). In definitiva è domandato di unire le ispirazioni e le forze e di concertare insieme la maturazione del dialogo di comunione all’interno della Chiesa.

Occorre affrontare insieme le sfide della nuova evangelizzazione, della globalizzazione, del dialogo ecumenico e interreligioso, della credibilità in una società secolarizzata, multiculturale, postmoderna. Piuttosto che lasciarsi guidare da prevenzioni o perdersi in sterili polemiche, occorre avere il coraggio di una autentica comunione fraterna, piena di stima e di fiducia reciproca. Occorre guardarsi gli uni gli altri, conoscersi meglio, giungere alla comunione piena, in vista di guardare oltre, insieme, e lavorare per la Chiesa e per l’intera umanità.

 

1 Cf A. WODKA, «Un anno sacerdotale», in Unità e Carismi 19 (2009) 6, 2-3.

2 Cf H. BLAUMEISER, «Un mediatore che è nulla», in Nuova Umanità 20 (1998) 385-407.

3 H. BLAUMEISER-T. GANDOLFO (a cura di), Come il Padre ha amato me… 365 pensieri per l’anno

sacerdotale, I, Città Nuova, Roma 2009, 25.

4 C. CABRERA DE ARMIDA, Sacerdoti di Cristo, Città Nuova, Roma 2008, 369.

5 PAOLO VI, «Omelia», Bogotà, 22 agosto 1968, in H. BLAUMEISER-T. GANDOLFO (a cura di), Come

il Padre ha amato me…, 55.

6 Dono e mistero, LEV, Città del Vaticano 1996, 98-101.

7 Cf “Lectio divina”, Incontro con i parroci e i sacerdoti della diocesi di Roma, 11 febbraio 2010.

 

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Modificato domenica 16 marzo 2014
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