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n. 2 del 2001

 

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«E cominciarono a far festa...» (Lc 15,24)
Condividere la gioia

di Maria Marcellina Pedico

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Sono sicura di non essere stata la prima né l’unica nel corso del 1999 a utilizzare, per riflettere sull’«anno del Padre» proposto da Giovanni Paolo II come preparazione immediata al Giubileo, l’opera del sacerdote olandese Henri j. Nouwen († 1996) L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo1. Il libro costituisce un suggestivo commento sia allo splendido quadro del grande pittore olandese Rembrandt († 1669), che raffigura il ritorno del figlio prodigo, sia alla ben nota parabola evangelica raccontata in Luca 15,11-32.

Confesso di essere rimasta affascinata dalla bellezza espressiva del quadro di Rembrandt e di aver compreso meglio l’inestimabile ricchezza della pagina lucana detta comunemente «del figlio prodigo», ma ora ribattezzata «del padre misericordioso». Più volte mi sono detta che senza questa parabola saremmo privi di un messaggio indispensabile per capire chi è Dio. È l’abbraccio magnifico del padre prodigo di amore che accoglie il figlio ritornato e subito lo copre e lo fascia con il suo affetto. In tal modo il figlio capisce di essere compreso, compreso tra le braccia avvolgenti e coinvolgenti del padre e compreso dal suo cuore ardente di amore. Allora il figlio, tremante e ancora incerto, supera la paura e si lascia andare libero e gioioso alla festa dell’amore: «E cominciarono a far festa» (Lc 15,24). Una festa «che prevede i canti della gratuità e i profumi della reciproca dedizione e il vino nuovo di una cura vicendevole che non pone condizioni»2.

Che cosa può significare il prendere parte a quella festa che nasce dall’amore, dalla misericordia, dalla benevolenza? Tra i molteplici approfondimenti cui porterebbe la riflessione, vorrei offrire alcuni elementi per ripensare la festa e il suo nucleo sostanziale, che si identifica con Cristo, colui che abilita la comunità religiosa a divenire comunità festiva.

1. Riscoprire la gioia della festa

Il Giubileo appena celebrato ha risvegliato alla festa, all’entusiasmo, alla gioia; ha rivelato che la vita è come la danza del girasole che attinge sempre luce e calore dall’alto per trasmetterlo a ogni sguardo che lo scruta. La festa appartiene all’essenza del Giubileo: è il suo segreto. Basti rievocare l’atmosfera indimenticabile di gioia contagiosa della XV Giornata Mondiale della Gioventù. Migliaia e migliaia di giovani dai tanti volti, con storie, sensibilità, cultura, modi di pregare, cantare e far festa diversi. Eppure tutti uniti da qualcosa, anzi da Qualcuno più grande. La fede è festa3.

Forse dovremmo risvegliare nelle nostre comunità il senso della festa, del piacere, del sorriso, del canto, della danza anche per mostrare all’esterno la gioia che riceviamo in dono e che ci prende nel profondo. Soprattutto in questo nostro tempo e nel contesto culturale in cui viviamo siamo chiamati a rieducarci alla festa, intesa come dimensione costitutiva dello spirito. In verità, se il cuore è in festa, la gioia condivisa potrà espandersi in una festosità semplice e lieta, ben integrata nell’esperienza complessiva del tempo, della vita e dell’impegno responsabile nel mondo e nella società4. La gioia della festa è la testimonianza più contagiosa che in un battibaleno si divulga a macchia d’olio.

La festa affonda le sue radici nel grande terreno della vita, nella voglia di vivere e di vivere in pienezza. Un vivere che ha bisogno periodicamente di spezzare la routine, di liberarsi dalla necessità del lavoro, di vivere momenti di ebbrezza collettiva nella libertà e nella spontaneità, di esprimere la tensione verso una vita piena di felicità.

Acutamente Paolo VI nell’esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975) - uno dei testi più belli del suo magistero pastorale - afferma:

«Ci sarebbe bisogno di un paziente sforzo di educazione, per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane, che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Molto spesso, partendo dalle gioie naturali, il Cristo ha annunciato il regno di Dio» (n. 1).

La nostra vita e la vita delle comunità costituiscono il luogo della festa in tutte le loro manifestazioni, a partire dalle celebrazioni liturgiche e dai momenti di fraternità condivisa come lievito del quotidiano. Una cultura priva della capacità di godere la festa e di attribuire  libero spazio al sogno e alla fantasia crea una società anestetizzata. Quando la fantasia e la gioia scompaiono da una cultura, i valori della persona in quanto tale vengono inevitabilmente compromessi.

Il primato del lavoro, della produzione, della programmazione razionale e tecnologica ha portato a smarrire il senso del valore incommensurabile della gioia libera ed estatica. Spesso un senso troppo austero dell’impegno ci incalza e spreme al punto che smarriamo la disposizione a meravigliarci di fronte al cielo stellato o alla corolla di un fiore, a contemplare attoniti l’immensità dell’oceano o la maestosità delle vette, a «sprecare» volentieri il tempo per cantare e godere estasiati lo stare insieme dell’amore e dell’amicizia.

Sant’Ambrogio quando descrive il cristiano vero, il cristiano maturo, l’uomo e la donna di fede, usa un’espressione felice, indicandolo come una persona animata dalla sobria ebbrezza dello Spirito. Una persona ebbra è una persona esaltata, una persona che va un po’ al di sopra delle righe. Similmente erano sembrati esaltati gli apostoli la mattina di Pentecoste (cf At 2,15). In effetti si trattava del frutto della sobria ebbrezza dello Spirito, di quello Spirito che li aveva invasi come lingua di fuoco e aveva fatto scoppiare in loro l’ardore più entusiasta e il giubilo più prorompente. Forse proprio questa dimensione di festa dovremmo insieme e con fantasia creativa riscoprire.

2. Cristo nostra festa

La festa è un’esigenza profonda del vivere umano. Ma non basta riscoprire questa dimensione antropologica. Siamo pellegrini in festa sulle orme di Dio. Per il credente, la realtà di Cristo - e più precisamente  l’evento della sua morte e risurrezione - costituisce il punto obbligato per riflettere sulla festa intesa non come circostanza occasionale tra altre dell’esistenza cristiana, ma come impegno vitale primario dei discepoli dell’Agnello.

«Cristo risorto - dichiarava sant’Atanasio nel IV secolo - fa della vita una festa continua». Se ha senso parlare di festa dal punto di vista della fede, la «festa» è Cristo stesso5. «Risuscitato dai morti, Cristo non muore più», afferma Paolo in Romani 6,8. Allora, guardando al «già avvenuto» della Pasqua di Cristo e alla certezza che anche noi in Cristo  siamo stati salvati dal potere della morte e saremo partecipi con lui della sua risurrezione, diventa in certo modo una «festa» tutta l’esistenza del credente, vissuta nella gioia della fede, nella lode e nel ringraziamento a Dio, nella bellezza del dono della vita.

Pertanto, il discepolo si pone docilmente e pazientemente alla scuola di Cristo, lasciandosi interpellare dalla sua persona, così come è presentata lungo le pagine dei Vangeli. Al dire degli evangelisti Gesù vive da ebreo le feste d’Israele e insieme ne rinnova profondamente il senso, fino a farne un originale momento di rivelazione6.

Gesù vive da ebreo le feste ebraiche. Tutta la vita di Gesù è determinata da celebrazioni liturgiche, quale è quella giudaica. Gesù celebra la festa per eccellenza, il sabato: egli frequenta la sinagoga per la preghiera settimanale, e accetta la liturgia sabbatica nella sua interezza. Tuttavia, nella dura opposizione a una celebrazione legalistica del sabato, Gesù tende a ricondurlo al giorno di comunione con Dio nella gioia e nella libertà, come era nel progetto originario (cf Es 20,11: «Il sabato in onore del Signore tuo Dio»). Non solo. Egli proclama in modo chiaro che «il Figlio è padrone del sabato» (Mc 2,28). Tale inaudita pretesa pone Gesù sullo stesso piano di Dio. Sì, per Gesù la polemica sul sabato ha un profondo motivo cristologico: costatando la sua signoria sul sabato si pone inevitabile la domanda su chi egli sia. Questa è la radice di ogni festa: confrontarsi a tu per tu con Cristo, riconoscerlo, lodarlo e ringraziarlo nella spontaneità del rapporto.

Ai sinottici piace dare il massimo rilievo alla sola festa di Pasqua (cf Mc 14,1.12.14.16 e par.). Giovanni invece oltre alla Pasqua (l’evangelista ne menziona tre: 2,13; 6,4; 13,1) parla di altri tempi forti, come quello delle Tende, della Dedicazione, e forse, della Pentecoste. Il quadro è completato dalla pratica del pellegrinaggio, che ha un carattere propriamente festivo, in quanto si accompagna alle grandi solennità annuali.

I sinottici valorizzano anche i momenti festivi meno caratterizzati cultualmente, più «feriali» per così dire, ma altrettanto intensi. Con il banchetto, ad es., essi descrivono la novità sconvolgente di un Dio che viene a incontrare i peccatori sul loro terreno. Gesù «stava a mensa» in casa di Levi dopo la sua chiamata e «molti pubblicani e peccatori si misero a mensa con Gesù e i suoi discepoli» (Mc 2,15). Tale incontro di festa, pur preannunciato dai profeti (cf Is 25,6-8; 55,1-2), è talmente inusitato da suscitare la violenta  e costante reazione dei farisei (cf Mc 2,16 e par.).

Sembra proprio che Gesù non lasci occasione per partecipare a riunioni conviviali, tanto che egli stesso può riferire il giudizio severo degli avversari: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Soprattutto l’evangelista Luca apprezza il banchetto come segno di pace, di amicizia, di comunione di vita fra i commensali, e come proposta di salvezza. Per lui Gesù non ha difficoltà ad accettare inviti a pranzo da parte di amici influenti e da parte di peccatori noti, come Zaccheo, col quale Gesù fa festa e gli dona la salvezza (cf Lc 19,1-10).

L’insegnamento delle parabole e la condotta di Gesù tendono dunque a inculcare mediante l’esperienza di un banchetto chi egli sia: un Amico che non può salvare se non nella gaia comunione amicale, dal momento che Dio stesso, nell’atteggiamento di un padre che imbandisce una festa con musiche e danze per il ritorno del figlio, si lascia «catturare» da una festa compromettente (cf Lc cap. 15).

Ma gli evangelisti sono maestri anche nell’evocare altre situazioni di festa, e in questo eccelle ancora Luca: si pensi al delicato particolare di Gesù che rende il giovinetto risuscitato alla madre (cf Lc 7,15), al contesto naturale del soggiorno presso Marta e Maria (Lc 10,38-42), all’esultanza messianica della gente dopo un miracolo (Lc 13,17) e all’esplosione di gioia dei discepoli nell’ingresso regale di Gesù a Gerusalemme (Lc 19,37). Tutti indizi concreti del fatto che attorno a Gesù si fa festa, non solo perché è membro di un popolo che sa apprezzare la festa, ma anche perché egli crea ad arte situazioni nuove e inattese di festa, come miracoli e pasti con i peccatori, i predestinati alla festa senza tramonto.

Gesù si rivela durante la festa. Giovanni rappresenta il punto più evoluto della riflessione sulla festa. Secondo l’evangelista Gesù sfrutta l’occasione di una festa per proporre esplicitamente chi egli sia.

La prima Pasqua di Gesù coincide con la violenta purificazione del tempio e con l’annuncio della sua morte e risurrezione. Ormai il vero tempio, il luogo in cui celebrare il nuovo culto nello Spirito e verità (cf Gv 4,21-24), è il suo corpo passato dalla morte alla vita.

La seconda Pasqua fa da sfondo al discorso sul pane di vita (Gv cap. 6) nel quale Gesù per quattro volte usa la formula di rivelazione «Io sono». Ma è durante la festa delle Tende che ha luogo la grande rivelazione pubblica di Gesù nel centro del giudaismo (il tempio): ad essa Giovanni dedica quasi quattro capitoli (Gv 7,1-10,21) e ne fa il cuore del «libro dei segni». Per undici volte l’evangelista sottolinea la presenza dell’«Io sono» di Gesù quale pane di vita, luce del mondo, porta delle pecore, pastore buono...

La terza Pasqua è qualificata da Gesù come la sua Ora, cioè come tempo dell’obbedienza perfetta al Padre mediante la morte e risurrezione. L’Ora lungamente attesa è ormai giunta: è l’Ora della Croce e della nuova comunità (cf Gv 19,27), è l’Ora per antonomasia, in cui il senso dell’antica festa si rivelerà come un atto di amore totale. E dato che la Croce è situata nella «preparazione della Pasqua» (cf Gv 19,14.42), la Pasqua ebraica è direttamente coinvolta nella punta massima della auto-rivelazione di Gesù. Giovanni precisa che tale Pasqua era la «festa dei Giudei». Nella profondità giovannea essa è ridonata al suo significato genuino. Sebbene cronologicamente e liturgicamente sia ancora la «festa dei Giudei», in realtà è la festa di ogni credente che accetti nella fede l’autorivelazione di Gesù sul legno della Croce (cf Gv 19,35b).

Dopo questo sguardo veloce all’evoluzione del nostro tema all’interno dei Vangeli, è bene rilevare che se la festa è itinerario verso l’autenticità dell’uomo, Cristo non soltanto sta al termine di questo itinerario, ma si identifica con il suo traguardo: Gesù è la festa.

3. La comunità religiosa, comunità festiva

«Quando lui (Cristo) è in mezzo a noi è sempre festa per noi», dice una frase suggestiva di una canzone. Il consacrato vive le gioie umane ancorato alla roccia del Cristo risorto. Con lui esse acquistano senso, perché assumono la garanzia dell’autenticità e della durata. Senza di lui sono destinate a un vissuto segnato dall’incertezza e dalla precarietà.

Allora è necessario che nelle nostre comunità il simbolo della festa sia sempre più simbolo della vita comunitaria vista dalla prospettiva teologica: essere uniti con Cristo e in Cristo, condividendo tutto, fino ai livelli più profondi: l’esperienza di Dio, il vissuto della fede, l’amore fraterno, le idee, la missione apostolica, i beni materiali... Ovvero è necessario che nel nostro stare insieme siano visibili il gusto dell’incontro tra noi, da un lato, e il rimando a Colui che è già venuto, dall’altro. In tal modo la festa esprime e rende presente in modo tangibile lo scopo della comunità. Trascurare questo aspetto teologale, nonostante lo sforzo magari notevole per salvare la comunità a partire dai livelli psicologici, comporta necessariamente una paralisi degli elementi festivi.

Si tratta cioè di rendere «la nostra affabilità nota a tutti gli uomini» (Fil 4,4-5) e di mostrare la bellezza del sentirsi famiglia di Dio. Per una comunità religiosa vivere l’elemento essenziale della festa è fare della vita una «liturgia» di gioia, di lode e di ringraziamento al Signore, fonte di felicità. E la vera felicità consiste nel prender parte alla gioia di Dio.

Le nostre comunità incamminate a esprimere nella gioiosa fatica di ogni giorno questo aspetto profondo della festa ogni tanto sono chiamate a rileggere e meditare due pagine eloquenti e illuminanti al riguardo.

La prima è un testo mirabile di Paolo VI rivolto alle consacrate:

«Siate felici. Felici, perché avete scelto la parte migliore. Felici perché chi mai e che cosa mai - come esclama san Paolo - vi potrà separare dalla carità di Cristo? Felici, perché avete destinato la vostra vita all’unico e più alto amore. Felici, perché siete della Chiesa le figlie predilette, e della Chiesa partecipate il gaudio ed il dolore, la fatica e la speranza. Felici, perché nulla di quanto fate, pregate, soffrite, è perduto, nulla è sconosciuto a quel Padre che vede nel segreto e che nulla lascerà senza ricompensa. Felici, perché, come la Vergine Maria, avete ascoltato la parola di Dio e vi siete fidate, l’avete seguita».

L’altro testo è un brano del documento sulla Vita fraterna in comunità (2 febbraio 1994): «Non bisogna dimenticare che la pace e il gusto di stare insieme restano uno dei segni del Regno di Dio. La gioia di vivere, pur in mezzo alle difficoltà del cammino umano e spirituale e alle noie quotidiane, fa parte già del Regno. Una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovare a casa loro. Una fraternità ricca di gioia è un vero dono dell’Alto ai fratelli che sanno chiederlo e che sanno accettarsi impegnandosi nella vita fraterna con fiducia nell’azione dello Spirito [...]. Tale testimonianza di gioia costituisce una grandissima attrazione verso la vita religiosa, una fonte di nuove vocazioni e un sostegno alla perseveranza.

È molto importante coltivare questa gioia nella comunità religiosa: il superlavoro la può spegnere, lo zelo eccessivo per alcune cause la può far dimenticare, il continuo interrogarsi sulla propria identità e sul proprio futuro la può annebbiare. Ma il saper fare festa insieme, il concedersi momenti di distensione personale e comunitari, il prendere le distanze di quando in quando dal proprio lavoro, il gioire delle gioie del fratello, l’attenzione premurosa alle necessità dei fratelli e delle sorelle, l’impegno fiducioso nel lavoro apostolico, l’affrontare con misericordia le situazioni, l’andare incontro al domani con la speranza d’incontrare sempre e comunque il Signore: tutto ciò alimenta la serenità, la pace, la gioia. E diventa forza nell’azione apostolica» (n. 28).

Le nostre comunità sono chiamate dunque a essere segni di gioia e di letizia, segni della festa eterna e di quelle nozze cui tutti sono invitati: «Sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua Sposa è pronta. Alleluia» (Ap 19, 7).

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