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Sono sicura di non essere stata la prima né
l’unica nel corso del 1999 a utilizzare, per riflettere sull’«anno
del Padre» proposto da Giovanni Paolo II come preparazione immediata al
Giubileo, l’opera del sacerdote olandese Henri j. Nouwen († 1996)
L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo1.
Il libro costituisce un suggestivo commento sia allo splendido quadro
del grande pittore olandese Rembrandt († 1669), che raffigura il
ritorno del figlio prodigo, sia alla ben nota parabola evangelica
raccontata in Luca 15,11-32.
Confesso di essere rimasta affascinata dalla
bellezza espressiva del quadro di Rembrandt e di aver compreso meglio
l’inestimabile ricchezza della pagina lucana detta comunemente «del
figlio prodigo», ma ora ribattezzata «del padre misericordioso». Più
volte mi sono detta che senza questa parabola saremmo privi di un
messaggio indispensabile per capire chi è Dio. È l’abbraccio
magnifico del padre prodigo di amore che accoglie il figlio ritornato e
subito lo copre e lo fascia con il suo affetto. In tal modo il figlio
capisce di essere compreso, compreso tra le braccia avvolgenti e
coinvolgenti del padre e compreso dal suo cuore ardente di amore. Allora
il figlio, tremante e ancora incerto, supera la paura e si lascia andare
libero e gioioso alla festa dell’amore: «E cominciarono a far festa»
(Lc 15,24). Una festa «che prevede i canti della gratuità e i profumi
della reciproca dedizione e il vino nuovo di una cura vicendevole che
non pone condizioni»2.
Che cosa può significare il prendere parte a
quella festa che nasce dall’amore, dalla misericordia, dalla
benevolenza? Tra i molteplici approfondimenti cui porterebbe la
riflessione, vorrei offrire alcuni elementi per ripensare la festa e il
suo nucleo sostanziale, che si identifica con Cristo, colui che abilita
la comunità religiosa a divenire comunità festiva.
1. Riscoprire la gioia della festa
Il Giubileo appena celebrato ha risvegliato alla
festa, all’entusiasmo, alla gioia; ha rivelato che la vita è come la
danza del girasole che attinge sempre luce e calore dall’alto per
trasmetterlo a ogni sguardo che lo scruta. La festa appartiene
all’essenza del Giubileo: è il suo segreto. Basti rievocare
l’atmosfera indimenticabile di gioia contagiosa della XV Giornata
Mondiale della Gioventù. Migliaia e migliaia di giovani dai tanti
volti, con storie, sensibilità, cultura, modi di pregare, cantare e far
festa diversi. Eppure tutti uniti da qualcosa, anzi da Qualcuno più
grande. La fede è festa3.
Forse dovremmo risvegliare nelle nostre comunità
il senso della festa, del piacere, del sorriso, del canto, della danza
anche per mostrare all’esterno la gioia che riceviamo in dono e che ci
prende nel profondo. Soprattutto in questo nostro tempo e nel contesto
culturale in cui viviamo siamo chiamati a rieducarci alla festa, intesa
come dimensione costitutiva dello spirito. In verità, se il cuore è in
festa, la gioia condivisa potrà espandersi in una festosità semplice e
lieta, ben integrata nell’esperienza complessiva del tempo, della vita
e dell’impegno responsabile nel mondo e nella società4. La gioia
della festa è la testimonianza più contagiosa che in un battibaleno si
divulga a macchia d’olio.
La festa affonda le sue radici nel grande terreno
della vita, nella voglia di vivere e di vivere in pienezza. Un vivere
che ha bisogno periodicamente di spezzare la routine, di liberarsi dalla
necessità del lavoro, di vivere momenti di ebbrezza collettiva nella
libertà e nella spontaneità, di esprimere la tensione verso una vita
piena di felicità.
Acutamente Paolo VI nell’esortazione apostolica
Gaudete in Domino (9 maggio 1975) - uno dei testi più belli del suo
magistero pastorale - afferma:
«Ci sarebbe bisogno di un paziente sforzo di
educazione, per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le
molteplici gioie umane, che il Creatore mette già sul nostro cammino:
gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto
e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia
talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere
compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della
partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Molto spesso, partendo
dalle gioie naturali, il Cristo ha annunciato il regno di Dio» (n. 1).
La nostra vita e la vita delle comunità
costituiscono il luogo della festa in tutte le loro manifestazioni, a
partire dalle celebrazioni liturgiche e dai momenti di fraternità
condivisa come lievito del quotidiano. Una cultura priva della capacità
di godere la festa e di attribuire
libero spazio al sogno e alla fantasia crea una società
anestetizzata. Quando la fantasia e la gioia scompaiono da una cultura,
i valori della persona in quanto tale vengono inevitabilmente
compromessi.
Il primato del lavoro, della produzione, della
programmazione razionale e tecnologica ha portato a smarrire il senso
del valore incommensurabile della gioia libera ed estatica. Spesso un
senso troppo austero dell’impegno ci incalza e spreme al punto che
smarriamo la disposizione a meravigliarci di fronte al cielo stellato o
alla corolla di un fiore, a contemplare attoniti l’immensità
dell’oceano o la maestosità delle vette, a «sprecare» volentieri il
tempo per cantare e godere estasiati lo stare insieme dell’amore e
dell’amicizia.
Sant’Ambrogio quando descrive il cristiano vero,
il cristiano maturo, l’uomo e la donna di fede, usa un’espressione
felice, indicandolo come una persona animata dalla sobria ebbrezza dello
Spirito. Una persona ebbra è una persona esaltata, una persona che va
un po’ al di sopra delle righe. Similmente erano sembrati esaltati gli
apostoli la mattina di Pentecoste (cf At 2,15). In effetti si trattava
del frutto della sobria ebbrezza dello Spirito, di quello Spirito che li
aveva invasi come lingua di fuoco e aveva fatto scoppiare in loro
l’ardore più entusiasta e il giubilo più prorompente. Forse proprio
questa dimensione di festa dovremmo insieme e con fantasia creativa
riscoprire.
2. Cristo nostra festa
La festa è un’esigenza profonda del vivere
umano. Ma non basta riscoprire questa dimensione antropologica. Siamo
pellegrini in festa sulle orme di Dio. Per il credente, la realtà di
Cristo - e più precisamente l’evento
della sua morte e risurrezione - costituisce il punto obbligato per
riflettere sulla festa intesa non come circostanza occasionale tra altre
dell’esistenza cristiana, ma come impegno vitale primario dei
discepoli dell’Agnello.
«Cristo risorto - dichiarava sant’Atanasio nel
IV secolo - fa della vita una festa continua». Se ha senso parlare di
festa dal punto di vista della fede, la «festa» è Cristo stesso5. «Risuscitato
dai morti, Cristo non muore più», afferma Paolo in Romani 6,8. Allora,
guardando al «già avvenuto» della Pasqua di Cristo e alla certezza
che anche noi in Cristo siamo
stati salvati dal potere della morte e saremo partecipi con lui della
sua risurrezione, diventa in certo modo una «festa» tutta
l’esistenza del credente, vissuta nella gioia della fede, nella lode e
nel ringraziamento a Dio, nella bellezza del dono della vita.
Pertanto, il discepolo si pone docilmente e
pazientemente alla scuola di Cristo, lasciandosi interpellare dalla sua
persona, così come è presentata lungo le pagine dei Vangeli. Al dire
degli evangelisti Gesù vive da ebreo le feste d’Israele e insieme ne
rinnova profondamente il senso, fino a farne un originale momento di
rivelazione6.
Gesù vive da ebreo le feste ebraiche. Tutta la
vita di Gesù è determinata da celebrazioni liturgiche, quale è quella
giudaica. Gesù celebra la festa per eccellenza, il sabato: egli
frequenta la sinagoga per la preghiera settimanale, e accetta la
liturgia sabbatica nella sua interezza. Tuttavia, nella dura opposizione
a una celebrazione legalistica del sabato, Gesù tende a ricondurlo al
giorno di comunione con Dio nella gioia e nella libertà, come era nel
progetto originario (cf Es 20,11: «Il sabato in onore del Signore tuo
Dio»). Non solo. Egli proclama in modo chiaro che «il Figlio è
padrone del sabato» (Mc 2,28). Tale inaudita pretesa pone Gesù sullo
stesso piano di Dio. Sì, per Gesù la polemica sul sabato ha un
profondo motivo cristologico: costatando la sua signoria sul sabato si
pone inevitabile la domanda su chi egli sia. Questa è la radice di ogni
festa: confrontarsi a tu per tu con Cristo, riconoscerlo, lodarlo e
ringraziarlo nella spontaneità del rapporto.
Ai sinottici piace dare il massimo rilievo alla
sola festa di Pasqua (cf Mc 14,1.12.14.16 e par.). Giovanni invece oltre
alla Pasqua (l’evangelista ne menziona tre: 2,13; 6,4; 13,1) parla di
altri tempi forti, come quello delle Tende, della Dedicazione, e forse,
della Pentecoste. Il quadro è completato dalla pratica del
pellegrinaggio, che ha un carattere propriamente festivo, in quanto si
accompagna alle grandi solennità annuali.
I sinottici valorizzano anche i momenti festivi
meno caratterizzati cultualmente, più «feriali» per così dire, ma
altrettanto intensi. Con il banchetto, ad es., essi descrivono la novità
sconvolgente di un Dio che viene a incontrare i peccatori sul loro
terreno. Gesù «stava a mensa» in casa di Levi dopo la sua chiamata e
«molti pubblicani e peccatori si misero a mensa con Gesù e i suoi
discepoli» (Mc 2,15). Tale incontro di festa, pur preannunciato dai
profeti (cf Is 25,6-8; 55,1-2), è talmente inusitato da suscitare la
violenta e costante
reazione dei farisei (cf Mc 2,16 e par.).
Sembra proprio che Gesù non lasci occasione per
partecipare a riunioni conviviali, tanto che egli stesso può riferire
il giudizio severo degli avversari: «Ecco un mangione e un beone, amico
dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Soprattutto l’evangelista
Luca apprezza il banchetto come segno di pace, di amicizia, di comunione
di vita fra i commensali, e come proposta di salvezza. Per lui Gesù non
ha difficoltà ad accettare inviti a pranzo da parte di amici influenti
e da parte di peccatori noti, come Zaccheo, col quale Gesù fa festa e
gli dona la salvezza (cf Lc 19,1-10).
L’insegnamento delle parabole e la condotta di
Gesù tendono dunque a inculcare mediante l’esperienza di un banchetto
chi egli sia: un Amico che non può salvare se non nella gaia comunione
amicale, dal momento che Dio stesso, nell’atteggiamento di un padre
che imbandisce una festa con musiche e danze per il ritorno del figlio,
si lascia «catturare» da una festa compromettente (cf Lc cap. 15).
Ma gli evangelisti sono maestri anche
nell’evocare altre situazioni di festa, e in questo eccelle ancora
Luca: si pensi al delicato particolare di Gesù che rende il giovinetto
risuscitato alla madre (cf Lc 7,15), al contesto naturale del soggiorno
presso Marta e Maria (Lc 10,38-42), all’esultanza messianica della
gente dopo un miracolo (Lc 13,17) e all’esplosione di gioia dei
discepoli nell’ingresso regale di Gesù a Gerusalemme (Lc 19,37).
Tutti indizi concreti del fatto che attorno a Gesù si fa festa, non
solo perché è membro di un popolo che sa apprezzare la festa, ma anche
perché egli crea ad arte situazioni nuove e inattese di festa, come
miracoli e pasti con i peccatori, i predestinati alla festa senza
tramonto.
Gesù si rivela durante la festa. Giovanni
rappresenta il punto più evoluto della riflessione sulla festa. Secondo
l’evangelista Gesù sfrutta l’occasione di una festa per proporre
esplicitamente chi egli sia.
La prima Pasqua di Gesù coincide con la violenta
purificazione del tempio e con l’annuncio della sua morte e
risurrezione. Ormai il vero tempio, il luogo in cui celebrare il nuovo
culto nello Spirito e verità (cf Gv 4,21-24), è il suo corpo passato
dalla morte alla vita.
La seconda Pasqua fa da sfondo al discorso sul pane
di vita (Gv cap. 6) nel quale Gesù per quattro volte usa la formula di
rivelazione «Io sono». Ma è durante la festa delle Tende che ha luogo
la grande rivelazione pubblica di Gesù nel centro del giudaismo (il
tempio): ad essa Giovanni dedica quasi quattro capitoli (Gv 7,1-10,21) e
ne fa il cuore del «libro dei segni». Per undici volte l’evangelista
sottolinea la presenza dell’«Io sono» di Gesù quale pane di vita,
luce del mondo, porta delle pecore, pastore buono...
La terza Pasqua è qualificata da Gesù come la sua
Ora, cioè come tempo dell’obbedienza perfetta al Padre mediante la
morte e risurrezione. L’Ora lungamente attesa è ormai giunta: è
l’Ora della Croce e della nuova comunità (cf Gv 19,27), è l’Ora
per antonomasia, in cui il senso dell’antica festa si rivelerà come
un atto di amore totale. E dato che la Croce è situata nella «preparazione
della Pasqua» (cf Gv 19,14.42), la Pasqua ebraica è direttamente
coinvolta nella punta massima della auto-rivelazione di Gesù. Giovanni
precisa che tale Pasqua era la «festa dei Giudei». Nella profondità
giovannea essa è ridonata al suo significato genuino. Sebbene
cronologicamente e liturgicamente sia ancora la «festa dei Giudei», in
realtà è la festa di ogni credente che accetti nella fede l’autorivelazione
di Gesù sul legno della Croce (cf Gv 19,35b).
Dopo questo sguardo veloce all’evoluzione del
nostro tema all’interno dei Vangeli, è bene rilevare che se la festa
è itinerario verso l’autenticità dell’uomo, Cristo non soltanto
sta al termine di questo itinerario, ma si identifica con il suo
traguardo: Gesù è la festa.
3. La comunità religiosa, comunità festiva
«Quando lui (Cristo) è in mezzo a noi è sempre
festa per noi», dice una frase suggestiva di una canzone. Il consacrato
vive le gioie umane ancorato alla roccia del Cristo risorto. Con lui
esse acquistano senso, perché assumono la garanzia dell’autenticità
e della durata. Senza di lui sono destinate a un vissuto segnato
dall’incertezza e dalla precarietà.
Allora è necessario che nelle nostre comunità il
simbolo della festa sia sempre più simbolo della vita comunitaria vista
dalla prospettiva teologica: essere uniti con Cristo e in Cristo,
condividendo tutto, fino ai livelli più profondi: l’esperienza di
Dio, il vissuto della fede, l’amore fraterno, le idee, la missione
apostolica, i beni materiali... Ovvero è necessario che nel nostro
stare insieme siano visibili il gusto dell’incontro tra noi, da un
lato, e il rimando a Colui che è già venuto, dall’altro. In tal modo
la festa esprime e rende presente in modo tangibile lo scopo della
comunità. Trascurare questo aspetto teologale, nonostante lo sforzo
magari notevole per salvare la comunità a partire dai livelli
psicologici, comporta necessariamente una paralisi degli elementi
festivi.
Si tratta cioè di rendere «la nostra affabilità
nota a tutti gli uomini» (Fil 4,4-5) e di mostrare la bellezza del
sentirsi famiglia di Dio. Per una comunità religiosa vivere
l’elemento essenziale della festa è fare della vita una «liturgia»
di gioia, di lode e di ringraziamento al Signore, fonte di felicità. E
la vera felicità consiste nel prender parte alla gioia di Dio.
Le nostre comunità incamminate a esprimere nella
gioiosa fatica di ogni giorno questo aspetto profondo della festa ogni
tanto sono chiamate a rileggere e meditare due pagine eloquenti e
illuminanti al riguardo.
La prima è un testo mirabile di Paolo VI rivolto
alle consacrate:
«Siate felici. Felici, perché avete scelto la
parte migliore. Felici perché chi mai e che cosa mai - come esclama san
Paolo - vi potrà separare dalla carità di Cristo? Felici, perché
avete destinato la vostra vita all’unico e più alto amore. Felici,
perché siete della Chiesa le figlie predilette, e della Chiesa
partecipate il gaudio ed il dolore, la fatica e la speranza. Felici,
perché nulla di quanto fate, pregate, soffrite, è perduto, nulla è
sconosciuto a quel Padre che vede nel segreto e che nulla lascerà senza
ricompensa. Felici, perché, come la Vergine Maria, avete ascoltato la
parola di Dio e vi siete fidate, l’avete seguita».
L’altro testo è un brano del documento sulla
Vita fraterna in comunità (2 febbraio 1994): «Non bisogna dimenticare
che la pace e il gusto di stare insieme restano uno dei segni del Regno
di Dio. La gioia di vivere, pur in mezzo alle difficoltà del cammino
umano e spirituale e alle noie quotidiane, fa parte già del Regno. Una
fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i
membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovare a
casa loro. Una fraternità ricca di gioia è un vero dono dell’Alto ai
fratelli che sanno chiederlo e che sanno accettarsi impegnandosi nella
vita fraterna con fiducia nell’azione dello Spirito [...]. Tale
testimonianza di gioia costituisce una grandissima attrazione verso la
vita religiosa, una fonte di nuove vocazioni e un sostegno alla
perseveranza.
È molto importante coltivare questa gioia nella
comunità religiosa: il superlavoro la può spegnere, lo zelo eccessivo
per alcune cause la può far dimenticare, il continuo interrogarsi sulla
propria identità e sul proprio futuro la può annebbiare. Ma il saper
fare festa insieme, il concedersi momenti di distensione personale e
comunitari, il prendere le distanze di quando in quando dal proprio
lavoro, il gioire delle gioie del fratello, l’attenzione premurosa
alle necessità dei fratelli e delle sorelle, l’impegno fiducioso nel
lavoro apostolico, l’affrontare con misericordia le situazioni,
l’andare incontro al domani con la speranza d’incontrare sempre e
comunque il Signore: tutto ciò alimenta la serenità, la pace, la
gioia. E diventa forza nell’azione apostolica» (n. 28).
Le nostre comunità sono chiamate dunque a essere
segni di gioia e di letizia, segni della festa eterna e di quelle nozze
cui tutti sono invitati: «Sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua
Sposa è pronta. Alleluia» (Ap 19, 7).
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