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n. 2 del 2001

 

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Viaggio intorno ai modelli di vita consacrata femminile
Tra passato e futuro

di Enrica Rosanna

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Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!

Beato chi abita la tua casa:
sempre canta le tue lodi!
Beato chi trova in te la sua forza
e decide nel suo cuore il santo viaggio.

Passando per la valle del pianto
la cambia in una sorgente,
anche la prima pioggia l’ammanta di benedizioni.

Cresce lungo il cammino il suo vigore,
finché compare davanti a Dio in Sion.
                                       (Salmo 83)

Ogni cambio epocale impone a persone e istituzioni di decidere l’avventura di un nuovo viaggio  verso il futuro. E’ capitato così in passato e capita anche oggi: il nostro tempo sfida la Chiesa e la vita consacrata a trovare in Dio la forza per decidere il santo viaggio.

La sfida è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, che ha offerto il fondamento, l’orizzonte, le prospettive e le indicazioni di percorso per cogliere e interpretare i “segni dei tempi” e ha generato iniziative coraggiose e inedite di ripensamento e di progettazione dentro la Chiesa e di conseguenza anche dentro la vita consacrata.

Per quanto riguarda quest’ultima, il cammino percorso negli anni postconciliari ha portato alla revisione delle Costituzioni, alla nascita di nuove forme di vita consacrata, al ripensamento dell’impegno formativo, al confronto con la società e la cultura, ecc…, nell’alternarsi di momenti di crisi e di vitalità. Recentemente, sotto le stimolazioni del Sinodo sulla Vita Consacrata, il cammino avviato dal Concilio ha avuto un nuovo impulso non esente da problemi e difficoltà.

Domandiamoci: che cosa sta avvenendo nella vita consacrata femminile? Quali modelli di vita consacrata vengono proposti alle nuove generazioni di donne?

La domanda è impegnativa e vasta. Non sono in grado di rispondervi, perché  un parere onesto richiede, a mio avviso, almeno una riflessione interdisciplinare. Posso tentare di offrire delle stimolazioni - riferendomi in particolare alla vita religiosa -, frutto della prospettiva di studio che coltivo (quella sociologica) e della mia esperienza di vita.

Sono innanzitutto consapevole che quanto è stato scritto e detto sulla vita consacrata femminile rappresenta più l’ideale che il vissuto, che il cambiamento di mentalità e di strutture è lento e faticoso, che molti cambiamenti, inoltre, riguardano la vita consacrata tout court e non si riferiscono specificamente all’aspetto femminile. Devo precisare inoltre che, pur cercando di sviluppare il tema affidatomi, trovo infruttuoso riferirmi a macromodelli di vita consacrata femminile (è quasi impossibile parlare di modelli in un momento di cambio, anzi, è solo osservando le cose da lontano che si cominciano a vedere le cose che non si sono viste da vicino!) e pertanto preferisco puntare l’attenzione su alcuni punti significativi del cambiamento che costituiscono il “filo rosso” che, in maniera più o meno evidente, più o meno esplicita e condivisa, lega il passato al futuro e possono essere la trama dei nuovi modelli che si stanno costruendo.

Mi sembra importante sottolineare infine che è finita l’epoca dei modelli della contrapposizione delle differenze – “tra” e “dentro” le forme di vita consacrata: il nostro tempo è caratterizzato da una situazione di “complessità a sfondo comune”. Le diverse forme di vita consacrata, infatti, non sono mai sganciate dalla cultura nella quale nascono e crescono e il nostro tempo, complesso e in continuo cambiamento, non fa eccezione. La vita consacrata femminile porta dunque in sé il gaudio e il peso di una socio-cultura in fermento e dei problemi a essa connessi, compresi quelli relativi alla questione femminile.

Questo premesso, entro nel vivo del tema.

Convivono oggi in Italia numerosi e più che centenari Istituti religiosi che stanno affrontando lo sforzo del ridimensionamento, piccoli Istituti di antica fondazione che si stanno lentamente spegnendo, nuove forme di vita consacrata che si stanno espandendo e vanno moltiplicandosi. L’Esortazione apostolica Vita consecrata ne presenta una tipologia significativa e rinvia alla molteplicità delle esperienze che essa racchiude.

Orbene, qual è - a mio avviso - il “filo rosso” che lega queste esperienze e che trova le sue radici nella “memoria”, la sua gestazione nel “presente”, la sua fecondità nel “futuro”?

Lo esprimo con cautela, senza paura di essere contraddetta (i punti di vista con cui osservare una realtà sono molti e tutti hanno una propria cittadinanza; ovviamente ci sono punti di vista - per esempio quello teologico - più radicali rispetto ad altri): si tratta dello stretto legame esistente tra la vita consacrata femminile e la questione femminile, un legame di cui le consacrate vanno sempre più prendendo coscienza, tanto che si potrebbe affermare che proprio questa “presa di coscienza” è uno dei più importanti segni del  cambio epocale che stiamo vivendo. Non solo, ma si può anche ipotizzare che questo legame diventerà sempre più stretto e significativo e contribuirà a modellare la vita consacrata femminile del terzo millennio.

 

1. Dirsi e pensarsi al femminile

Leggendo i rapporti o gli Atti dei Capitoli Generali, e altri opuscoli che circolano sulla vita consacrata femminile, emerge con chiarezza che le consacrate rileggono la propria identità e il proprio impegno missionario e apostolico con occhi e cuore di donna.

Nella semplicità dell’espressione e del linguaggio di questa rilettura si ritrovano le indicazioni del Magistero, soprattutto quelle di Giovanni Paolo II, assunte nell’ottica del carisma proprio dell’Istituto di appartenenza. La Mulieris dignitatem, la Lettera alle donne, la Vita consecrata sono conosciute, apprezzate, fatte oggetto di riflessione, di discernimento, di progettazione e costituiscono il parametro per coniugare “femminilità” e “consacrazione femminile”, una coniugazione che per ogni consacrata passa attraverso la fedeltà creativa al carisma del proprio Istituto.

Quali allora le conseguenze e le implicanze di questa presa di coscienza?

Le consacrate riscoprono se stesse come donne, “osano dirsi e pensarsi al femminile” e contribuiscono così a dare un volto peculiare alla propria consacrazione e ad arricchire la riflessione e l’esperienza sulla dignità della donna in risposta all’invito del Sinodo sulla vita consacrata: “C’è motivo di sperare che da un più profondo riconoscimento della missione della donna, la vita consacrata femminile tragga una sempre maggior consapevolezza del proprio ruolo e un’accresciuta dedizione alla causa del regno di Dio” (VC 58).

Osano proporre un concetto e un’esperienza di maternità “oltre lo stereotipo”, una maternità affettiva, culturale, spirituale che incide profondamente sul loro sviluppo personale e sulla costruzione della stessa società. Osano proporre la simbologia della maternità come paradigma per leggere in profondità e tradurre in impegno il rapporto con la natura, con gli altri, con Dio. E questo “osare” prende anche una forza maggiore quando viene portato avanti insieme alle donne laiche.

Tra donne laiche e consacrate si instaura un filo diretto di reciproca comprensione, di sostegno, di iniziative, che in alcune occasioni viene sottolineato (stranamente, ma vero!) anche dalla stampa laica. A titolo esemplificativo cito l’incontro promosso dall’USMI, l’8 marzo 1996, sul tema: “Cosa vuol dire una suora? Apertura di un dialogo tra le suore italiane e il movimento delle donne” contrassegnato dal confronto semplice e franco tra due esponenti del movimento femminista laico e tre religiose.

Nell’incontro, da parte delle religiose, emergono alcune indicazioni provocatorie e allo stesso tempo indicative di percorsi che esse stanno già attuando (è a partire da queste indicazioni che si possono ipotizzare i modelli del futuro):

• l’approfondimento dell’identità femminile per una ricomprensione dell’umanità declinata “a due voci” (maschile e femminile);

• l’approfondimento delle implicanze della reciprocità in tutti i suoi aspetti (reciprocità tra uomo e donna; tra donne, tra generazioni, tra razze e culture);

• l’impegno per una formazione culturale delle consacrate, soprattutto delle giovani, per poter partecipare attivamente all’elaborazione della cultura;

• il recupero della  contemplazione amorosa del Signore che è condizione imprescindibile per il servizio all’umanità.
Le laiche rispondono alle religiose con proposte concrete, dopo aver messo in evidenza che l’incontro ha favorito la messa in crisi degli stereotipi sulle consacrate:

• la richiesta di lavorare insieme per costruire nei fatti un’autentica cultura della vita;

• l’impegno a rivalutare l’attività di cura e di educazione perché siano riconosciute e valorizzate nella società, a fare della maternità la misura della società, ad assumere il potere come servizio sull’esempio delle grandi donne che hanno fatto “bella” la vita consacrata senza lasciarsi innamorare del potere.

Questo è solo un esempio, è vero, ma ogni consacrata potrebbe documentare che in tante altre occasioni - nelle scuole, nelle parrocchie, negli ospedali, nelle famiglie, nei circoli culturali, nelle conversazioni informali - si rinnova la fecondità di questo incontro-confronto, non come esperienza episodica, ma come momento di amicizia e collaborazione. Il ponte è gettato ed è percorribile nelle due direzioni. Lo percorre abitualmente anche Gesù. 

Sempre riguardo a questa sottolineatura dell’identità femminile delle consacrate, mi piace anche mettere in evidenza che al Sinodo sulla vita consacrata le donne presenti hanno posto l’accento non tanto sui ruoli da giocare nella Chiesa quanto sul valore testimoniante della vita consacrata femminile: l’amore per Cristo con cuore indiviso e la testimonianza della sua misericordia e tenerezza per tutti, con una predilezione per i più poveri e deboli.

Tra tutte le testimonianze ne riporto una, quella di Madre Teresa di Calcutta, che oggi è sapida di eternità. “ La nostra vita come religiose, e soprattutto come donne, deve essere quella di aver sete con Gesù e di assumere su noi stesse la sete della nostra gente e di tutti quelli affidati alle nostre cure del cui amore Gesù stesso continua ad aver sete […]. Per essere in grado di divenire vere donne consacrate dobbiamo innamorarci sempre più di Gesù […]. Dobbiamo mettere l’amore al primo posto nella nostra vita”.

Questo amore vuol farsi testimonianza luminosa attraverso l’educazione, la carità, il servizio ai più poveri, l’animazione parrocchiale, il mondo della cultura. Sottolineo quest’ultima frontiera sempre più aperta, sempre più carica di significato e di fecondità, che vede le consacrate impegnate in uno sforzo di preparazione umana e spirituale, che mentre le costruisce come persone le abilita a operare con competenza e saggezza (quante consacrate insegnano oggi a livello universitario, fanno direzione spirituale, predicano esercizi spirituali, lavorano per le Conferenze episcopali, nei Consigli pastorali e in altri luoghi di grande responsabilità!).

Ho letto recentemente, in un opuscolo, questa frase: “Si può diventare estranei alla vita di Dio non solo per la durezza del cuore, ma anche per l’ignoranza”. Mi ha colpito profondamente e mi ha convinta ancora di più che la strada dell’impegno culturale delle consacrate è oggi prioritaria per il futuro della vita consacrata stessa (anche se ovviamente non è l’unica). In questo momento di cambio epocale è infatti importante possedere autentiche competenze che aiutino a “rendere ragione della speranza che è in noi” e a metterci in dialogo umile e sincero con il mondo della cultura, per collaborare fattivamente a costruire un mondo di pace nello spirito dell’invito che Giovanni Paolo II rivolse a tutte le donne nella Giornata mondiale della pace del 1995.

2. Impegnarsi sulle frontiere dell’essere e del coinvolgersi

Essere e coinvolgersi. Anche su queste frontiere - a mio avviso - si giocano passi importanti del cammino futuro della vita consacrata.

La frontiera dell’essere “donne” consacrate, innanzitutto. Si tratta del cammino del confronto con se stesse, con la propria realtà di donne - contemporaneamente ricche e povere di doni - che si lavorano per conoscere nel profondo le proprie risorse di “persona umana donna”, che maturano consapevolmente la propria interiorità, che percorrono con costanza il cammino umile della propria verità.

Tornando alle radici della propria identità di donne consacrate, in risposta alle stimolazioni dei Capitoli generali e guidate da donne semplici e sapienti, le consacrate fanno vedere che la loro scelta di vita, con ciò che significa e i compiti a cui rimanda, è una via originale per la piena realizzazione della donna. Non solo, ma è cooperazione feconda e intelligente  a quel riscatto della persona umana che è a fondamento della pace, della democrazia, dello sviluppo tra i popoli.

Nella società, soprattutto la nostra che va diventando sempre più multiculturale e multirazziale, infatti, è soltanto mettendo al centro la persona che si arriva a valorizzare la comunione tra singoli e popoli, al di sopra di ogni sistema o idea o ideologia; a scoprire il vero significato della relazione e ciò che l’altro - non più nemico o concorrente - può offrire; a sviluppare il paradigma di una casa comune e nel contempo plurale; a salvaguardare le istanze universalistiche di ogni espressione culturale in uno spirito aperto alle differenze e alla molteplicità.

A questa nostra società, le donne laiche e consacrate offrono il dono della propria dignità personale mediante la parola e la testimonianza di vita e le ricchezze connesse con la propria vocazione femminile. In essa portano il ricco patrimonio di esperienza accumulato da tante donne lungo la storia, troppo spesso carico di pesi che le hanno relegate ai margini del vivere sociale ed ecclesiale, e quei valori che contribuiscono a salvare l’umano: la coscienza del limite, l’accoglienza, l’attenzione, la cura, la compassione. Sono i valori legati a quel “genio materno” che nel Giubileo dell’Incarnazione del 2000 ha svelato, attraverso il volto di ogni donna e il suo operare sui diversi fronti del quotidiano, il volto della Bellissima, la dolce Madre del Signore.

Simone Weil ripeteva più volte a se stessa: “Non passare dinanzi a una cosa grande senza vederla”.

Non si può non vedere che le donne e le donne consacrate semplici e dotte, anziane e giovani, chiamate a ruoli di responsabilità o prostrate dalla malattia stanno interiorizzando un nuovo modello di maternità per consegnarlo alle generazioni future. E’ un modello fondato

• sulla relazionalità (che richiama il mistero di comunione/libertà tra madre e figlio);

• sul senso del limite (che richiama i periodi di fecondità/sterilità che vive ogni donna),

• sulla capacità di coniugare dolore e gioia (che richiama l’allegrezza di aver dato al mondo un figlio attraverso le doglie del parto).

Un’altra frontiera di grande importanza per il futuro dell’umanità tutta, che contraddistingue oggi la riflessione delle donne, sia consacrate sia laiche, è il ripensamento e l’approfondimento dell’antropologia cristiana come antropologia solidale che rimanda alla realtà della persona umana creata a  immagine di Dio, Trinità di Persone in comunione. Fa parte di questo ripensamento l’accento posto dalle consacrate sul nesso che intercorre tra la donna e il senso della vita, a lei tipicamente proprio, soprattutto nel tratto relazionale interpersonale che è il sigillo impresso dalla Trinità nella persona umana. Non solo, ma l’impegno a collaborare per costruire una nuova cultura, quella cultura che trova fecondità nel mistero della reciprocità che ci costruisce in quanto persone e ci è modello in ogni esperienza di vita, per il suo radicarsi nel mistero ineffabile della reciprocità delle Divine Persone.

Molto si è detto, discusso, condiviso al riguardo - anche se c’è ancora molto cammino da fare perché le consacrate prendano coscienza che possono essere, umilmente ma veramente, una presenza promotrice di un umanesimo fedele al progetto di Dio, rispettoso della dignità di ciascuno (uomo o donna) e di tutte le dimensioni della persona - in vista dei risvolti concreti che tali riflessioni comportano a livello di vissuto.

Si tratta di risvolti che incidono su tutti gli aspetti della vita consacrata: dall’identità ai ruoli, alla vita comunitaria, ai voti, al rapporto tra donne e tra donne e uomini, alla convivenza intergenerazionale e multiculturale, all’esercizio dell’autorità, alla formazione.

E’ urgente fare un discorso a “due voci”, “a più voci”, dando piena cittadinanza alle donne e alle donne consacrate, perché solo “insieme” - uomini e donne di ogni razza e lingua, giovani e adulti, gente di ogni regione e Stato - si potrà elaborare quella cultura della persona umana che si oppone alla logica dell’egocentrismo e dell’autoaffermazione, per dare cittadinanza alla logica dell’amore e della solidarietà. E’ questa la sola strada per opporre a modelli di sfruttamento e di potere modelli di gratuità dialogica e conviviale.

I voti di castità, povertà, obbedienza, riscoperti e vissuti in quella chiave relazionale, che mette al primo posto l’amore per il Signore, sono una strada maestra per costruire questa società sana, a misura di persona umana.

L’obbedienza diventa “libertà liberata con l’ethos dell’amore”, capacità di decisione sana e autonoma, ecologia della mente, scuola di vita comune che fa a ciascuno il giusto spazio, coscienza del proprio limite che accoglie il dono dell’altro nella consapevolezza che ciascuno ha un talento da offrire e trafficare.

La povertà si fa sobrietà umanizzante, dipendenza responsabile dalla comunità secondo uno stile di vita adulta, ecologia della vita che porta ad accontentarsi del necessario, a condividere i bene materiali e spirituali, a lottare per vincere le strutture di peccato e di morte, a testimoniare la lotta contro lo spreco delle cose, della natura, dei pensieri, del linguaggio, dell’amore.

La castità, nella donazione totale a Cristo, diventa ecologia del cuore, lotta gioiosa e trasparente contro la prostituzione del corpo e dello spirito, maternità spirituale aperta a ricevere, a donare, a far crescere la vita.

La frontiera del “coinvolgersi”. E’ il cammino dell’immergersi nella concretezza dei problemi per acquistare la sapienza di prevenirli - quando è possibile - e di inventarne le risposte nel vivo dell’azione. E’ il farsi carico dei problemi portando in essi tutto il peso della propria vita affettiva, intellettuale, volitiva incorporata in quella saggezza che è l’arte-virtù del giusto momento. E’ il prendersi cura della vita e della morte, delle situazioni che richiedono rispetto e accoglienza delle differenze mosse da atteggiamenti dignitosi e sereni di compassione.

“Prendersi cura”, vale a dire diventare sempre più consapevoli del dono che ciascuna può rappresentare per gli altri, per la gente, per il mondo… Prendersi cura dei poveri come Teresa di Calcutta, delle riforme come Teresa d’Avila, della  pace come Brigida di Svezia, dell’Amore come Teresa di Gesù Bambino, del Papa come Caterina da Siena, della verità come Teresa Benedetta della Croce, dell’educazione come Maria Mazzarello, del mondo della comunicazione sociale come Tecla Merlo.

“Essere”, “coinvolgersi” per trasformare la valle del pianto in una sorgente (Sl 83) esprimendo innanzitutto quello che è “il cuore” del “genio femminile”, la cifra dell’essere donna e donna consacrata: il genio del proprio rapporto con il Signore, fonte e ragione di ogni amore. Quel genio che non deve mai spegnersi per condurre la vita consacrata “oltre la porta del terzo millennio”, così che l’umile e coraggioso servizio di tutte coloro che hanno scelto il Signore possano essere non solo “seme nella terra”, ma “lampada sul moggio”.

Quali modelli, allora, per il futuro? Quelli, a mio avviso, che saranno aperti a declinare la profezia del “dirsi e pensarsi” al femminile nell’impegno quotidiano sulle frontiere “dell’essere e del coinvolgersi”.

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