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Mobbing
è un termine di uso sempre più frequente, che non troverete tuttavia sul
vostro dizionario d’inglese, soprattutto se esso risale ai tempi della
scuola. Il vocabolario potrà però esservi ugualmente utile per
comprenderne il significato, se cercherete la traduzione della voce che
a esso più si avvicina: il verbo to mob, che vuol dire
assalire, malmenare. Con il termine mobbing, infatti, ci si
riferisce sempre a un’azione aggressiva, perpetrata sul luogo del
lavoro, che favorisce nella vittima una reazione regressiva. Essa si
manifesta all’inizio attraverso la presenza di blandi sintomi
psicosomatici, per passare poi all’aggravamento di tale sintomatologia e
alla decisione di lasciare il lavoro o alla perdita del lavoro stesso a
causa di comportamenti poco produttivi, che dal mobbing stesso sono
provocati. Harald Hege, studioso di psicologia del lavoro, lo definisce
come «una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro,
esercitata attraverso comportamenti aggressivi o vessatori ripetuti, da
parte di colleghi o superiori»1.
In modo meno tecnico, ma altrettanto chiaro, Enrico Bertolino lo
descrive come «la classica vigliaccata»2.
Che
cosa non è il mobbing
La lingua inglese ci aiuta ulteriormente a comprendere
tale termine, se lo distinguiamo rispetto ad altri due vocaboli, sempre
di origine anglosassone, attualmente di uso molto corrente: stress
e burn out.
Il mobbing si differenzia innanzi tutto dallo
stress, termine ormai familiare al vocabolario italiano, la cui
traduzione sarebbe tuttavia possibile facendo ricorso a parole quali
pressione, fatica psichica, tensione. Ciò che li distingue è
innanzi tutto il fatto che il primo si manifesta in un contesto ben
definito e limitato, l’ambiente di lavoro, mentre il secondo può
riguardare ogni ambito della vita di una persona.
L’elemento maggiormente diversificante le due esperienze è
però il tipo di relazione che s’instaura con gli altri: mentre il
mobbing comporta sempre un rapporto di tipo aggressivo nei
confronti della persona che ne è vittima, lo stress non nasce
necessariamente da una relazione interpersonale conflittuale. Si tratta
piuttosto di un’esperienza proveniente dall’intimo della persona, dal
suo mondo interiore e che si riflette sul suo modo di porsi nei
confronti della realtà, degli altri, delle cose. Lo stress è frutto di
una civiltà basata sulla produzione, sul mercato, che favorisce la
competitività, il successo, la ricerca dell’immagine; esso dipende però
anche dal modo in cui il soggetto si mette in contatto con queste
proposte, da come le accoglie, le fa sue, le assume.
Siamo stressati perché il traffico è caotico, la gente
maleducata, gli impegni pressanti, le richieste degli altri sempre più
esigenti, la vita sempre meno sicura. Lo siamo però anche a causa delle
nostre ambizioni, delle abitudini sbagliate che ci portano a far tardi
la sera davanti al televisore per poi lamentarci di essere stanchi; lo
siamo per l’importanza che attribuiamo alle apparenze, all’immagine, per
le fatiche a coinvolgerci in rapporti interpersonali profondi.
Lo stress che viviamo, di conseguenza, è effetto di una
società che ha favorito al massimo il senso di minaccia e il fermarsi
all’effimero e al superficiale, ma è anche conseguenza del nostro stile
di vita. Noi, infatti, siamo contemporaneamente vittime e fautori di
stress, in base alla nostra maggiore o minore capacità di prendere
le distanze dal mondo in cui viviamo, di non lasciarci fagocitare da
nervosismi inutili e preoccupazioni banali. La tensione, infatti, è
sempre provocata dall’esterno, ma per condizionarci deve trovare posto
nell’interno. Sta a noi, di conseguenza, l’impegno ad accogliere o
rifiutare stati d’animo, quali la paura e l’ansia, che possono essere
osservati con sano distacco o invece incentivati da un’eccessiva
attenzione alla nostra dimensione emotiva.
Inoltre il mobbing è diverso rispetto al burn
out, benché anche quest’ultimo riguardi l’ambiente di lavoro. Pure
in questo caso, come era già stato affermato a proposito dello stress,
la differenza sta nella relazione con gli altri che, per quanto concerne
il burn out, non è vessatoria o aggressiva. Volendo usare una
terminologia psicologica, potremmo affermare che le motivazioni del
burn out e dello stress sono di tipo intrapsichico, in quanto
trovano le proprie origini all’interno della persona confrontata con
situazioni esterne particolarmente faticose, mentre quelle del
mobbing sono di ordine interpersonale; è la relazione,
infatti, ad essere “malata” e a provocare, come conseguenza, una
tensione interiore. Il burn out, infatti, è una forma specifica
di stress collegata al lavoro, la cui origine è dovuta a un sovraccarico
di richieste e di tensioni, di fronte alle quali l’operatore non può più
reggere. Tale stato emotivo ha in genere un duplice effetto:
l’impoverimento delle capacità relazionali dell’operatore nei confronti
di coloro a cui deve offrire delle prestazioni e la riduzione delle sue
abilità lavorative, con conseguente diminuzione della realizzazione
personale.
Il burn out rappresenta dunque l’effetto di una
sorta di sbilanciamento fra ciò che viene richiesto al lavoratore e le
sue competenze/possibilità personali. Per tale motivo esso non si
manifesta solo in persone sottoposte a un eccessivo carico lavorativo,
ma anche in professionisti e operatori che, a causa della loro attività,
sono costantemente in contatto con situazioni particolarmente ansiogene:
pensiamo, per esempio, all’educatore che opera con ragazzi maltrattati,
violentati, al medico la cui attività si svolge con malati terminali,
allo psicologo che deve sostenere quotidianamente il peso dell’angoscia
dei suoi pazienti. L’ansia sopportata dal lavoratore affetto da burn out
è dunque sempre eccessiva, per quantità o per qualità, e i sentimenti da
lui sentiti sono una sorta di campanello d’allarme, orientato ad
indicare che il carico della tensione a cui è soggetto rischia di essere
davvero sproporzionato.
A differenza del burn-out, il mobbing non
impone sulle spalle di chi ne è soggetto un carico di ansia eccessivo,
ma una quantità massiccia di aggressività da parte degli altri; essa
poi, in un secondo tempo, diventa naturalmente fonte di tensione e
profonda inquietudine. Il soggetto, infatti, si scopre poco per volta
bersagliato, da parte di superiori o di colleghi, da attacchi tendenti a
ferire la sua stima personale, a farlo sentire inadatto al lavoro che
sta compiendo o addirittura incapace di affrontare la vita. Tali
aggressioni spesso assumono la forma dell’umiliazione, tanto più
dolorosa quanto più essa comporta il venire esposto nella propria
fragilità di fronte allo sguardo altrui, sia dei colleghi sia di persone
estranee all’ambiente di lavoro.
Colui o colei che potremmo definire come “vittima” si trova
così a vivere, quasi senza accorgersene, ciò che in psicologia è
considerato come un fenomeno regressivo; poco per volta “ritorna
indietro” nel suo modo di comportarsi e reagire: assume atteggiamenti
poco maturi, prova emozioni infantili, si sente solo, sperduto,
bisognoso di appoggio, di aiuto e dubbioso riguardo alla possibilità di
poterlo mai trovare. Tale stato d’animo inoltre non si limita ad
interessare la sola zona psichica; esso influisce anche sul corpo,
provocando prima blande sensazioni di affaticamento, poi sintomi più
percepibili, quali il mal di stomaco o l’insonnia.
Poco per volta questi stati d’animo si allargano a macchia
d’olio: non riguardano più il solo ambiente di lavoro, ma invadono tutta
l’esperienza della persona, la sua vita privata, le relazioni con coloro
che hanno un ruolo significativo nella sua esistenza e a cui si aggrappa
per avere aiuto, ma con cui spesso si sente sola, se non abbandonata.
Anche il suo corpo finisce per essere in balia di tale situazione; i
sintomi psicosomatici aumentano e favoriscono una sorta di circolo
vizioso: il soggetto incomincia a stare davvero male e ciò implica
assenze dal lavoro, che però vengono spesso lette, soprattutto dagli
autori del mobbing, come conferme della sua inadeguatezza, segni
tangibili del suo limite e della conseguente necessità di prendere
decisioni a suo carico.
Il complicato intreccio di relazioni che caratterizza il
mobbing ricorda molto da vicino la dinamica del capro
espiatorio, studiata con attenzione in ambito sociologico e spesso
applicata alle relazioni familiari e di gruppo. Anche in questo caso,
infatti, ci troviamo di fronte a un numero ben definito di personaggi
che compiono una serie di atti facilmente prevedibili: da una parte
collochiamo l’aggressore o accusatore, spesso accompagnato da un
insieme di alleati, il cui fine è l’aggressione della vittima
identificata; dall’altra parte troviamo la già citata vittima: il
soggetto prescelto per essere sottoposto all’attacco. Accanto a lui
individuiamo spesso la figura di un possibile salvatore,
anch’egli attorniato da altri alleati; il loro scopo dovrebbe essere
quello di soccorrere l’aggredito, ma essi finiscono sovente per
rafforzare tale dinamica, proprio perché più concentrati nel proprio
ruolo di difensori che nell’intento di salvaguardare il benessere e la
dignità dell’altro.
Le
possibili motivazioni del mobbing
Alla base del mobbing riscontriamo motivazioni
diverse rispetto a quelle che inducono a mettere in atto la strategia
del capro espiatorio. In questo secondo caso, proprio come avveniva nel
rito antico, l’origine è in genere sempre la stessa e consiste nella
necessità di individuare un componente del gruppo su cui riversare la
colpa di tutti i problemi, onde salvaguardare il resto dei membri.
Per quanto invece concerne il mobbing, possiamo
risalire a cause diverse, che ci sembra possibile suddividere in tre
grandi categorie: una motivazione che potremmo definire strategica,
più collegata ai vantaggi economici, personali o della ditta o azienda,
che colui che mette in atto tali tecniche si illude di poter ottenere.
Una seconda causa può essere definita psicologica: essa prescinde
dai possibili guadagni effettivi, ma è scatenata da dinamiche personali,
che finiscono per riversarsi su di un’altra persona, quali la
competizione, l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, ecco
alcune dei possibili moventi. Infine, l’ultima e forse più drammatica
motivazione, è il gioco: in questo caso il mobbing sembra
apparentemente non avere alcuna motivazione reale; di fatto, però, essa
esiste, nascosta nelle pieghe più intime e spesso sconosciute della
personalità che mette in atto tale tecnica.
Nel caso della soluzione strategica, colui o colei
che è vittima del mobbing è spesso una personalità passiva,
inefficiente, lenta nello svolgere i suoi compiti o inadatta
all’incarico che le è stato affidato; altre volte si tratta di qualcuno
che ha operato scelte pericolose per l’azienda o la ditta in cui lavora.
Bertolino3
porta ad esempio la storia, avvenuta parecchi anni fa, di una
funzionaria di banca che aveva avuto una relazione extraconiugale con un
cliente; non potendo licenziarla, i superiori le crearono un fantomatico
ufficio “studi e ricerche”, dove ella passava il tempo, tutto il giorno
da sola, non facendo nulla e senza alcun contatto con l’esterno,
circondata dal silenzio o dal sospetto dei colleghi.
La vittima del mobbing è sempre qualcuno che si
vuole far fuori, benché non si sappia o non si possa mettere in
atto tale decisione in modo esplicito e diretto: tale tecnica sopperisce
così a questa impossibilità e offre dei metodi più subdoli e nascosti,
che tendono a logorare la persona presa di mira e a renderla instabile,
fino al punto da indurre in lei la reazione desiderata o di offrire
motivazioni legittime per il suo allontanamento o licenziamento. Il
mobbing, infatti, è una sorta di sottile e nascosta persecuzione e,
di conseguenza, non può che provocare nell’altro insicurezza, impotenza
e impressione di essere preso di mira con conseguenti reazioni, che
avranno come effetto il tipico circolo vizioso evidenziato in
precedenza. Esso è frutto della società contemporanea competitiva e
aggressiva, dove lo stile di vita ricorda molto più da vicino
l’esistenza all’interno di una giungla che la convivialità serena di una
società civile.
Il mobbing dovuto a cause psicologiche è
invece vecchio quanto il mondo poiché, come ci illustra il racconto
della Genesi a proposito di Caino e Abele, nel cuore dell’uomo crescono
invidia, gelosia, sentimenti vendicativi, di rivalità che creano
relazioni malsane e spesso anche distruttive. In questo caso la tecnica
del mobbing non ha alcuna motivazione vantaggiosa dal punto di
vista economico o, se ce l’ha, si tratta piuttosto di un effetto
collaterale, non ricercato in modo diretto. Il vero motivo, spesso
sconosciuto alla persona che lo mette in atto, è quello di ostacolare la
realizzazione, se non distruggere la dignità, di una persona nei
confronti della quale si vive un rapporto problematico, competitivo o
negativo.
Benché il mobbing si attui sul luogo del lavoro,
all’origine può avere cause che prescindono totalmente da questa
dimensione. Si pensi, per esempio, alla donna che vive perennemente dei
rapporti aggressivi e distruttivi nei confronti degli uomini; sul lavoro
si sentirà portata a distruggere la reputazione e la stima di quelli con
cui deve collaborare, soprattutto se meno competenti di lei o in
minoranza numerica. Penso, per esempio, ad una storia ascoltata di
recente. In un gruppo di operatori sociali arriva una nuova educatrice,
che si lega strettamente a un collega: li si vede spesso insieme,
collaborano nelle attività da organizzare per i ragazzi, fanno proposte
simili e lei appoggia calorosamente tutte le iniziative da lui
suggerite. Dopo un po’ di tempo le cose sembrano però cambiare: si
inizia con la critica a proposito delle scelte pedagogiche
dell’operatore stesso, poi con la creazione di una solida rete di
alleanze, tanto che l’uomo si trova contro non solo una, ma quattro
colleghe. L’ultima tappa consisterà prima nelle insinuazioni e poi nelle
accuse esplicite, tendenti non solo a svalutare la persona, ma anche a
denigrarla, fino al punto di accusarlo di abuso nei confronti degli
adolescenti da lui accuditi. In questo caso solo l’intervento dello
psicologo, capace di individuare in modo chiaro le motivazioni
distruttive di colei che attua il mobbing, sarà in grado di
riequilibrare le dinamiche tra operatori ed eliminare la tensione, che
rendeva invivibile l’ambiente e inefficace ogni tentativo di
collaborazione nel gruppo.
La terza motivazione alla base del mobbing è forse
la più drammatica, poiché all’origine delle vessazioni e angherie subite
dal soggetto sembra all’apparenza non esistere alcun motivo. Esso è
attuato per gioco, da uno o più “persecutori”, che prendono di mira un
collega per il puro “divertimento” di vederlo soffrire. In realtà,
dietro alla giustificazione definita con il nome di “gioco”, è possibile
individuare complesse motivazioni psicologiche, che denotano disturbi
seri, benché nascosti. In questi casi, colui che attua il mobbing
è spesso una personalità narcisista, incapace di empatizzare con gli
altri e spinta da desideri distruttivi; si tratta di un soggetto
apatico, che cerca di uscire dal buio, dalla noia o dall’infelicità
creandosi forti illusioni. Sovente si tratta di una persona che ha una
doppia vita: impiegato apparentemente perfetto per cinque giorni alla
settimana, frequentatore di discoteche, dedito all’alcool e alla droga,
di notte o durante il week-end. Nei giorni feriali, per sopravvivere
alla noia del lavoro, si crea un “diversivo”: esso consiste
nell’individuare una possibile vittima e angariarla, nel drammatico
tentativo di crearsi una “eccitazione per i giorni lavorativi”
attraverso la visione della sofferenza di un suo simile. Anche questo
tipo di mobbing è frutto della società contemporanea che,
attraverso l’ipervalutazione dell’immagine, la forte competitività, la
ricerca delle sensazioni piacevoli e il culto dell’io, tende a favorire
lo sviluppo di personalità narcisiste, incapaci di rapporti empatici e
di reciprocità.
Contesti, effetti e terapie
Il mobbing può verificarsi in ogni tipo di contesto
lavorativo. Cadremmo in errore se pensassimo che esso è messo in atto
solo là dove esiste una forte competizione legata a criteri di
produttività, come nelle aziende o nelle banche. Esistono infatti altri
ambienti dove esso è praticato, anche se meno riconosciuto. Ci riferiamo
in particolare alle strutture educative, come la scuola, e a quelle
sociosanitarie: servizi ospedalieri, comunità, luoghi di assistenza
sociale. Anche in questi contesti, dove è richiesta una fitta rete di
relazione e rapporti di collaborazione, esso può essere messo in atto,
creando effetti negativi non solo sulla vittima designata, ma anche sui
destinatari delle prestazioni: gli allievi della scuola, i malati a cui
si presta servizio, i bambini e gli adolescenti delle comunità alloggio
o dei centri di aggregazione.
Non si può infatti auspicare che il mobbing pervenga
talora a un risultato positivo: le sue vittime sono invece sempre
numerose; chi ne fa le spese, infatti, non è solo il soggetto designato,
ma anche gli utenti del servizio e l’azienda stessa dove esso si
verifica, la quale si trova a dover stipendiare due lavoratori che
diventano improvvisamente meno produttivi. Non solo il capro espiatorio,
vessato dal collega, si trova improvvisamente incapace di essere
efficace come un tempo, ma anche il suo persecutore, spesso fortemente
distratto dall’attuazione delle sue strategie vessatorie e vendicative,
finisce per essere meno efficiente e adeguato rispetto al passato.
Per evitare danni è dunque bene ricorrere alle terapie
opportune. La vittima del mobbing dovrà prima di tutto essere
aiutata ad affrontare meglio i soprusi subiti e a reagire adeguatamente.
Invece di assoggettarsi passivamente alle angherie del suo oppressore,
potrà rivolgersi ad una persona specializzata, preferibilmente uno
psicologo; per mezzo dell’aiuto offerto, saprà rendersi conto delle
emozioni vissute e imparare a gestirle e sarà in grado di individuare
dentro di sé le possibili aree di forza, utili per affrontare il nemico
invece di soccombere in modo inerte.
Anche la struttura in cui il mobbing si verifica
potrà trarre vantaggio dal ricorso allo psicologo, il quale aiuterà i
diversi membri che in essa operano non solo a conoscere i loro diritti,
ma anche a scoprire e attuare strategie di collaborazione, capaci di
creare un’atmosfera vivibile, basata su relazioni interpersonali
corrette.
Ogni comunità umana, infatti, è paragonabile a un corpo, in
cui il dolore o il malessere di ogni membro dolente procura sofferenza
alla totalità. L’Evangelo ci rivela che il grande desiderio di Gesù per
gli uomini, suoi fratelli, è quello dell’unità e che ogni attacco a
questo valore non ferisce solo il singolo, ma si ripercuote su tutti.
Anche la triste esperienza del mobbing conferma che siamo fatti
per diventare una cosa sola e che là dove questa “legge”
spirituale e psicologica non è attuata, l’uomo è destinato a vivere una
sofferenza, che non potrà mai essere limitata al singolo, ma si
ripercuoterà necessariamente su molti. Dove invece si moltiplicano gli
sforzi per cercare il superamento dei conflitti e la collaborazione, la
serenità che tali intenti provoca nelle persone avrà come effetto
collaterale una maggiore soddisfazione nell’esperienza lavorativa e una
più grande capacità di affrontare e sopportare le dimensioni frustranti
dell’attività svolta.
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