1. Uno stile di vita
L’espressione “stile di vita” è frequentemente utilizzata per riferirsi
a ciò che caratterizza in via permanente e in profondità il modo di
vivere di un soggetto. Lo stile di vita è il risultato di una stretta
connessione tra il mondo individuale e la sfera sociale. Ogni uomo, ogni
persona, interagisce con la società in cui vive. A volte ne riproduce
abitudinariamente i comportamenti, altre volte ne crea di nuovi. Lo
stile di vita non si improvvisa, non è fatto di episodi. È lo specchio
visibile di un’etica personale, di un’antropologia. È la saldatura di
tre elementi: una spiritualità (come sorgente di senso), un’opzione
fondamentale (come finalità che orienta), una prassi quotidiana (come
concretezza di azioni).
Ma
normalmente nella nostra esistenza quotidiana non si registra questa
saldatura tra le parti. Ci accorgiamo, invece, che le esperienze di vita
diventano sempre più frammentate e dispersive: esperienze, idee,
prodotti … tendono a diventare sempre più parziali e limitati ad ambiti
specifici. Le nostre scelte, le abitudini, i costumi sono spesso guidati
esclusivamente dal criterio dell’apparenza, dalla mentalità dell’usa
e getta. Su questo terreno prospera l’economia del consumo e
quegli stili di vita che ne sono la deriva visibile nella vita
quotidiana.
La
sobrietà può essere la risposta a tale dispersione, diventando una virtù
di sintesi che abbia la forza di unificare idee e azioni.
Non
basta assumere dei comportamenti particolari se non si cambiano quei
criteri fondativi che utilizziamo come metro di giudizio. Alla fine
anche le belle iniziative rimangono parentesi frammentarie che non
incidono sul nostro stile di vita. E, viceversa, senza comportamenti
adeguati, anche profonde scelte valoriali rimangono inevitabilmente pura
teoria. Serve un lavoro sinergico per allargare gli orizzonti della
mente ma anche per modificare concretamente la vita.
È
opportuno osservare che da qualche tempo è la Chiesa stessa a
pronunciarsi a favore di una revisione degli stili di vita nella
comunità dei cristiani. Nel 2001, all’incontro di Badin (Slovacchia) del
Consiglio delle 34 Conferenze Episcopali d’Europa su Stili di vita
cristiani e sviluppo sostenibile, sono state indicate queste
pratiche umanizzanti: la Banca etica; il commercio equo e solidale; i
bilanci di giustizia; l’economia di comunione; l’uso di fonti
energetiche rinnovabili; la domenica come giornata di riposo.
Oltre
all’impegno per promuovere queste iniziative ed elaborarne di nuove,
durante l’incontro in Slovacchia, i Vescovi europei hanno sottolineato
come «un cambiamento degli stili di vita potrà affermarsi e
diffondersi ampiamente soltanto se sostenuto dall’esperienza interiore
di “gioia” o “compiacimento” per tutto il Creato. Il rispetto per il
Creato in tutta la sua varietà costituisce la base per una migliore
qualità di vita. Una cultura della vita, elemento fondamentale di
un’autentica spiritualità cristiana, attingendo alle ricche sorgenti
della tradizione e della spiritualità cristiane, può liberare dalle
molteplici costrizioni del consumismo».
Si
comprende allora per quale ragione, oltre al significato economico, la
sobrietà venga ad acquisire un significato antropologico. Nella sobrietà
si manifesta, infatti, tutta la “premura per l’altro” partendo da un
“io” consapevolmente sobrio, un “io” che in questo modo si impegna a
“condividere” e a rispettare il “limite” rifiutando l’ebbrezza dei
consumi, dell’accumulo e del possesso.
Proprio
perché la sobrietà comprende queste importanti dimensioni culturali,
antropologiche e politiche, non deve essere banalizzata in una casistica
del più e del meno. Il problema è ben più profondo.
Soprattutto come cristiani non è possibile rinunciare al fondamento
etico dell’agire economico. Ciò vale sia sul piano teorico (ortodossia)
che su quello pratico (ortoprassi): e deve ripercuotersi nella
quotidianità della vita personale, nelle scelte e nei comportamenti,
cioè, appunto, negli stili di vita.
Per
costruire un mondo più equo e sostenibile, nel tempo della
globalizzazione, è necessario partire da se stessi, non attendere
“l’arrivo di Godot”, non delegare ad altri il cambiamento.
La
sobrietà è una virtù sociale che attende di essere ancora esplorata in
tutte le sue potenzialità di trasformazione.
Occorre
partire dal basso, dalle reti di cittadinanza attiva dei soggetti, dalle
scelte dei gruppi familiari e muoversi progressivamente in un orizzonte
di pedagogia dei gesti e di strategia dei comportamenti, anche
economici, che oltre ad essere alternativi si pongano obiettivi di
trasformazione sempre più politici e strutturali.
1.1. Cos’è la sobrietà?
“Sobrio” è il contrario di “ebrius”. Il suo significato etimologico
originale è negativo (“s” privativa!), come la parola “S-leale”, o la
parola “S-contento”, o la parola “S-quilibrato”.
Ebrius vuol dire ebbro, inzuppato, inebriato, esaltato, ubriaco,
avvinazzato, agitato, su di giri, fuori le righe, s-regolato, fuori
controllo, s-misurato.
La
nostra è una società ebbra di consumi, di piaceri, di cose materiali, è
una società dell’abbondanza, dell’apparenza, del narcisismo che i
sociologi definiscono anche affluente, edonista, opulenta, ecc. La
nostra società è condizionata da un’insaziabile domanda di beni che
scaturisce da cicli economici sempre più accelerati che riescono a
costruire nuovi bisogni e a provocare le condizioni materiali per
soddisfarli.
Sobrio,
invece, è chi vive in modo in-nocente (che non nuoce), cioè equilibrato,
misurato, entro un’etica del limite.
Per
questo la sobrietà è uno stile di vita “sostenibile”, ossia capace di
futuro. È il passaggio dal modello di vita del cow-boy (che nel Far West
deve continuamente “predare”, colonizzare, possedere) al modello di vita
dell’astronauta (che esplora lo spazio ma che deve, invece,
essenzializzare tutte le risorse per affrontare il viaggio di andata e
ritorno).
Ecco
perché è sostenibile solo uno stile di vita che promuova rapporti
democratici tra le persone, favorendo pari opportunità di sviluppo e non
consente a nessuno di arricchirsi alle spalle degli altri.
Lo stile
di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo
«quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo
stupore per l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose
visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (CA, 37).
La
sobrietà deve portare non solo all’etica del limite, della misura e
dell’equilibrio, ma anche alla cultura dell’armonia, della bellezza e
della qualità. Per questo, come afferma Wolfgang Sachs, dovremmo
iniziare a parlare di una estetica della sobrietà (il gusto, la forma),
e di una eleganza della semplicità.
La
sobrietà ci aiuta a riscoprire il gusto per la semplicità e il valore
delle cose belle. Una bellezza vera e seducente ma non effimera. La
bellezza a cui la sobrietà può rieducarci è così diversa e profonda che
presuppone una spiritualità, quella della compassione, quella di chi sa
condividere il dolore.
Il
Cardinal Martini, in una delle sue ultime lettere pastorali indirizzate
alla Diocesi di Milano, riporta la domanda che Dostojevskij, nel suo
romanzo L’Idiota, pone sulle labbra dell’ateo Ippolit al principe
Myskin:
«“È
vero, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza?
Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà
salvato dalla bellezza… Quale bellezza salverà il mondo?”.
Il
principe non risponde alla domanda.
Sembrerebbe quasi che il silenzio di Myskin – che sta accanto con
infinita compassione d’amore al giovane che sta morendo di tisi a
diciotto anni – voglia dire che la bellezza che salva il mondo è
l’amore che condivide il dolore».
La
sobrietà offre gli occhiali giusti per leggere la realtà. Ci spinge
verso uno stile di vita solidale con gli ultimi. Ci avvicina alla
bellezza che illumina i cuori, che rassicura lo spirito, che rafforza la
speranza per affrontare tanti drammi che la vita quotidiana spesso ci
riserva.
In
questo senso la sobrietà rende possibile iniziare a svincolarsi dalla
mentalità del calcolo e del consumo. Spesso il metro di giudizio con il
quale misuriamo le nostre scelte lo mutuiamo dai mass media, che
mostrano la “loro felicità” ideale, e in particolare dalla pubblicità. «Grazie
ad essa - è stato osservato - il desiderio è come sedotto, spinto
a spostarsi verso oggetti sempre nuovi, sempre in cerca di forme nuove
di soddisfazione. Costante, però, è la delusione che subentra dopo
l’acquisto, come lo stimolo a superare tramite ancora altri oggetti, più
nuovi, più aggiornati. È facile, allora, capire perché la nostra appaia
sempre più come una società dei rifiuti: un PC di un paio di anni è già
vecchio; un abito dell’anno precedente è out»1.
La
sobrietà può diventare allora una nuova unità di misura del desiderio.
Può essere quel paradigma, quel campione di riferimento con cui
confrontare l’utilizzo dei beni e la cura delle relazioni.
In buona
sostanza, uno stile di vita sobrio ricerca la promozione della vita
migliorando, innanzitutto, la qualità della propria vita.
La
sobrietà realizza un sano equilibrio tra le dimensioni dell’identità,
dell’alterità e della fruizione delle risorse ambientali.
1.2. Nuovo nome della “temperanza”
Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Così una volta si imparava
dal catechismo. Poi è venuto il tempo dell’oblio e anche per le virtù
“cardinali” è diventato difficile sopravvivere. Oggi è possibile
rilanciare la “temperanza” nella forma aggiornata della sobrietà e in
questo senso essa potrebbe diventare un banco di prova per tutta la
comunità cristiana. La temperanza è la capacità di controllare e
mantenere nei giusti limiti il soddisfacimento degli appetiti naturali.
La
temperanza «è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e
rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni del Creato», recita il
Catechismo. La temperanza, con il suo richiamo alla
moderazione e alla sobrietà, costituisce una sorta di scudo
protettivo di fronte alle tentazioni della ricchezza ottenuta con ogni
mezzo e suggerisce il giusto distacco dai beni materiali, mezzi di
investimento per lo sviluppo e non già fine in sé.
La
temperanza è la virtù dell’equilibrio e del senso della misura,
della capacità di resistere, rinunciare, di “mescolare”
(l’acqua con il vino, ad esempio), e perfino di “tagliare”, di spuntare
e di affinare (si pensi al temperino).
Chi
agisce nella temperanza certamente non è smodato, eccessivo, ingordo,
s-regolato, ma è persona semplice ed essenziale in tutto, perché sa
ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare.
Alla
fine, per vivere bene, non si ha bisogno di molte cose: alcuni beni per
un’esistenza dignitosa, riconoscimento e rispetto degli altri, coltivare
buone relazioni con quanti incontriamo nella vita quotidiana: famiglia,
lavoro, amici, Dio. E tutto questo a partire da una sicura autostima.
Veramente la sobrietà è, in questo senso, la virtù del futuro, il nuovo
nome della temperanza, un bene relazionale, una qualità della relazione:
con se stessi (identità/sobrietà); con gli altri (alterità/sobrietà);
con le cose (consumo/estetica della sobrietà).
Ma non
possiamo dimenticare che la sobrietà esprime anche il modo di vivere e
di vedere il mondo con lo “sguardo” dei poveri e proprio per questo è
una scelta economica e politica. Perché il nostro stile di vita sia
caratterizzato da questa virtù abbiamo bisogno di crescere,
confrontarci, rivedere la nostra mentalità e ripensare alcune posizioni
e abitudini di vita che sembrano scontate.
2.
Sobrietà e identità: verso un “io sobrio”
Proprio
perché la sobrietà è semplicità, essenzialità, leggerezza… essa può
anche aiutarci ad evitare la frammentazione della nostra vita quotidiana
e il rischio delle assolutizzazioni.
Un “Io
Sobrio” significa un Io unitario, non dispersivo, non frantumato, non
distratto, ma equilibrato, armonico, con un criterio gerarchico e
ordinatore.
Identità
sobria è quella di una persona sicura di sé e unitaria nelle sue scelte.
Come ricorda W. Sachs: «per i maestri della saggezza, l’opposto della
semplicità non è la vita lussuosa, ma la vita frammentata. Un eccesso di
cose ed oggetti non fa che intasare la vita quotidiana, distrarre in
mille modi la nostra concentrazione e toglierci l’energia che ci serve
per trovare una linea chiara da seguire nella vita. Chi non riesce a
dare la giusta dimensione al proprio rapporto con le cose, infatti,
finisce per non aver più risorse sufficienti per dar forma al proprio
progetto di vita.
In
questa luce l’arringa per la semplicità non ha gran che a che vedere con
la morale, ma piuttosto con l’estetica. Come nell’arte tutto dipende
dall’uso controllato di colori o suoni, in modo analogo l’arte di vivere
richiede l’uso ben temperato dei beni materiali. In altre parole, esiste
un legame sotterraneo tra il buon vivere e l’austerità. Chi sente il
desiderio di “dare forma” alla sua vita si sentirà spinto a sperimentare
una sorta di “semplicità selettiva” non per spirito di
autoflagellazione, ma con uno spirito di ricerca e di avventura. Chi
vuole sopravvivere all’invasione delle merci sin nei territori più
privati della propria vita, s’accorgerà di non avere altra scelta che un
“consumo selettivo”. Chi vuole restare padrone dei propri desideri,
scoprirà il piacere del non rispondere a tutte le “occasioni” d’acquisto».
La
sobrietà tocca dunque prima di tutto la dimensione identitaria, il
rapporto con se stessi. L’individuo in questo senso non è più
proprietario, teso quindi all’accumulazione, ma solidale e quindi capace
di fruizione condivisa e di una assunzione selettiva delle cose. La
sobrietà può diventare un principio gerarchico che riconduce la
pluralità delle esperienze all’unità del significato; sviluppando così
un Io Selettivo come presupposto per l’autonomia. In questo modo non ci
si perde “nelle tante cose da fare”. La persona riesce a fare sintesi
nella sua vita.
Pensiamo
per esempio alla gestione del tempo, alla responsabilità nel decidere i
tempi della vita. Anche dal Vangelo ci viene un esempio interessante
quando Gesù guarisce l’indemoniato liberandolo dai tanti “demoni”
(legione) che dividono la persona e la scindono al suo interno.
Senza
una cura del rapporto con la propria identità la sobrietà sarebbe
scadente e sciatta, strumentale e destinata a perdersi.
3.
Sobrietà e alterità: per un’etica della responsabilità
Quando
la sobrietà caratterizza lo stile di vita si declina naturalmente anche
nelle modalità di relazione con gli altri.
Essa ha
il potere di colorare la vita e di trasportarla in una prospettiva di
cura e di responsabilità. La sobrietà nelle relazioni ci aiuta a vivere
lo stupore per le piccole cose, l’attenzione per le sfumature, il
significato del dettaglio, indicandoci il primato dell’altro come
principio gerarchico ed esprimendo l’esistenza come premura e servizio
verso le persone che vivono intorno a noi.
La
sobrietà si manifesta nella ricerca di relazioni significative e
personali. Come dice Padre Abramo Levi nel libro Il sapore della
sobrietà: il cristiano, l’uomo, viene stupito, quasi scandalizzato,
dalla sobrietà di Dio, che si manifesta nella sistematica ricerca di
relazione con l’uomo. La sobrietà di Dio sta nel suo scendere (kenosis),
nel suo abbassamento, nel suo prendersi cura dell’uomo quando confeziona
le vesti di pelle (per Adamo ed Eva), quando pone il segno protettivo su
Caino.
Al
contrario, l’uomo proprio nell’allontanarsi dalla relazione diventa
“ebbro”: quando mangia il frutto proibito, quando costruisce la Torre di
Babele, quando Noè si ubriaca.
Dunque,
la ristrutturazione del rapporto con gli altri alla luce della virtù
della sobrietà viene a significare l’impegno di vivere il proprio “Io”
come un “Io ospitale” e coerentemente “solidale”, aperto all’alterità.
Le relazioni sono tra le nostre principali ricchezze, se riusciamo a
fuggire le tentazioni dei nostri egoismi.
Oggi i
nostri rapporti si moltiplicano. Di pari passo crescono anche le
modalità di comunicazione. Agli strumenti con i quali tradizionalmente
comunichiamo si aggiungono i telefonini cellulari, gli sms (e mms), le
e-mail e le chat, fino ad arrivare alle web cam e chissà cosa ci
prospetta il futuro. Si aprono confini ed entriamo in relazione anche
con persone di altre culture, religioni, tradizioni. Però la quantità
delle nostre relazioni e la proliferazione degli strumenti possono non
incidere sulla qualità dei rapporti. A volte condizionandola fortemente:
i mezzi ne dettano i tempi e le condizioni, mentre il numero incide
sulla superficialità.
Un
ulteriore problema che le nostre società globali ci presentano riguarda
la differenza e l’alterità che sono spesso vissute con paura e
diffidenza.
Le
persone hanno bisogno di iniziare un percorso che le porti a comprendere
che «il pluralismo della società civile moderna non sia semplicemente
una “brutta realtà” che può risultare sgradita o essere finanche
detestata ma (purtroppo) non ignorata, bensì una cosa buona e una
circostanza fortunata, in quanto i vantaggi che arreca superano di gran
lunga i disagi e gli inconvenienti, amplia gli orizzonti per l’umanità e
moltiplica le possibilità di una vita più piacevole rispetto alle
condizioni che potrebbero offrire una qualsiasi delle sue alternative»2.
Abbiamo
la necessità di sviluppare anticorpi che possano vincere sia il
disordine dovuto alla moltiplicazione degli incontri, sia le paure
legate alle incognite della differenza. Sono la relazionalità e la
nostra capacità di costruire comunità, di creare legami significativi a
poterci orientare.
Le
nostre relazioni sono guidate da un’etica responsabile verso l’altro,
quando si acquista la capacità di instaurare rapporti significativi.
Attraverso la ricostruzione dei legami tra le persone si può recuperare
la solidarietà, che è il nutrimento della fiducia, della sicurezza di
sé. Le singole persone, le associazioni, i movimenti e le varie
organizzazioni della società civile hanno un compito importante. Sono
tutti chiamati a rivitalizzare i rapporti tra gli individui, promuovendo
iniziative che coinvolgano gli esclusi e ricostruiscano un tessuto
sociale vitale. Costruire reti di relazione, ricercare il dialogo e
l’apertura verso l’altro è uno stimolo fondamentale, perché si possa
rispondere alla “voglia di comunità” per recuperare sobrietà nella
nostra relazionalità.
Iniziare
un cammino di sobrietà nei rapporti richiede la capacità di attenzione
verso l’altro: quello che ci è vicino, con il quale ogni giorno
condividiamo le gioie ed i dolori delle nostre esperienze, e quello
lontano che non vediamo, non conosciamo ma sappiamo vivere il nostro
tempo ed affrontare le nostre stesse sfide, se non maggiori e più
difficili.
4. Sobrietà e beni materiali
Dopo
l’identità e l’alterità, il tema della sobrietà si coniuga con l’uso dei
beni materiali. Va osservato che questo è forse l’aspetto più indagato e
tradizionale della sobrietà. È un cantiere aperto. La ricerca è in corso
e ci vuole ancora tempo per capire verso quali scelte di fondo si
orienterà la comunità cristiana rispetto al neoliberismo e al trionfo
dei consumi che diventano fondamento dell’attuale società globale.
Le
grandi imprese investono sempre quote maggiori delle loro risorse in
indagini di mercato allo scopo di prevedere i comportamenti delle
persone nei confronti dei loro prodotti o dei loro servizi, oltre ai
capitali già ingenti destinati alla promozione pubblicitaria. Al giorno
d’oggi non sono più le fabbriche ad essere la struttura simbolo della
nostra epoca, ma i grandi centri commerciali3.
In un’economia che si regge sulla fiducia nel consumo, gli acquisti
diventano il modo per costruire e comunicare la propria identità. La
soddisfazione dei bisogni è, anche se legittima, un fattore secondario.
L’attenzione dedicata dalle multinazionali al comprendere e catturare i
gusti della gente ne è un indicatore.
La forza
di un’impresa viene valutata per quanto riesce ad essere visibile e
quanto riesce a condizionare i mercati. Il consumo diventa il campo di
verifica di tutte le politiche aziendali. Purtroppo spesso le imprese
commettono abusi non curando la dignità dei propri lavoratori, oppure
disinteressandosi degli impatti ambientali e così via.
Tutta
l’economia, dice Giovanni Paolo II, è da ripensare. Allora, proprio il
consumo può diventare lo strumento nelle mani dei cittadini per
modificare la situazione esistente, perché le decisioni di acquisto
diventino i modi per sostenere o disapprovare non solo l’efficacia ed
efficienza di un prodotto, ma anche la politica di gestione di coloro
che li producono. Le nostre potenzialità di acquisto sono un’arma
efficace per combattere le ingiustizie che vengono compiute per seguire
le leggi del mercato. Infatti, scegliere uno specifico prodotto invece
che un altro, significa dare fiducia ad un impresa e non ad un’altra.
Inoltre,
in un’economia che si regge sulla fiducia nel consumo gli acquisti
diventano il modo per costruire e comunicare la propria identità. La
soddisfazione dei bisogni è, anche se legittima, un fattore secondario.
La felicità viene disegnata nella soddisfazione di un qualsiasi
desiderio: siamo abituati, si potrebbe dire educati, a realizzarli.
Anche
adottando uno stile di vita sobrio, comunque, bisogna tenere presenti
due derive:
- la casistica della sobrietà, che riduce questo stile di vita ad
una gabbia, ad una lista di precetti, ad un ricettario, e finisce per
ingessare la sobrietà;
- la concezione pauperistica della sobrietà che propone una
visione “sacrificale” della sobrietà, mentre noi parliamo di sobrietà
“felice”. Non qualsiasi povertà si concilia con la sobrietà, ma “Madonna
povertà”, come insegna San Francesco.
La
relazione con i beni materiali va curata per non essere da questi
dominati. Sono due le direzioni da tenere d’occhio: da una parte
l’applicazione di un discernimento che valuti l’essenziale, dall’altra
la comprensione della vera natura, dell’origine del prodotto.
Si sono
ormai da tempo consolidati diversi comportamenti che possono
caratterizzare uno stile di vita sobrio e, come in alcuni casi è
successo, tali comportamenti possono anche contribuire al cambiamento di
rotta delle politiche di alcune multinazionali che, altrimenti,
avrebbero trascurato alcuni diritti dell’uomo e della natura.
5. La sobrietà come scelta ecologica,
economica e politica
L’etica
del limite e la cultura della sobrietà sono scelte obbligate per
costruire fin da oggi una società sostenibile.
Come
abbiamo già detto, la sobrietà è guardare il mondo con lo sguardo dei
poveri e dalla parte dei poveri. Non è questo il luogo per parlare del
divario economico e del divario digitale. Ma alla luce di queste
considerazioni, le scelte da compiere sono: il consumo critico, i
bilanci di giustizia, il commercio equo, la banca etica, i gruppi
d’acquisto solidale, la Tobin Tax, la tutela dell’ambiente, la tutela
delle biodiversità, l’attenzione critica alle manipolazioni genetiche,
agli organismi transgenici, la partecipazione alle campagne sull’acqua e
sui farmaci essenziali, fino alla lotta per una nuova architettura
finanziaria mondiale e alla salvaguardia del Creato nel tempo della
globalizzazione.
Il
passaggio dalla società dello spreco a quella sostenibile non significa
solo produrre di meno, ma anche produrre diversamente: meno prodotti
superflui, più prodotti fondamentali: meno consumi privati, più consumi
pubblici; meno energia da combustibili fossili, più energia da risorse
rinnovabili; meno prodotti usa e getta, più prodotti duraturi; meno
spreco, più recupero e qualità della vita. Inoltre, dovrà essere
ridotto, come dice Sachs, «il peso con il quale le nostre economie
gravano sulla terra»4.
Più
profondamente, è il concetto di “felicità” che viene chiamato in causa e
che dovrà essere ridefinito, correggendo la distorsione
dall’utilitarismo. Osserva infatti Serge Latouche che «la riduzione
utilitarista della felicità al piacere, del piacere alla soddisfazione
dei bisogni, del bisogno al quantum di consumo e dunque in definitiva
della felicità alla sua misura – il denaro – dev’essere rimessa in
discussione»5.
Come si
vede, la scelta della sobrietà si configura come un modo di pensare e di
agire alternativo. In effetti, più che la globalizzazione - che a priori
non è né buona né cattiva - come dice il Papa, ciò che fa problema è
quello che Ulrich Bech chiama “globalismo”, cioè «l’ideologia del
dominio del mercato mondiale, l’ideologia del neoliberismo»6,
che rimuove o sostituisce l’azione politica e subordina la
multidimensionalità della globalizzazione al predominio unilaterale del
mercato mondiale.
Come ha
osservato Mons. Van Thuan, recentemente scomparso, «il globalismo
(ossia l’ideologia riduttiva che disorienta la globalizzazione)…
interpella fortemente la dottrina sociale della Chiesa… al punto da dare
l’impressione di mettere in questione alcuni suoi principi fondamentali»7.
Oggi la
Chiesa appare sensibile alla scelta di nuovi stili di vita. Infatti
nella Charta Oecumenica e nell’incontro di Badin, nel quale si sono
incontrate le Conferenze Episcopali di tutta l’Europa per dialogare e
riflettere sulla salvaguardia del Creato, si è riaffermato che «i
cristiani dovrebbero dare testimonianza della loro fede anche attraverso
un coerente stile di vita rispettoso verso il Creato (…) Il ruolo della
Chiesa di oggi non può limitarsi ad essere avvocato per il Creato ma
deve elaborare progetti e proporre modi di vita alternativi».
Per il
futuro bisognerà sempre di più includere in tutte le stime economiche
relative alle attività umane anche i costi ambientali, l’impatto sugli
ecosistemi. È divenuto sempre più chiaro che ci sono dei limiti
all’espansione umana sul pianeta terra. C’è una crescente evidenza che
alcune attività umane eccedono già la capacità di sopportazione
dell’ambiente.
La
ricerca di sostenibilità per un nuovo modello di sviluppo deve essere
inseparabilmente legata sia all’ambiente che alla giustizia sociale. Il
legame sempre più stretto tra vita quotidiana (locale) e agenda mondiale
(globale) pone in evidenza l’importanza di considerare il nostro stile
di vita solamente come scelta strettamente personale, mentre dovremmo
viverlo nella consapevolezza di “gesto politico” che incide nel contesto
globale.
La
scelta di uno stile di vita improntato alla sobrietà consente, ad ogni
cittadino e ad ogni cristiano, di dare il proprio contributo per la
costruzione di un mondo più equo e più giusto.
Bisogna
dunque educare le coscienze, affinché si comprenda che non bastano i
gruppi di pressione e i movimenti di base per orientare diversamente gli
indirizzi economici delle istituzioni internazionali.
Per
vivere la sobrietà è necessario non sottovalutare alcune dimensioni,
perché è indispensabile un’opzione fondamentale ben più profonda, che
chiama in causa la vita stessa di ogni persona, in quanto
strutturalmente legata al sistema sociale che si vorrebbe cambiare.
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