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Ogni evento della storia è
equivoco; solo l’èschaton toglierà l’equivocità dando la
pienezza. Così anche la fioritura dell’esperienza religiosa attuale è
carica di ricchezza e di equivoci.
E’ innegabile la presenza della dinamica dello Spirito santo nella
Chiesa, anche in occorrenza alla valorizzazione del carisma operata dal
Vaticano II. In questa direzione la nascita di formule altre dal passato
si imposta come lievitazione puntuale di una ricchezza tradizionale, che
con gratitudine si riceve come dono, ma anche come virtualità da
realizzare, nel concreto possibile e necessario, in una attualizzazione
che per se stessa è anche “oltraggio”, non solo oltrepassamento ma anche
trasformazione. Si tratta di attuare una verifica e la verifica avviene
sempre attraverso la veracità della verità, sempre attuando le
differenze che diventano necessarie differenze (citiamo la celebre
formula di J. Derrida per dire che la storia – sempre parziale perché
sempre opera in corso – comporta sempre dentro un inevitabile
differimento, un percorso che mai raggiunge il compimento e che,
attuandosi, differenzia il patrimonio ricevuto).
Queste parole assai contratte – e ne chiedo scusa – contengono una
descrizione sintetica, la quale porta dentro di sé l’apprezzamento per
le nuove proposte di cammino spirituale della vita consacrata (ma già
questo termine, nonostante le sterzate venute dal tentativo di
ricentraggio semplificatore, maldestro perché i problemi esistenti non
si affrontano mediante formule riduttive, è periclitante in forza di
alcuni capisaldi del Vaticano II, massimo fra i quali la chiamata di
tutti alla santità, insieme alla coscienza della forma consacrante del
sacramento del matrimonio e la pertinenza di ogni condizione cristiana
alla dignità radicale che è quella del battesimo, il fulcro misterico su
cui si articola in tutte le vie cristiane, nessuna delle quali può
pretendere di essere un “ di più” e questo resta vero, nonostante la
patetica ripetizione di questo termine nel sinodo sulla vita consacrata,
un segno di impossibile superamento di un disagio teologico che nessun
ritorno semplificatore può adeguatamente risolvere).
Ma proprio la vivacità carismatica rende necessaria la contessitura ai
valori gerarchici, intesi qui non sul piano dell’autorità ma su quello
dell’architettura, che corrisponde all’organicità del corpo mistico e
della ricapitolazione cristica dell’universo. Più specificamente,
corrisponde alla necessaria coordinazione fra puntualità e tradizione,
fra soggettività e oggettività: parlare di tradizione e di puntualità
significa assumere la storia che ci ha assunto e precisamente non il
rapporto con un numen generico e gassoso, ma con alcuni nomi ben
indicativi e identificanti: Gesù Cristo, Chiesa, Tradizione (intesa come
consegna dell’esperienza spirituale: «Cristo volle chiamarsi verità e
non consuetudine», ammonisce una voce patristica).
Storia, tradizione e identità
Certamente la trasformazione della vita spirituale porta con sé
l’attuazione di un compito non facile ma necessario, che riguarda
proprio l’identità. Oggi, in una condizione di debolismo che può essere
forma di scetticismo, ma può anche essere forma di quella coscienza
cristiana che nessun “enuntiabile” (stiamo citando, di s.
Tommaso, la Summa theologiae, II-II, 1, 3 ad 2), dunque una
formula ipotetica anche se realizzata, è il termine dell’atto credente,
che invece è sempre la “cosa” divina che quelle formule che sono cifra e
rimando, non definizione e conclusione, perché portano in sé, secondo
quel canone cristico essenziale per il quale la epifania della
rivelazione avviene sempre attraverso la kenosi, lo svuotamento
dell’infinito nei termini della nostra finitudine, l’“abbreviazione”
dell’eterno nella storia; così l’amore salvifico dell’assoluto e santo
Dio si fa dissoluto attraverso la ad-con-di-scendenza che volendo
rispettare l’uomo, si fa illuminazione e non lampo accecante.
Per questo il credente sente molto consona a sé l’esclusione della
identificazione (che cosa può mai essere “de-finito” cioè confinato se
non provvisoriamente e strumentalmente? che cosa può raggiungere la sua
conclusione?), ma non semplifica, come invece spesso avviene sia nella
cultura laica – che esclude non solo la identificazione ma anche
l’identità – sia nella cultura ecclesiastica, che invece sovrappone
identità e identificazione. Certo nella coscienza della fede l’identità
non è mai statica, ma si esprime nella dinamica del corso fra l’alfa,
il principio, e l’omega, il termine. C’è una identità dinamica
che nasce da una esistenza che ha una radice e un progetto (l’uomo nella
visione della fede vive il dono della progettualità – si potrebbe dire
“proiezione” se la parola non fosse ambigua – e non l’abbandono della
deiezione).
In questi termini vive anche il processo della vita consacrata, che non
è un possesso definito e concluso, ma una via come epèktasis,
estensione e intensione, verso l’adempimento di quanto per grazia è
stato operato in noi e che viene attualizzato dalla libertà che accoglie
grata il dono della grazia, come suo adempimento (Fil 3,13-14).
In questi termini complessificanti, ma anche vivi, sta ogni percorso
cristiano, anche quello della “vita consacrata” e in modo particolare di
quella monastica.
Con questo è evidente che il processo della vita spirituale e della sua
esperienza avviene attraverso la contessitura della soggettività e della
oggettività, dell’eros desiderante umano e del “dato” della grazia di
Dio.
Valore del soggetto e patologie
soggettivistiche
E’ innegabile il valore del soggetto, secondo la verità (profetica ed
evangelica) del singolo, che è una entità ben diversa da quella
dell’individuo. E’ vanto e compito della tradizione cristiana aver
accentuato l’assolutezza del singolo (l’antropologia cristiana non è
conciliabile con la metempsicosi, anche se il “purgatorio” ricorda che
la vita di fede non ha fine con la morte, specie se si prende la grande
intuizione teologica e spirituale di s. Caterina da Genova). Possiamo
davvero dire che Dio ha voluto avvicinare a sé le creature, ponendo
accanto al proprio assoluto l’assoluto della libertà umana (intesa non
come libero arbitrio – questo è il senso filosofico – ma come la
agostiniana dialettica fra “libertas minor”, quella che agisce
nella storia, e“libertas maior”, quella che avremo nella patria,
oppure – secondo la prospettiva aperta da J.B. Metz – come “potenza
della totalità”): il progetto di Dio è quello di due assoluti, la
propria volontà e la libertà umana, che fanno l’amore e questo la Chiesa
antica l’ha ben inteso (“liberum arbitrium gratia liberatum”,
dice con tono agostiniano il Carisiaco dell’853, prima che l’antropocentrismo
molinista – così è definito e giustamente da Maritain – non aprisse quel
processo aporetico e nevrotizzante – va ricordata la giusta e
significativa opposizione di s. Francesco di Sales – della “quaestio
de auxiliis”). E’ merito della linea francescana aver accentuato la
unicità irripetibile del singolo: il beato Giovanni Duns Scoto ha questo
merito ben prima della valorizzazione moderna, che annovera fra i suoi
antenati Guglielmo di Ockham, che continua la strada scotiana. Questo
corrisponde alla verità evangelica che manifesta la preoccupazione del
Padre, la fonte, che nessuno vada perduto (Mt 18,14; Gv 6,37-40).
Ma questo valore ha sempre la possibilità di voltarsi in individualismo
e difatti la soggettività ha subìto una deriva (all’interno di ciò che
C. Taylor ha chiamato “Il disagio della modernità” ) verso il
soggettivismo, la forma deleteria e patologica della soggettività che –
proprio mentre si accentua la validità del soggetto e se ne aumentano le
attese – porta con sé una riduttiva forma di globalizzazione e
omogenizzazione, insieme a molti fenomeni di mancato rispetto delle
singolarità.
Per questo, l’attuale senso della soggettività ha componenti patologiche
che vanno analizzate. Esse possono essere colte come in due linee
esternamente divergenti, ma derivanti dalla medesima struttura equivoca
di valore e di patologia, che abbiamo brevemente indicato.
a) La prima linea è data, appunto, dall’accentuazione della soggettività
in soggettivismo. Questa tendenza corrisponde al tentativo di realizzare
un recupero e una compensazione della non ricevuta valorizzazione della
propria singolarità. E’ a questa tendenza che possiamo far risalire
altri fenomeni come ad essa concomitanti, fra i quali l’attenuazione del
senso della relazionalità – “essere-per- l’altro” – con la
trasformazione del rapporto con l’altro basato solo sulla condizione che
l’altro sia fonte di esperienze gradevoli ( e qui viene la lezione de
La società individualizzata di Z. Bauman) e la ricerca dell’
immediato come realizzazione della soddisfazione; ad essa è collegata e
conseguente l’attenuazione del futuro (qui invece resta significativa
l’amara lezione di Grammatica della creazione di G. Steiner,
recentemente commentato da E. Scalfari su La Repubblica).
b) L’altra linea, all’opposto, porta la richiesta di autorità che nella
complessità delle scelte semplifica-riduce-falsifica la libertà con la
imposizione, desiderata e chiesta, di una volontà decisionale che
dinanzi alla complessità delle vita (non dimentichiamo il criterio della
complessificazione che giustamente Teilhard lega all’evoluzione) esclude
l’imbarazzo della scelta e la fatica della responsabilità. In questa
maniera si omologano le libertà, trasformando il carisma in culto della
personalità e la comunità in aggregazione omogeneizzante. Qui si apre un
appuntamento di discernimemto che coglie nelle strutture delle comunità
moderne – che spesso sembrano così vive, ma se si guarda bene nascono
sul modello della fusione e non su quello della relazione e
comunicazione, che invece è il modello radicale trinitario, nel quale lo
stesso Dio non è un medesimo Dio – una formula di unificazione ben
diversa dall’unità, l’impero determinante di un percorso oggettivo che
non rispetta i passi, le possibilità, le povertà e le ricchezze dei
singoli. Spesso non si vive la fatica della maturazione ma si opera
l’imposizione (per esempio attraverso il ricatto della colpevolizzazione,
una patologia indotta dalla volontà di potenza che ragiona in termini di
efficienza e non di verità e ben diversa dal Vangelo, che mai semina
rimorso, ma sempre apre alla metànoia e ne chiede il coraggio).
Da qui il successo (quanto portatore di virus spirituali?) dei
movimenti, che ormai però hanno perduto mordente, perché i fenomeni
falsamente risolutori, perché compensativi, fanno presto a mostrare il
limite e difatti in questa prospettiva di volontà di forma (io sono il
soggetto e l’altro è l’oggetto) e di volontà di potenza (il potere
dell’anziano, del catechista, del capo della comunità) non possono
reggere, a fronte delle necessità strutturali e divine del-l’”uomo
eterno” (G.K. Chesterton).
Lo stesso favore strumentale dato da una gerarchia presa da alcune
efficienze (specie per i successi sul piano delle vocazioni
presbiterali, le cui forme entusiastiche non passano sotto la verifica,
perché – si danno casi concreti – successivamente l’impegno preso con la
comunità impedisce la libertà di uscire e quindi la libertà del sì
confermante; da qui si vede l’impatto negativo della comunità che se non
aiuta nella libertà esprime una forma patologica). Ma quanto a questo,
la gerarchia manifesta la propria disperazione, perché – ancorata al
criterio del potere – capisce l’efficienza ma non riesce ad avere la
pazienza dell’efficacia evangelica che cammina per tempi lunghi, che
convocano le libertà e sostengono la maturazione.
In tutto questo si può verificare un’area del fenomeno generale, che si
esprime nella ricerca di una “liberazione dalla vita” (qui vanno citati
il miracolismo e le linee esorcistiche), mentre Gesù nel Vangelo ha
portato l’assunzione della vita e la liberazione della storia.
Nota: Ovviamente questa carrellata è veloce, troppo, e rischia di
essere anch’essa semplificatrice e avrebbe bisogno di riferimenti
bibliografici più ampi di quelli indicati, che restano pertinenti, ma
andrebbero integrati in modo da poter offrire dati utili a che l’odegetica
(la parte della pastorale che illumina la realtà di chi “fa strada”
- “odon-via” + “ago-conduco” - guida e anima la comunità)
sia dotata di luci sufficienti per aiutare chi nella vita pastorale ha
l’incarico di animazione, offrendo un servizio e non esercitando un
dominio (“non siamo padroni della vostra fede; siamo al servizio della
vostra gioia” 2Cor 1,24). Ma l’economia di questo scritto vuole essere
solo un tratteggio sommario e bisognoso di completamento; è solo una
sollecitazione ad una analisi intus-legente della situazione.
Necessità di una analisi intus-legente
La prudenza non è la furbizia ma l’intus-legentia di base del
reale, per coglierne la verità che porta.
Proprio la prima delle virtù-cardine può tener conto del quadro
indicato, perché è necessario fare discernimento fra la vitalità
carismatica e il festival del soggettivismo che attualmente anche in
campo religioso è frequente.
Con questa premessa-tesi cerchiamo di fare una lettura dentro l’attuale
situazione della vita consacrata, certamente in fermento insieme al
moltiplicarsi di sigle e comunità all’interno del cammino ecclesiastico,
che non è mai stato di tanti colori come oggi. Questo fenomeno deve
porre domande sulla sua autenticità, perché la vita spirituale non è
indenne dalle contingenze del tempo in cui vive (anzi le deve assumere,
come forma di incarnazione, ma anche di redenzione e trasfigurazione) e
quindi il moltiplicarsi di tante comunità e di tante esperienze
religiose, specialmente monastiche, corrisponde da una parte a una
fioritura spirituale, positiva e puntuale, ma anche, inevitabilmente,
può essere interpretata come una versione dell’attuale soggettivismo.
Diverse altre volte, con persone e amici che appartengono a gruppi,
movimenti, comunità ho chiesto di dare forza ai valori che vi sono
presenti, ma anche di superare difetti a volte vistosi, che vengono
dalle formalità costrittive e regolative (se si riprendesse il senso
ironico e propositivo che s. Benedetto ha dato alla sua Regola?) con cui
movimenti e comunità si impostano e che non sono essenziali alla loro
verità ed essenza.
Fare approccio alle carenze e questo non vuole affatto assolutizzarle né
tanto meno ridursi a una sottolineatura dei difetti, ma solo constatare
forme di patologia che inficiano tratti positivi di storia spirituale.
Nota: E’ necessario avere qualche ironia sull’insistenza attuale
sul discernimento, perché a volte nasce dall’impossibilità di riuscire a
patire le insicurezze della vita nella certezza della fede e può anche
appartenere a quella svalorizzazione del futuro e del congiuntivo (il
modo della possibilità, della virtualità, dell’ottativo) a favore di un
presente che esprime il consolidarsi sull’immediato (che è sempre un
“molto” consistente, a fronte del “tutto” che non ha facili e immediate
consistenze), e quindi può essere il segno di un affievolirsi della
speranza («tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore
della fede... per non lasciarvi abbattere dallo scoramento, alla
lettera: non portiate affaticamento alle vostre anime», dice Ebr
12,2-3). Eppure occorre fare analisi.
Proposta interpretativa di alcuni sintomi
Con questo spirito si può interpretare l’autoritarismo come sintomo
della devianza nella compensazione dell’io.
a) Difatti spesso l’autoritarismo segna le strutture religiose e
monastiche attuali (qui a Firenze, le ultime venute sono la Fraternità
di Gerusalemme e la Famiglia monastica fraternità di Gesù), che, a
volte, sono segnate da un autoritarismo intollerante; si pensi che una
comunità ha imposto processi durati otto ore su fratelli che avevano
presentato dissensi; un’altra ha espulso un fratello che aveva obiettato
al “trattamento” mediante esorcismo, per la contiguità con un esponente
di questa linea “curativa”, di un omosessuale; prima lo ha spedito a
fare una pratica di esercizi spirituali e poi lo ha espulso nemmeno
aspettando il suo ritorno; né va dimenticata l’orribile ingiunzione di
confessarsi all’abate, come succede in qualche altra comunità.
b) Un’altra linea di compensazione può essere colta nei lati
esibizionistici e propagandistici (uniti al rifiuto di collaborare
insieme ad altre comunità: queste devono andare dagli “eletti”, mentre
gli eletti non hanno bisogno di accostarsi o confrontarsi). Questa
esibizione emerge nel continuo voler essere in mostra e nella volontà di
imporsi all’attenzione (magari facendo una grande festa di
inaugurazione, per una presenza che dopo oltre due anni ancora non c’è,
come è avvenuto a Pianosa e dove i vescovi presenti potevano esimersi
almeno di fare “il trenino” sul molo del porto, mentre “i monaci”
schitarravano). Certo è delicata la distinzione fra comunicazione ed
esibizione, ma occorre davvero richiamare all’austerità del silenzio e
al modulo del seme nascosto, proprio dell’efficacia del vangelo, e certo
lontano dall’efficienza dello spot.
c) Forse è da cogliere sotto la medesima luce la ricerca dell’
originalità (come quella comunità monastica che veglia tutta la notte,
perché il suo carisma è la preghiera notturna).
d) A questo comparto può essere congiunta una questione delicata (e
quindi ha bisogno di una trattazione attenta), quella della portata
attiva o pastorale di una comunità monastica. Va detto che la vera
essenza pastorale della vita monastica è la stessa vita dei monaci e dei
monasteri. Questo deve essere il criterio direttivo, anche quando la
fecondità monastica si apre nell’ospitalità, pena la dilapidazione del
tesoro spirituale in forme ostentate, troppo lontane dal carisma
monastico e attinenti ad altri carismi ecclesiali e cristiani (e anche
questo attivismo segnala una linea compensativa e la difficoltà di stare
in silenzio e marginali della posizione monastica, che sempre ha
necessità di una dimensione anacoretica).
e) Un altro elemento patologico si fa talora presente: la preoccupazione
per i soldi, come se l’efficacia cristiana dipendesse dalla potenza
economica e come se fosse obbligatorio fare, anche quando oggettivamente
manca la possibilità (in questo campo si arriva a fragranti assurdi,
come quello di chiedere ai professi di dare alla comunità la quota
spettante dell’eredità familiare. A parte gli inconvenienti del danno, e
qui si entra nel peccato di ingiustizia, che si reca a fratelli e
sorelle nel caso che il patrimonio di famiglia sia stato investito in
modo tale che il disinvestimento produce una perdita, rimane il fatto
che la cosa assume una forma di ricatto tale che diventa impossibile,
almeno per qualcuno è così, uscire, qualora si veda che la comunità
risulti invalida: l’adepto, va chiamato così e non fratello, uscirebbe
come nullatenente e dopo aver dato una ricchezza, talora consistente,
ormai alienata).
f) Altro sintomo di soggettivismo è la incapacità di sostenere la dura
fatica della vita comune, sapendo contingentare la propria posizione con
una pazienza che possa comporre la riconciliazione delle diversità e
perseguire un accordo faticoso, ma possibile, se si ha la sapienza di
porre le difficoltà dell’intesa, lasciando la discussione ed entrando in
una condizione di adorazione davanti a Dio (qui la pratica di Arrupe
nelle congregazioni generali dei Gesuiti sta come un richiamo prezioso)
e affidandosi alla carità dello Spirito santo, con l’ascetica
dell’utilità (1Cor 14) . Una comunità segnata dall’immaturità affettiva
(capacità di aprire e di accettare relazioni) è un brodo di coltura per
microbi di immaturità generale (rimandiamo qui alla preziosa seconda
parte di A onore del cielo, come segno per la terra, di A. Gruen
e C. Sartorius).
Qui sta anche il delicato rapporto dell’innovazione a fronte della
tradizione. Esistono, infatti, comunità che nascono dalla separazione da
un’altra comunità, a sua volta nata dalla separazione da un ordine
tradizionale. E anche la facile innovazione (salvo poi ad appropriarsi
di titoli, come avviene nelle annessioni di cariche e dizioni
benedettine) può nascere dall’incapacità di impostare l’austera crescita
nell’accogliere la tradizione, con la conseguente perdita o attenuazione
della ricchezza che viene dalla consegna dell’esperienza spirituale,
all’interno di un cammino spirituale che ha dietro di sé una storia di
santità e una datità spirituale, che nella sua stabilità mostra la
presenza di una struttura sostanziale e non solo episodica.
g) Non si può inoltre dimenticare che l’autoritarismo può essere il
sintomo di un’altra malattia, quella di autocentrazione, che
contrassegna molti movimenti che attualmente cercano di dare offerta di
spiritualità, separata dall’oggettività della Chiesa e dal quadro
etico-spirituale oggettivo (tipico è la New Age; interessante è leggere
il bestseller di J. Brady, Dio su una Harley, ed. Sonzogno-New
Age: la prima cosa che questo dio, ravveduto dalle sue improvvisazioni
antiche e maturato nell’età moderna (!), elimina, sono i dieci
comandamenti). In ambito religioso l’autoreferenza fatalmente è
inefficace, perché solo il riferimento a Dio è determinante.
Parlare così – con la coscienza di una severità che ha bisogno di
confronto – non vuole aprire una interdizione alla nascita di altre e
diverse linee monastiche, perché Bose e Monte Veglio dicono, pur con i
loro difetti, come ogni congregazione, anche antica, possa essere il
segno di una novità feconda e grande. Ma resta significativo il fatto
che chi le ha fondate è stato segnato da anni di “salatura col fuoco” (Mc
9, 49) che ha maturato nella pazienza – come hypomonè e insieme
makrothymia – la chiamata, fecondata dalla croce. Proprio l’analisi di
queste esperienze valide e feconde mette in evidenza la decantazione del
carisma e della soggettività, all’interno della oggettività ecclesiale e
spirituale.
Alcuni punti di analisi critica generale
Ma le note sopra addotte esprimono un complesso sintomatico, che – pur
facendosi particolare nella vita consacrata – è concomitante alle
patologie del più vasto quadro ecclesiale.
In verità quanto fino a qui abbiamo rilevato ci porterebbe a fare un
bilancio perplesso sugli ultimi 25 anni della Chiesa, perché ogni
fenomeno particolare si inscrive nella storia generale e ne è un
sintomo; difatti ogni analisi sul movimento spirituale, che sopra
abbiamo riportato, potrebbe essere adeguatamente e direttamente
collegata alla situazione generale della Chiesa di oggi. Non facciamo
questa notazione sulle correlazioni dirette, per non appesantire lo
scritto, ma appare assai plausibile dire che nella stagione ultima della
Chiesa si è fatto non poca patologia, proprio sulla struttura
soggettività-soggettivismo che abbiamo preso come un quadro sintomatico
certo non esauriente, ma centrale dell’attuale stagione umana,
spirituale, ecclesiale. Occorre cogliere il profondo per evitare che –
oltre a far diventare “fatali” i propri sintomi – si cerchi di fare cure
sintomatiche invece che affrontamenti seri, puntuali, veraci della
malattia.
In particolare:
- Sembra di poter dire che gli ultimi 25 anni abbiano portato una
situazione che possiamo indicare massivamente, ma anche puntualmente,
come situazione schizofrenica. Sì, nell’apparente omologazione esteriore
(ma già nel ‘91 su Il Regno avevo indicato la realtà di uno
scisma pratico nella Chiesa), il fatto di aver puntato su una
impostazione che si articola come ricentraggio all’interno, per avere
forza nell’ecumenismo all’esterno, è un segno di non voluta volontà di
scissione (con una sottile aura di doppiezza e di ipocrisia che
conseguentemente diventa un metamessaggio distruttivo).
- Questa impostazione non solo ha privato la Chiesa di una forza
carismatica e profetica per una accentuazione di conformismo e di
esecutività burocratica, escludendo le voci altre dalla volontà
centralizzante, ma impostando una linea di conformismo-conformazione che
spesso produce più sicofanti che uomini liberi, più amebe spirituali che
cristiani dalla fede responsabile.
- Questo in particolare ha portato alla formazione di un episcopato come
una dirigenza e come una burocrazia (è inutile che Ratzinger si lamenti
dell’esiguità dei vescovi), mentre ogni vescovo è un sacramento dell’”episkopein”,
della “visita di Dio” (Vangelo di Luca). Si è avuta così la frequente
riduzione dell’episcopato a cavalierato (insospettata ma vera prova di
ateismo ecclesiologico; non solo nella macroscopica elezione
all’episcopato del segretario e del cerimoniere pontificio, ma anche
nella frequente pratica romana di esigere l’episcopato come compenso per
aver compiuto qualche servizio – come avere steso materialmente qualche
documento – nella Chiesa). Si è avuta così una mortificante riduzione a
una esecutività senza anima (perché poi “sul campo” si sente che le cose
stanno diversamente; quanti di noi hanno constatato la scissione
presente in molti vescovi che in privato esprimono propensioni veramente
profetiche con idee che poi in pubblico non esprimono?). Si sono
cooptati come vescovi uomini presi prevalentemente dal ceto degli uomini
del sì (vicari generali e rettori di seminario). Certo, va bene anche
essere uomini del sì, ma se si fossero scelti anche “uomini dell’oltre”
? Che cosa ha guadagnato la Chiesa italiana ad escludere uomini di Dio,
di fede e di dottrina come Colombo, Sartori, Dianich, Forte, Ruggieri,
Ardusso, Colzani, Canobbio, Cereti, Manzillo?
- Lo spirito principalmente esecutivo di una Chiesa solo “retro (mentre
è anche “ante”) oculata” e l’equivoco di scambiare l’unità come
uniformità, come se la veste tutta d’un pezzo di Gesù non fosse unita
dai Padri alla veste dei molti colori di Giuseppe.
- Tutto questo ha portato nella Chiesa un tono e un procedimento ben
diversi da una spinta di motivazioni coerenti con le strutture
dell’attuale situazione umana. Difatti ogni epoca non è soltanto spazio
di azione e presenza, ma anche un momento antropogenetico (basterà
ricordare l’assurdo di una riedizione corretta della struttura
penitenziale proposta dalla decisione tridentina – pensata con sapienza
pastorale puntuale in quel tempo – come se non fossero passati
quattrocento anni di continua, diversificante antropogenesi; e gli
esempi sarebbero da moltiplicarsi). E se la proposta cristiana ed
ecclesiale non è di tipo incarnazionale, si finisce o con l’estraneità
(un sale che si mantiene nel freezer e non dà sapienza) o con una
costruzione di Chiesa come microcosmo separato, mentre essa è
“cattolica”, universale sincronicamente e diacronicamente.
- In tal caso la parola diventa gergo, la comunità omologazione, il rito
una comparsata, la struttura una setta (“secta- tagliata da” o “saepta-separata
con un recinto”), tutto fuorché una Chiesa e questo comporta una
sterilità che demotiva, anche se si vive la compensazione di un
integralismo efficiente: è triste che una Chiesa che continua la
missione trinitaria possa trovare l’ autenticazione di sé per via del
rifiuto del “mondo”.
- Da tutto questo viene una specie di latente disperazione odegetica,
di cui si trovano diversi sintomi. Per es. il ricorso continuo alla
testimonianza (c’è mai una riunione ecclesiale che nel pomeriggio non
comprenda “testimonianze”?), che a ben vedere è una malsana forma di
esibizione di forza, che non si rende conto di arrovesciare i termini,
perché succede che il testimone (per es. Madre Teresa) non è valido per
la sua fede in Dio (continuando con madre Teresa è significativo il
fatto che la scoperta del suo tempo di “notte” alla fine della vita sia
stata poi censurata, perché distruggeva l’oleografia strumentale, mentre
invece mostra l’autenticità spirituale) ma è lui a dare plausibilità
alla fede (altro segno è che si possa scrivere un testo di teologia
fondamentale, peraltro pregevole, intitolandolo Un Dio affidabile).
In questa maniera la testimonianza viene a confermare Dio e la fede,
mentre è Dio (e la fede che egli dona) a confermare la nostra debolezza.
E non si dimentichi il metamessaggio che, dal punto di vista della
comunicazione, viene al genere della testimonianza (ne fa fede
l’acutezza della signora Testa, una pubblicitaria raffinata): in pratica
l’uso del testimonial dice che “il prodotto” offerto non ha
alcuna validità in se stesso, infatti è raccomandato dal testimone che
porta la forza della sua fama, che non ha niente a che fare col concreto
essere del prodotto.
- Sarebbe importante fare una analisi analoga di altri comportamenti
della Chiesa, come il progressivo perdere di mordente come agenzia di
moralità e il suo ridursi, segno di disperazione, ad essere agenzia di
servizi sociali; o ad essere una religione civile, come è avvenuto nel
momento della giusta, ma altrimenti motivabile, presa di posizione sulla
pace o quando si riduce le religioni a corpi di fautori della pace e si
riduce il simbolismo religioso al misero vaso con l’ulivo. E poi ci si
oppone ad H. Kung, perché riduce la fede a religione politica!
- Altro punto: non si valuta con sapienza, ma solo con misera
immediatezza l’impatto mediatico, così voluto e perseguito, per esempio
durante il giubileo del 2000 (Sepe, la mente organizzatrice del
giubileo: «quello che non è in televisione, non esiste») e che, certo,
ha avuto per effetto la presenza nel video, ma presenta anche la domanda
consuntiva su quanta presenza nei cuori sia davvero rimasta. E il
metamessaggio (mai considerato nella Chiesa) che nasce da questa
mediatizzazione insipiente (la Chiesa austriaca sapientemente non
presenta la messa domenicale in tv ma solo alla radio) non è la
riduzione dell’esperienza di fede a spectaculum, ad evento da
vedere e non da partecipare? Non ci pesa l’ironia di Dio su questo bell’acquisto,
la bella somma con cui egli è stato valutato (Zc 11,12) ?
Nota: Non si è mai colto abbastanza la miscela tra tomismo e
fenomenologia che struttura la posizione dottrinale dell’ordinario di
filosofia a Cracovia, Karol Woytila, e invece il rilievo (che anni fa ho
proposto in una riunione della redazione de Il Regno, ma credo
con scarso successo) sarebbe utile per poter comprendere la base dalla
quale spesso viene l’ispirazione e la configurazione del Papa. Indico
solo un particolare: la fenomenologia dei vissuti logici (le cose
vengono colte come il manifestarsi originario della realtà nella
coscienza) con la premessa della riduzione eidetica (il giudizio
comune viene sospeso perché il fenomeno emerga nella sua genuina datità
essenziale, ma nella riduzione della coscienza e della esperienza alla
coscienza pura: le esperienze della coscienza individuale vengono
ridotte a essenze universali e necessarie) portano una miscela
assolutizzante, priva delle ironie tommasiane. Non si ritrova qui il
funzionamento della mente di Giovanni Paolo II? (Personalmente ho
incontrato il Papa solo in un seminario, proprio su fenomenologia e
tomismo, all’interno del congresso mondiale di studi tomistici nel 1974;
la cosa per me è stata sintomatica quando successivamente è stato eletto
Papa).
- Così pure andrebbe analizzata la coscienza presente nel ripetere che
siamo “minoranza”; si usa una parola di pura caratura descrittiva,
quantitativa e sociologica, mentre nella Scrittura ( e non è biblicismo,
ma intelligenza sapienziale e dimensione teologica) si usa “diaspora”,
disseminazione. In questa si fa presente quella necessità ecclesiale
della missione che nella prima è assente. Si tratta del grano di senape
che marcisce per diventare nido. Non si prefigura un trionfalismo, ma
solo la necessità dell’autenticità, di una giustizia ecclesiale, per
essere Chiesa secondo il progetto di Dio. E qui sta la vera credibilità
(interessanti le riflessioni – apparse ne Il Regno – su questo
tema nella esperienza del fallimento della Chiesa di Berlino.
- E la validità sostanziale e non di valenza emozionale che è nella
parola “esperienza”, se viene intesa evangelicamente e
antropologicamente? Esiste anche nella Chiesa una forma di analfabetismo
emozionale (prendo la formula da U. Galimberti), che si manifesta nel
consumare le emozioni senza viverle (e goderne).
- Inoltre la foga dell’imminenza efficientistica porta la Chiesa a
eludere la sua struttura – di gloria e di pazienza – escatologica, che
non è alienante, perché la colloca strettamente e perentoriamente nella
storia. Non ci si accorge che l’insistenza sui Novissimi – oltre ad
essere segno di un impoverimento di fede e di teologia – può sostituire
(con il tono di impaurimento, di ricatto e di autorassicurazione) la
portata escatologica della storia: questa impone la “pròlessi”,
l’anticipo come segno povero ma reale della pienezza che sarà data. E
difatti la Chiesa, invece di un respiro di pienezza escatologica, spesso
ha un povero ansimo apocalittico, nel senso deleterio del termine, come
prefigurazione della storia quale processo catastrofico, invece che di
consolazione e di speranza (questo il segreto dell’apocalittica biblica,
che è escatologica) e come atteggiamento di demonizzazione del diverso,
invece di uno sguardo di compassione e di creatività col quale si guarda
al cammino umano, che non è l’agonia di un uomo che muore, ma il
travaglio di un parto, come dicono Gesù e Paolo (Rm 8).
Conclusione
Sono alcune note che indicano parti di un quadro nel quale si pone la
fioritura della vita consacrata e della esperienza monastica. In questo
frutto di Dio emergono venature patologiche, corrispondenti alla
situazione ecclesiale generale.
Da una parte nessuna meraviglia: la finitudine umana si lega sempre al
progetto di Dio, per cui nessuno può pretendere un purismo spirituale o
una forma di perfezione (che avverrà solo nella fase escatologica del
regno). Ma un’attenzione critica è necessaria per quella dimensione
penitenziale che fa parte della struttura essenziale di ogni cammino
cristiano e per la forma di “epektasis”, di
“estensione-intensione” (Fil 3,13-14), che portano la comunità e ogni
persona nella prospettiva e nella storia di Dio. Ci siamo attardati sul
problema della soggettività, perché comunque è centrale: l’io trova vera
realizzazione, se trova conferma e verità nella forza della grazia, che
gli permette di dire la formula divina più che umana e creaturale
Io sono. Da soli noi siamo
carne (e si capisce la tristezza della disperazione del libro citato, di
G. Steiner) e solo nella comunione con l’Io
sono di Dio abbiamo verità
(questo appare chiaramente da Gv 6 e da Gv 17) e per conseguenza
veracità storica.
Come abbiamo detto, qui si è voluto solo offrire alcuni spunti di
riflessione critica, tesa a che la positività del frutto dello Spirito
di Dio, nella Chiesa e nel mondo di oggi, possa vivere in forme il più
possibile autentiche, sia per il bene di chi legge, sia di chi si sente
sempre più stimolato/a ad approfondire la propria fede con scienza e
coscienza.
*Monaco, docente di teologia dogmatica e di teologia
spirituale.
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