n. 7/8
luglio/agosto 2004

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Uno sguardo sulla vita consacrata oggi
di Paolo Giannoni*

 

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Ogni evento della storia è equivoco; solo l’èschaton toglierà l’equivocità dando la pienezza. Così anche la fioritura dell’esperienza religiosa attuale è carica di ricchezza e di equivoci.

E’ innegabile la presenza della dinamica dello Spirito santo nella Chiesa, anche in occorrenza alla valorizzazione del carisma operata dal Vaticano II. In questa direzione la nascita di formule altre dal passato si imposta come lievitazione puntuale di una ricchezza tradizionale, che con gratitudine si riceve come dono, ma anche come virtualità da realizzare, nel concreto possibile e necessario, in una attualizzazione che per se stessa è anche “oltraggio”, non solo oltrepassamento ma anche trasformazione. Si tratta di attuare una verifica e la verifica avviene sempre attraverso la veracità della verità, sempre attuando le differenze che diventano necessarie differenze (citiamo la celebre formula di J. Derrida per dire che la storia – sempre parziale perché sempre opera in corso – comporta sempre dentro un inevitabile differimento, un percorso che mai raggiunge il compimento e che, attuandosi, differenzia il patrimonio ricevuto).

Queste parole assai contratte – e ne chiedo scusa – contengono una descrizione sintetica, la quale porta dentro di sé l’apprezzamento per le nuove proposte di cammino spirituale della vita consacrata (ma già questo termine, nonostante le sterzate venute dal tentativo di ricentraggio semplificatore, maldestro perché i problemi esistenti non si affrontano mediante formule riduttive, è periclitante in forza di alcuni capisaldi del Vaticano II, massimo fra i quali la chiamata di tutti alla santità, insieme alla coscienza della forma consacrante del sacramento del matrimonio e la pertinenza di ogni condizione cristiana alla dignità radicale che è quella del battesimo, il fulcro misterico su cui si articola in tutte le vie cristiane, nessuna delle quali può pretendere di essere un “ di più” e questo resta vero, nonostante la patetica ripetizione di questo termine nel sinodo sulla vita consacrata, un segno di impossibile superamento di un disagio teologico che nessun ritorno semplificatore può adeguatamente risolvere).

Ma proprio la vivacità carismatica rende necessaria la contessitura ai valori gerarchici, intesi qui non sul piano dell’autorità ma su quello dell’architettura, che corrisponde all’organicità del corpo mistico e della ricapitolazione cristica dell’universo. Più specificamente, corrisponde alla necessaria coordinazione fra puntualità e tradizione, fra soggettività e oggettività: parlare di tradizione e di puntualità significa assumere la storia che ci ha assunto e precisamente non il rapporto con un numen generico e gassoso, ma con alcuni nomi ben indicativi e identificanti: Gesù Cristo, Chiesa, Tradizione (intesa come consegna dell’esperienza spirituale: «Cristo volle chiamarsi verità e non consuetudine», ammonisce una voce patristica).

 

 

Storia, tradizione e identità

 

Certamente la trasformazione della vita spirituale porta con sé l’attuazione di un compito non facile ma necessario, che riguarda proprio l’identità. Oggi, in una condizione di debolismo che può essere forma di scetticismo, ma può anche essere forma di quella coscienza cristiana che nessun “enuntiabile” (stiamo citando, di s. Tommaso, la Summa theologiae, II-II, 1, 3 ad 2), dunque una formula ipotetica anche se realizzata, è il termine dell’atto credente, che invece è sempre la “cosa” divina che quelle formule che sono cifra e rimando, non definizione e conclusione, perché portano in sé, secondo quel canone cristico essenziale per il quale la epifania della rivelazione avviene sempre attraverso la kenosi, lo svuotamento dell’infinito nei termini della nostra finitudine, l’“abbreviazione” dell’eterno nella storia; così l’amore salvifico dell’assoluto e santo Dio si fa dissoluto attraverso la ad-con-di-scendenza che volendo rispettare l’uomo, si fa illuminazione e non lampo accecante.

Per questo il credente sente molto consona a sé l’esclusione della identificazione (che cosa può mai essere “de-finito” cioè confinato se non provvisoriamente e strumentalmente? che cosa può raggiungere la sua conclusione?), ma non semplifica, come invece spesso avviene sia nella cultura laica – che esclude non solo la identificazione ma anche l’identità – sia nella cultura ecclesiastica, che invece sovrappone identità e identificazione. Certo nella coscienza della fede l’identità non è mai statica, ma si esprime nella dinamica del corso fra l’alfa, il principio, e l’omega, il termine. C’è una identità dinamica che nasce da una esistenza che ha una radice e un progetto (l’uomo nella visione della fede vive il dono della progettualità – si potrebbe dire “proiezione” se la parola non fosse ambigua – e non l’abbandono della deiezione).

In questi termini vive anche il processo della vita consacrata, che non è un possesso definito e concluso, ma una via come epèktasis, estensione e intensione, verso l’adempimento di quanto per grazia è stato operato in noi e che viene attualizzato dalla libertà che accoglie grata il dono della grazia, come suo adempimento (Fil 3,13-14).

In questi termini complessificanti, ma anche vivi, sta ogni percorso cristiano, anche quello della “vita consacrata” e in modo particolare di quella monastica.

Con questo è evidente che il processo della vita spirituale e della sua esperienza avviene attraverso la contessitura della soggettività e della oggettività, dell’eros desiderante umano e del “dato” della grazia di Dio.

 

 

Valore del soggetto e patologie soggettivistiche

 

E’ innegabile il valore del soggetto, secondo la verità (profetica ed evangelica) del singolo, che è una entità ben diversa da quella dell’individuo. E’ vanto e compito della tradizione cristiana aver accentuato l’assolutezza del singolo (l’antropologia cristiana non è conciliabile con la metempsicosi, anche se il “purgatorio” ricorda che la vita di fede non ha fine con la morte, specie se si prende la grande intuizione teologica e spirituale di s. Caterina da Genova). Possiamo davvero dire che Dio ha voluto avvicinare a sé le creature, ponendo accanto al proprio assoluto l’assoluto della libertà umana (intesa non come libero arbitrio – questo è il senso filosofico – ma come la agostiniana dialettica fra “libertas minor”, quella che agisce nella storia, e“libertas maior”, quella che avremo nella patria, oppure – secondo la prospettiva aperta da J.B. Metz – come “potenza della totalità”): il progetto di Dio è quello di due assoluti, la propria volontà e la libertà umana, che fanno l’amore e questo la Chiesa antica l’ha ben inteso (“liberum arbitrium gratia liberatum”, dice con tono agostiniano il Carisiaco dell’853, prima che l’antropocentrismo molinista – così è definito e giustamente da Maritain – non aprisse quel processo aporetico e nevrotizzante – va ricordata la giusta e significativa opposizione di s. Francesco di Sales – della “quaestio de auxiliis”). E’ merito della linea francescana aver accentuato la unicità irripetibile del singolo: il beato Giovanni Duns Scoto ha questo merito ben prima della valorizzazione moderna, che annovera fra i suoi antenati Guglielmo di Ockham, che continua la strada scotiana. Questo corrisponde alla verità evangelica che manifesta la preoccupazione del Padre, la fonte, che nessuno vada perduto (Mt 18,14; Gv 6,37-40).

Ma questo valore ha sempre la possibilità di voltarsi in individualismo e difatti la soggettività ha subìto una deriva (all’interno di ciò che C. Taylor ha chiamato “Il disagio della modernità” ) verso il soggettivismo, la forma deleteria e patologica della soggettività che – proprio mentre si accentua la validità del soggetto e se ne aumentano le attese porta con sé una riduttiva forma di globalizzazione e omogenizzazione, insieme a molti fenomeni di mancato rispetto delle singolarità.

Per questo, l’attuale senso della soggettività ha componenti patologiche che vanno analizzate. Esse possono essere colte come in due linee esternamente divergenti, ma derivanti dalla medesima struttura equivoca di valore e di patologia, che abbiamo brevemente indicato.

 

a) La prima linea è data, appunto, dall’accentuazione della soggettività in soggettivismo. Questa tendenza corrisponde al tentativo di realizzare un recupero e una compensazione della non ricevuta valorizzazione della propria singolarità. E’ a questa tendenza che possiamo far risalire altri fenomeni come ad essa concomitanti, fra i quali l’attenuazione del senso della relazionalità – “essere-per- l’altro” – con la trasformazione del rapporto con l’altro basato solo sulla condizione che l’altro sia fonte di esperienze gradevoli ( e qui viene la lezione de La società individualizzata di Z. Bauman) e la ricerca dell’ immediato come realizzazione della soddisfazione; ad essa è collegata e conseguente l’attenuazione del futuro (qui invece resta significativa l’amara lezione di Grammatica della creazione di G. Steiner, recentemente commentato da E. Scalfari su La Repubblica).

 

b) L’altra linea, all’opposto, porta la richiesta di autorità che nella complessità delle scelte semplifica-riduce-falsifica la libertà con la imposizione, desiderata e chiesta, di una volontà decisionale che dinanzi alla complessità delle vita (non dimentichiamo il criterio della complessificazione che giustamente Teilhard lega all’evoluzione) esclude l’imbarazzo della scelta e la fatica della responsabilità. In questa maniera si omologano le libertà, trasformando il carisma in culto della personalità e la comunità in aggregazione omogeneizzante. Qui si apre un appuntamento di discernimemto che coglie nelle strutture delle comunità moderne – che spesso sembrano così vive, ma se si guarda bene nascono sul modello della fusione e non su quello della relazione e comunicazione, che invece è il modello radicale trinitario, nel quale lo stesso Dio non è un medesimo Dio – una formula di unificazione ben diversa dall’unità, l’impero determinante di un percorso oggettivo che non rispetta i passi, le possibilità, le povertà e le ricchezze dei singoli. Spesso non si vive la fatica della maturazione ma si opera l’imposizione (per esempio attraverso il ricatto della colpevolizzazione, una patologia indotta dalla volontà di potenza che ragiona in termini di efficienza e non di verità e ben diversa dal Vangelo, che mai semina rimorso, ma sempre apre alla metànoia e ne chiede il coraggio).

Da qui il successo (quanto portatore di virus spirituali?) dei movimenti, che ormai però hanno perduto mordente, perché i fenomeni falsamente risolutori, perché compensativi, fanno presto a mostrare il limite e difatti in questa prospettiva di volontà di forma (io sono il soggetto e l’altro è l’oggetto) e di volontà di potenza (il potere dell’anziano, del catechista, del capo della comunità) non possono reggere, a fronte delle necessità strutturali e divine del-l’”uomo eterno” (G.K. Chesterton).

Lo stesso favore strumentale dato da una gerarchia presa da alcune efficienze (specie per i successi sul piano delle vocazioni presbiterali, le cui forme entusiastiche non passano sotto la verifica, perché – si danno casi concreti – successivamente l’impegno preso con la comunità impedisce la libertà di uscire e quindi la libertà del sì confermante; da qui si vede l’impatto negativo della comunità che se non aiuta nella libertà esprime una forma patologica). Ma quanto a questo, la gerarchia manifesta la propria disperazione, perché – ancorata al criterio del potere – capisce l’efficienza ma non riesce ad avere la pazienza dell’efficacia evangelica che cammina per tempi lunghi, che convocano le libertà e sostengono la maturazione.

In tutto questo si può verificare un’area del fenomeno generale, che si esprime nella ricerca di una “liberazione dalla vita” (qui vanno citati il miracolismo e le linee esorcistiche), mentre Gesù nel Vangelo ha portato l’assunzione della vita e la liberazione della storia.

 

Nota: Ovviamente questa carrellata è veloce, troppo, e rischia di essere anch’essa semplificatrice e avrebbe bisogno di riferimenti bibliografici più ampi di quelli indicati, che restano pertinenti, ma andrebbero integrati in modo da poter offrire dati utili a che l’odegetica (la parte della pastorale che illumina la realtà di chi “fa strada” - “odon-via” + “ago-conduco” - guida e anima la comunità) sia dotata di luci sufficienti per aiutare chi nella vita pastorale ha l’incarico di animazione, offrendo un servizio e non esercitando un dominio (“non siamo padroni della vostra fede; siamo al servizio della vostra gioia” 2Cor 1,24). Ma l’economia di questo scritto vuole essere solo un tratteggio sommario e bisognoso di completamento; è solo una sollecitazione ad una analisi intus-legente della situazione.

 

 

Necessità di una analisi intus-legente

 

La prudenza non è la furbizia ma l’intus-legentia di base del reale, per coglierne la verità che porta.

Proprio la prima delle virtù-cardine può tener conto del quadro indicato, perché è necessario fare discernimento fra la vitalità carismatica e il festival del soggettivismo che attualmente anche in campo religioso è frequente.

Con questa premessa-tesi cerchiamo di fare una lettura dentro l’attuale situazione della vita consacrata, certamente in fermento insieme al moltiplicarsi di sigle e comunità all’interno del cammino ecclesiastico, che non è mai stato di tanti colori come oggi. Questo fenomeno deve porre domande sulla sua autenticità, perché la vita spirituale non è indenne dalle contingenze del tempo in cui vive (anzi le deve assumere, come forma di incarnazione, ma anche di redenzione e trasfigurazione) e quindi il moltiplicarsi di tante comunità e di tante esperienze religiose, specialmente monastiche, corrisponde da una parte a una fioritura spirituale, positiva e puntuale, ma anche, inevitabilmente, può essere interpretata come una versione dell’attuale soggettivismo.

Diverse altre volte, con persone e amici che appartengono a gruppi, movimenti, comunità ho chiesto di dare forza ai valori che vi sono presenti, ma anche di superare difetti a volte vistosi, che vengono dalle formalità costrittive e regolative (se si riprendesse il senso ironico e propositivo che s. Benedetto ha dato alla sua Regola?) con cui movimenti e comunità si impostano e che non sono essenziali alla loro verità ed essenza.

Fare approccio alle carenze e questo non vuole affatto assolutizzarle né tanto meno ridursi a una sottolineatura dei difetti, ma solo constatare forme di patologia che inficiano tratti positivi di storia spirituale.

 

Nota: E’ necessario avere qualche ironia sull’insistenza attuale sul discernimento, perché a volte nasce dall’impossibilità di riuscire a patire le insicurezze della vita nella certezza della fede e può anche appartenere a quella svalorizzazione del futuro e del congiuntivo (il modo della possibilità, della virtualità, dell’ottativo) a favore di un presente che esprime il consolidarsi sull’immediato (che è sempre un “molto” consistente, a fronte del “tutto” che non ha facili e immediate consistenze), e quindi può essere il segno di un affievolirsi della speranza («tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della fede... per non lasciarvi abbattere dallo scoramento, alla lettera: non portiate affaticamento alle vostre anime», dice Ebr 12,2-3). Eppure occorre fare analisi.

 

 

Proposta interpretativa di alcuni sintomi

 

Con questo spirito si può interpretare l’autoritarismo come sintomo della devianza nella compensazione dell’io.

 

a) Difatti spesso l’autoritarismo segna le strutture religiose e monastiche attuali (qui a Firenze, le ultime venute sono la Fraternità di Gerusalemme e la Famiglia monastica fraternità di Gesù), che, a volte, sono segnate da un autoritarismo intollerante; si pensi che una comunità ha imposto processi durati otto ore su fratelli che avevano presentato dissensi; un’altra ha espulso un fratello che aveva obiettato al “trattamento” mediante esorcismo, per la contiguità con un esponente di questa linea “curativa”, di un omosessuale; prima lo ha spedito a fare una pratica di esercizi spirituali e poi lo ha espulso nemmeno aspettando il suo ritorno; né va dimenticata l’orribile ingiunzione di confessarsi all’abate, come succede in qualche altra comunità.

 

b) Un’altra linea di compensazione può essere colta nei lati esibizionistici e propagandistici (uniti al rifiuto di collaborare insieme ad altre comunità: queste devono andare dagli “eletti”, mentre gli eletti non hanno bisogno di accostarsi o confrontarsi). Questa esibizione emerge nel continuo voler essere in mostra e nella volontà di imporsi all’attenzione (magari facendo una grande festa di inaugurazione, per una presenza che dopo oltre due anni ancora non c’è, come è avvenuto a Pianosa e dove i vescovi presenti potevano esimersi almeno di fare “il trenino” sul molo del porto, mentre “i monaci” schitarravano). Certo è delicata la distinzione fra comunicazione ed esibizione, ma occorre davvero richiamare all’austerità del silenzio e al modulo del seme nascosto, proprio dell’efficacia del vangelo, e certo lontano dall’efficienza dello spot.

 

c) Forse è da cogliere sotto la medesima luce la ricerca dell’ originalità (come quella comunità monastica che veglia tutta la notte, perché il suo carisma è la preghiera notturna).

 

d) A questo comparto può essere congiunta una questione delicata (e quindi ha bisogno di una trattazione attenta), quella della portata attiva o pastorale di una comunità monastica. Va detto che la vera essenza pastorale della vita monastica è la stessa vita dei monaci e dei monasteri. Questo deve essere il criterio direttivo, anche quando la fecondità monastica si apre nell’ospitalità, pena la dilapidazione del tesoro spirituale in forme ostentate, troppo lontane dal carisma monastico e attinenti ad altri carismi ecclesiali e cristiani (e anche questo attivismo segnala una linea compensativa e la difficoltà di stare in silenzio e marginali della posizione monastica, che sempre ha necessità di una dimensione anacoretica).

 

e) Un altro elemento patologico si fa talora presente: la preoccupazione per i soldi, come se l’efficacia cristiana dipendesse dalla potenza economica e come se fosse obbligatorio fare, anche quando oggettivamente manca la possibilità (in questo campo si arriva a fragranti assurdi, come quello di chiedere ai professi di dare alla comunità la quota spettante dell’eredità familiare. A parte gli inconvenienti del danno, e qui si entra nel peccato di ingiustizia, che si reca a fratelli e sorelle nel caso che il patrimonio di famiglia sia stato investito in modo tale che il disinvestimento produce una perdita, rimane il fatto che la cosa assume una forma di ricatto tale che diventa impossibile, almeno per qualcuno è così, uscire, qualora si veda che la comunità risulti invalida: l’adepto, va chiamato così e non fratello, uscirebbe come nullatenente e dopo aver dato una ricchezza, talora consistente, ormai alienata).

 

f) Altro sintomo di soggettivismo è la incapacità di sostenere la dura fatica della vita comune, sapendo contingentare la propria posizione con una pazienza che possa comporre la riconciliazione delle diversità e perseguire un accordo faticoso, ma possibile, se si ha la sapienza di porre le difficoltà dell’intesa, lasciando la discussione ed entrando in una condizione di adorazione davanti a Dio (qui la pratica di Arrupe nelle congregazioni generali dei Gesuiti sta come un richiamo prezioso) e affidandosi alla carità dello Spirito santo, con l’ascetica dell’utilità (1Cor 14) . Una comunità segnata dall’immaturità affettiva (capacità di aprire e di accettare relazioni) è un brodo di coltura per microbi di immaturità generale (rimandiamo qui alla preziosa seconda parte di A onore del cielo, come segno per la terra, di A. Gruen e C. Sartorius).

Qui sta anche il delicato rapporto dell’innovazione a fronte della tradizione. Esistono, infatti, comunità che nascono dalla separazione da un’altra comunità, a sua volta nata dalla separazione da un ordine tradizionale. E anche la facile innovazione (salvo poi ad appropriarsi di titoli, come avviene nelle annessioni di cariche e dizioni benedettine) può nascere dall’incapacità di impostare l’austera crescita nell’accogliere la tradizione, con la conseguente perdita o attenuazione della ricchezza che viene dalla consegna dell’esperienza spirituale, all’interno di un cammino spirituale che ha dietro di sé una storia di santità e una datità spirituale, che nella sua stabilità mostra la presenza di una struttura sostanziale e non solo episodica.

 

g) Non si può inoltre dimenticare che l’autoritarismo può essere il sintomo di un’altra malattia, quella di autocentrazione, che contrassegna molti movimenti che attualmente cercano di dare offerta di spiritualità, separata dall’oggettività della Chiesa e dal quadro etico-spirituale oggettivo (tipico è la New Age; interessante è leggere il bestseller di J. Brady, Dio su una Harley, ed. Sonzogno-New Age: la prima cosa che questo dio, ravveduto dalle sue improvvisazioni antiche e maturato nell’età moderna (!), elimina, sono i dieci comandamenti). In ambito religioso l’autoreferenza fatalmente è inefficace, perché solo il riferimento a Dio è determinante.

Parlare così – con la coscienza di una severità che ha bisogno di confronto – non vuole aprire una interdizione alla nascita di altre e diverse linee monastiche, perché Bose e Monte Veglio dicono, pur con i loro difetti, come ogni congregazione, anche antica, possa essere il segno di una novità feconda e grande. Ma resta significativo il fatto che chi le ha fondate è stato segnato da anni di “salatura col fuoco” (Mc 9, 49) che ha maturato nella pazienza – come hypomonè e insieme makrothymia – la chiamata, fecondata dalla croce. Proprio l’analisi di queste esperienze valide e feconde mette in evidenza la decantazione del carisma e della soggettività, all’interno della oggettività ecclesiale e spirituale.

 

 

Alcuni punti di analisi critica generale

 

Ma le note sopra addotte esprimono un complesso sintomatico, che – pur facendosi particolare nella vita consacrata – è concomitante alle patologie del più vasto quadro ecclesiale.

In verità quanto fino a qui abbiamo rilevato ci porterebbe a fare un bilancio perplesso sugli ultimi 25 anni della Chiesa, perché ogni fenomeno particolare si inscrive nella storia generale e ne è un sintomo; difatti ogni analisi sul movimento spirituale, che sopra abbiamo riportato, potrebbe essere adeguatamente e direttamente collegata alla situazione generale della Chiesa di oggi. Non facciamo questa notazione sulle correlazioni dirette, per non appesantire lo scritto, ma appare assai plausibile dire che nella stagione ultima della Chiesa si è fatto non poca patologia, proprio sulla struttura soggettività-soggettivismo che abbiamo preso come un quadro sintomatico certo non esauriente, ma centrale dell’attuale stagione umana, spirituale, ecclesiale. Occorre cogliere il profondo per evitare che – oltre a far diventare “fatali” i propri sintomi – si cerchi di fare cure sintomatiche invece che affrontamenti seri, puntuali, veraci della malattia.

In particolare:

- Sembra di poter dire che gli ultimi 25 anni abbiano portato una situazione che possiamo indicare massivamente, ma anche puntualmente, come situazione schizofrenica. Sì, nell’apparente omologazione esteriore (ma già nel ‘91 su Il Regno avevo indicato la realtà di uno scisma pratico nella Chiesa), il fatto di aver puntato su una impostazione che si articola come ricentraggio all’interno, per avere forza nell’ecumenismo all’esterno, è un segno di non voluta volontà di scissione (con una sottile aura di doppiezza e di ipocrisia che conseguentemente diventa un metamessaggio distruttivo).

 

- Questa impostazione non solo ha privato la Chiesa di una forza carismatica e profetica per una accentuazione di conformismo e di esecutività burocratica, escludendo le voci altre dalla volontà centralizzante, ma impostando una linea di conformismo-conformazione che spesso produce più sicofanti che uomini liberi, più amebe spirituali che cristiani dalla fede responsabile.

 

- Questo in particolare ha portato alla formazione di un episcopato come una dirigenza e come una burocrazia (è inutile che Ratzinger si lamenti dell’esiguità dei vescovi), mentre ogni vescovo è un sacramento dell’”episkopein”, della “visita di Dio” (Vangelo di Luca). Si è avuta così la frequente riduzione dell’episcopato a cavalierato (insospettata ma vera prova di ateismo ecclesiologico; non solo nella macroscopica elezione all’episcopato del segretario e del cerimoniere pontificio, ma anche nella frequente pratica romana di esigere l’episcopato come compenso per aver compiuto qualche servizio – come avere steso materialmente qualche documento – nella Chiesa). Si è avuta così una mortificante riduzione a una esecutività senza anima (perché poi “sul campo” si sente che le cose stanno diversamente; quanti di noi hanno constatato la scissione presente in molti vescovi che in privato esprimono propensioni veramente profetiche con idee che poi in pubblico non esprimono?). Si sono cooptati come vescovi uomini presi prevalentemente dal ceto degli uomini del sì (vicari generali e rettori di seminario). Certo, va bene anche essere uomini del sì, ma se si fossero scelti anche “uomini dell’oltre” ? Che cosa ha guadagnato la Chiesa italiana ad escludere uomini di Dio, di fede e di dottrina come Colombo, Sartori, Dianich, Forte, Ruggieri, Ardusso, Colzani, Canobbio, Cereti, Manzillo?

- Lo spirito principalmente esecutivo di una Chiesa solo “retro (mentre è anche “ante”) oculata” e l’equivoco di scambiare l’unità come uniformità, come se la veste tutta d’un pezzo di Gesù non fosse unita dai Padri alla veste dei molti colori di Giuseppe.

 

- Tutto questo ha portato nella Chiesa un tono e un procedimento ben diversi da una spinta di motivazioni coerenti con le strutture dell’attuale situazione umana. Difatti ogni epoca non è soltanto spazio di azione e presenza, ma anche un momento antropogenetico (basterà ricordare l’assurdo di una riedizione corretta della struttura penitenziale proposta dalla decisione tridentina – pensata con sapienza pastorale puntuale in quel tempo – come se non fossero passati quattrocento anni di continua, diversificante antropogenesi; e gli esempi sarebbero da moltiplicarsi). E se la proposta cristiana ed ecclesiale non è di tipo incarnazionale, si finisce o con l’estraneità (un sale che si mantiene nel freezer e non dà sapienza) o con una costruzione di Chiesa come microcosmo separato, mentre essa è “cattolica”, universale sincronicamente e diacronicamente.

 

- In tal caso la parola diventa gergo, la comunità omologazione, il rito una comparsata, la struttura una setta (“secta- tagliata da” o “saepta-separata con un recinto”), tutto fuorché una Chiesa e questo comporta una sterilità che demotiva, anche se si vive la compensazione di un integralismo efficiente: è triste che una Chiesa che continua la missione trinitaria possa trovare l’ autenticazione di sé per via del rifiuto del “mondo”.

 

- Da tutto questo viene una specie di latente disperazione odegetica, di cui si trovano diversi sintomi. Per es. il ricorso continuo alla testimonianza (c’è mai una riunione ecclesiale che nel pomeriggio non comprenda “testimonianze”?), che a ben vedere è una malsana forma di esibizione di forza, che non si rende conto di arrovesciare i termini, perché succede che il testimone (per es. Madre Teresa) non è valido per la sua fede in Dio (continuando con madre Teresa è significativo il fatto che la scoperta del suo tempo di “notte” alla fine della vita sia stata poi censurata, perché distruggeva l’oleografia strumentale, mentre invece mostra l’autenticità spirituale) ma è lui a dare plausibilità alla fede (altro segno è che si possa scrivere un testo di teologia fondamentale, peraltro pregevole, intitolandolo Un Dio affidabile). In questa maniera la testimonianza viene a confermare Dio e la fede, mentre è Dio (e la fede che egli dona) a confermare la nostra debolezza. E non si dimentichi il metamessaggio che, dal punto di vista della comunicazione, viene al genere della testimonianza (ne fa fede l’acutezza della signora Testa, una pubblicitaria raffinata): in pratica l’uso del testimonial dice che “il prodotto” offerto non ha alcuna validità in se stesso, infatti è raccomandato dal testimone che porta la forza della sua fama, che non ha niente a che fare col concreto essere del prodotto.

 

- Sarebbe importante fare una analisi analoga di altri comportamenti della Chiesa, come il progressivo perdere di mordente come agenzia di moralità e il suo ridursi, segno di disperazione, ad essere agenzia di servizi sociali; o ad essere una religione civile, come è avvenuto nel momento della giusta, ma altrimenti motivabile, presa di posizione sulla pace o quando si riduce le religioni a corpi di fautori della pace e si riduce il simbolismo religioso al misero vaso con l’ulivo. E poi ci si oppone ad H. Kung, perché riduce la fede a religione politica!

 

- Altro punto: non si valuta con sapienza, ma solo con misera immediatezza l’impatto mediatico, così voluto e perseguito, per esempio durante il giubileo del 2000 (Sepe, la mente organizzatrice del giubileo: «quello che non è in televisione, non esiste») e che, certo, ha avuto per effetto la presenza nel video, ma presenta anche la domanda consuntiva su quanta presenza nei cuori sia davvero rimasta. E il metamessaggio (mai considerato nella Chiesa) che nasce da questa mediatizzazione insipiente (la Chiesa austriaca sapientemente non presenta la messa domenicale in tv ma solo alla radio) non è la riduzione dell’esperienza di fede a spectaculum, ad evento da vedere e non da partecipare? Non ci pesa l’ironia di Dio su questo bell’acquisto, la bella somma con cui egli è stato valutato (Zc 11,12) ?

 

Nota: Non si è mai colto abbastanza la miscela tra tomismo e fenomenologia che struttura la posizione dottrinale dell’ordinario di filosofia a Cracovia, Karol Woytila, e invece il rilievo (che anni fa ho proposto in una riunione della redazione de Il Regno, ma credo con scarso successo) sarebbe utile per poter comprendere la base dalla quale spesso viene l’ispirazione e la configurazione del Papa. Indico solo un particolare: la fenomenologia dei vissuti logici (le cose vengono colte come il manifestarsi originario della realtà nella coscienza) con la premessa della riduzione eidetica (il giudizio comune viene sospeso perché il fenomeno emerga nella sua genuina datità essenziale, ma nella riduzione della coscienza e della esperienza alla coscienza pura: le esperienze della coscienza individuale vengono ridotte a essenze universali e necessarie) portano una miscela assolutizzante, priva delle ironie tommasiane. Non si ritrova qui il funzionamento della mente di Giovanni Paolo II? (Personalmente ho incontrato il Papa solo in un seminario, proprio su fenomenologia e tomismo, all’interno del congresso mondiale di studi tomistici nel 1974; la cosa per me è stata sintomatica quando successivamente è stato eletto Papa).

 

- Così pure andrebbe analizzata la coscienza presente nel ripetere che siamo “minoranza”; si usa una parola di pura caratura descrittiva, quantitativa e sociologica, mentre nella Scrittura ( e non è biblicismo, ma intelligenza sapienziale e dimensione teologica) si usa “diaspora”, disseminazione. In questa si fa presente quella necessità ecclesiale della missione che nella prima è assente. Si tratta del grano di senape che marcisce per diventare nido. Non si prefigura un trionfalismo, ma solo la necessità dell’autenticità, di una giustizia ecclesiale, per essere Chiesa secondo il progetto di Dio. E qui sta la vera credibilità (interessanti le riflessioni – apparse ne Il Regno – su questo tema nella esperienza del fallimento della Chiesa di Berlino.

 

- E la validità sostanziale e non di valenza emozionale che è nella parola “esperienza”, se viene intesa evangelicamente e antropologicamente? Esiste anche nella Chiesa una forma di analfabetismo emozionale (prendo la formula da U. Galimberti), che si manifesta nel consumare le emozioni senza viverle (e goderne).

 

- Inoltre la foga dell’imminenza efficientistica porta la Chiesa a eludere la sua struttura – di gloria e di pazienza – escatologica, che non è alienante, perché la colloca strettamente e perentoriamente nella storia. Non ci si accorge che l’insistenza sui Novissimi – oltre ad essere segno di un impoverimento di fede e di teologia – può sostituire (con il tono di impaurimento, di ricatto e di autorassicurazione) la portata escatologica della storia: questa impone la “pròlessi”, l’anticipo come segno povero ma reale della pienezza che sarà data. E difatti la Chiesa, invece di un respiro di pienezza escatologica, spesso ha un povero ansimo apocalittico, nel senso deleterio del termine, come prefigurazione della storia quale processo catastrofico, invece che di consolazione e di speranza (questo il segreto dell’apocalittica biblica, che è escatologica) e come atteggiamento di demonizzazione del diverso, invece di uno sguardo di compassione e di creatività col quale si guarda al cammino umano, che non è l’agonia di un uomo che muore, ma il travaglio di un parto, come dicono Gesù e Paolo (Rm 8).

 

 

Conclusione

 

Sono alcune note che indicano parti di un quadro nel quale si pone la fioritura della vita consacrata e della esperienza monastica. In questo frutto di Dio emergono venature patologiche, corrispondenti alla situazione ecclesiale generale.

Da una parte nessuna meraviglia: la finitudine umana si lega sempre al progetto di Dio, per cui nessuno può pretendere un purismo spirituale o una forma di perfezione (che avverrà solo nella fase escatologica del regno). Ma un’attenzione critica è necessaria per quella dimensione penitenziale che fa parte della struttura essenziale di ogni cammino cristiano e per la forma di “epektasis”, di “estensione-intensione” (Fil 3,13-14), che portano la comunità e ogni persona nella prospettiva e nella storia di Dio. Ci siamo attardati sul problema della soggettività, perché comunque è centrale: l’io trova vera realizzazione, se trova conferma e verità nella forza della grazia, che gli permette di dire la formula divina più che umana e creaturale Io sono. Da soli noi siamo carne (e si capisce la tristezza della disperazione del libro citato, di G. Steiner) e solo nella comunione con l’Io sono di Dio abbiamo verità (questo appare chiaramente da Gv 6 e da Gv 17) e per conseguenza veracità storica.

Come abbiamo detto, qui si è voluto solo offrire alcuni spunti di riflessione critica, tesa a che la positività del frutto dello Spirito di Dio, nella Chiesa e nel mondo di oggi, possa vivere in forme il più possibile autentiche, sia per il bene di chi legge, sia di chi si sente sempre più stimolato/a ad approfondire la propria fede con scienza e coscienza.

 

 

*Monaco, docente di teologia dogmatica e di teologia spirituale. 

 

   

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