Introduzione
La
riflessione biblico-teologica offertaci da Don Paolo Giannoni in
apertura di questa nostra 51a Assemblea, ci ha introdotte in modo
sapienziale nel tema attorno al quale convergeranno, in
questi giorni, l’attenzione, l’interesse, la vita delle nostre
Congregazioni.
Come
vi dicevo nel momento introduttivo, tre sono, a mio avviso, i nuclei
che, in questo tempo, sembrano costituire la “cruna dell’ago” entro cui
dovrà passare la vita religiosa in Italia:
- vivere la Speranza
perché sia visibile e vivibile in un mondo in fuga (cfr. Il vangelo
della speranza per l’Europa, Sinodo dei Vescovi, 21 ottobre 1999);
- scegliere
l’inter-scambio,
come superamento delle nostre chiusure protettive e delle nostre
sicurezze;
- abitare la storia
dell’uomo di oggi, la storia di una umanità “migrante”, come luogo della
Salvezza.
Tre aspetti che, nell’iter
di preparazione all’Assemblea, sono emersi come delle costanti, delle
luci che la vita religiosa può offrire agli appelli che la raggiungono
da ogni parte, quale “segno” della missione profetica che l’attende agli
inizi di questo terzo millennio.
Il fenomeno della
“mobilità etnica”, delle “migrazioni dei popoli” e le problematiche che
ne conseguono relative all’inserimento, all’integrazione, alla
promozione e allo sviluppo hanno trovato e trovano notevole interesse e
attenzione da parte di numerosissime associazioni e organismi umanitari,
rivolti a soddisfare i bisogni primari delle persone immigrate
(rifugiati, profughi, immigrati, clandestini, residenti provenienti da
altri Paesi).
Anche noi religiose
siamo presenti su questo fronte e nello stesso tempo avvertiamo
l’urgenza di dover essere maggiormente attente alla persona, alla sua
dignità, ai suoi bisogni primari non solo fisici, ma spirituali, per non
dimenticare che ogni persona e tutto il creato sono immersi nel
progetto d’Amore di Dio Padre per l’umanità.
Non è la prima volta
che affrontiamo il tema della mobilità, del cambiamento, come
esito della globalizzazione.
Già la 46a
Assemblea dell’USMI, la prima del precedente quinquennio, metteva a
fuoco lo stesso problema, anche se sotto angolature diverse:
«La vita religiosa
verso un’epoca nuova - “morire e rinascere dall’alto”»;
«Quali le sfide sociali
e spirituali che il mondo in mutamento pone alle donne e alle religiose
in particolare?»
È lecito domandarci
allora: ripetizione o ampliamento di lettura e di risposte?
Rileggendo le due
relazioni di fondo dell’Assemblea sopra citata, appare con chiarezza che
si trattava di aprire allora un percorso comune di riflessione e di
scambio sulla problematica del cambiamento all’interno e all’esterno
delle Congregazioni, per intraprendere un cammino verso nuove
solidarietà.
Nel quinquennio
precedente abbiamo percorso un tratto di strada di cui ho dato relazione
lo scorso anno, nell’Assemblea di fine mandato.
Ora si apre una seconda
tappa che mette a fuoco un’ulteriore prospettiva: ogni solidarietà
richiede un’anima, chiede di rendere visibile la speranza che dà senso a
tutto.
«Chiamate e mandate ad
annunciare, celebrare e servire il Vangelo della speranza»: è la
consegna dei Vescovi ai cristiani d’Europa, una consegna che come
religiose desideriamo fare nostra, in questo momento di forte
insicurezza e instabilità per tantissimi fratelli e sorelle.
Siamo di fronte alla
mobilità di massa; esito del fenomeno della mondializzazione e
globalizzazione, accelerato dalla rapidità dell’universo della
comunicazione tecnica, telematica, mediatica.
Una mobilità che per un
gran numero di persone è una “dura necessità”, imposta dal dover
cercare, al di fuori del proprio Paese minato dalle calamità e dalla
guerra, un po’ di pace, di sicurezza e stabilità di vita.
Di fronte a queste
problematiche siamo sollecitate a recuperare una nuova coscienza
ecclesiale-comunitaria che ci rimanda alla verità costitutiva della
persona e della sua dignità di figlia di Dio, ovunque e comunque, amata
e salvata in Cristo Gesù.
Aperte all’interscambio
nelle e tra le Congregazioni.
È una sfida che si
impone anche per la situazione che stiamo vivendo: riduzione e scarsità
di personale religioso che rende sempre più difficile e talvolta
inattuabile il ricambio. Immerse nel flusso vorticoso
dell’invecchiamento e del cambiamento, che riflette la condizione più
generale del nostro Paese e dell’Europa, ci sentiamo spinte a cercare
insieme e a indicare le effettive possibilità di“inter-scambio” a
cui siamo chiamate.
Intraprendiamo il nuovo
cammino sollecitate anche dalle espressioni di Giovanni Paolo II,
nell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa:
«La Chiesa è
consapevole dell’apporto specifico della donna nel servire il Vangelo
della speranza. Le vicende della comunità cristiana attestano come le
donne abbiano un posto di rilievo nella testimonianza del Vangelo.
«Va ricordato quanto
esse hanno fatto, spesso nel silenzio e nel nascondimento,
nell’accogliere e nel trasmettere il dono di Dio, sia attraverso la
maternità fisica e spirituale, l’opera educativa, la catechesi, la
realizzazione di grandi opere di carità, sia attraverso la vita di
preghiera e di contemplazione, le esperienze mistiche e la redazione di
scritti ricchi di sapienza evangelica» (n. 42).
1.
La vita religiosa in Italia nel flusso del cambiamento
Uno sguardo all’Italia
“Paese di immigrazione in un mondo di migranti”.
Un panorama completo
del fenomeno in oggetto è stato presentato recentemente dalla
Caritas-Migrantes, attraverso il Dossier statistico immigrazione
2003: “Italia Paese di immigrazione” - XIII Rapporto
sull’immigrazione.
Riprenderò in questo
contesto alcune dichiarazioni che ci aiutano a cogliere aspetti
particolari, utili per meglio comprendere la situazione in cui ci
troviamo.
Affermare che l’Italia
è un Paese di immigrazione in un mondo di migranti può sembrare una
banalità e, invece, costituisce in gran parte una consapevolezza da
acquisire.
Non può continuare a
valere la scusa che siamo un Paese di recente esperienza in questo
campo, tenuto conto che i flussi di immigrazione, come fenomeno di
massa, iniziati negli anni ’70, hanno cominciato ad essere palesi dai
primi anni ’80: trent’anni di tempo per riflettere, secondo i ritmi
serrati del mondo di oggi, sono tanti.
Inoltre non si tratta
più di un fenomeno di emergenza, quanto piuttosto di una dimensione
strutturale della nostra società; ciò comporta da parte dei politici,
degli amministratori e degli operatori sociali una concezione più
approfondita e lungimirante, l’unica che consente di affrontare un tema
già di per sé complesso.
Il Dossier
Statistico Immigrazione 2003, realizzato in collaborazione con
prestigiose strutture internazionali, nazionali e territoriali e
attraverso l’utilizzo di archivi disponibili, pone di fronte ad
un’analisi rigorosa della diversa configurazione dell’immigrazione.
Attraverso il
Dossier possiamo conoscere:
-
il contesto europeo e
internazionale
-
gli stranieri
soggiornanti in Italia
-
l’inserimento
socio-culturale
-
il mondo del lavoro
-
i contesti regionali
-
l’inserto speciale
dedicato ai rifugiati.
È indispensabile che
queste conoscenze vengano immesse nel circuito della sensibilizzazione,
perché “l’immagine degli immigrati in Italia” possa essere percepita
nella sua concreta dimensione e liberata da pregiudizi.
Alcuni numeri
significativi, utili per orientare la nostra conoscenza e anche il
nostro servizio
Circa
la presenza straniera in Italia, la nazionalità più numerosa rimane
ancora quella marocchina (172.834 soggiornanti, pari all’11,4%
sul totale), che precede di poco quella albanese (11,2%), il cui
esodo più consistente pare si sia ormai verificato. Al terzo posto c’è
il gruppo rumeno (95.834), seguito dai filippini (65.257)
e dai cinesi (62.314).
I motivi di ingresso:
lavoro e ricongiungimento familiare.
Alcuni problemi
emergenti: i
figli di immigrati a scuola; il diritto alla salute per tutti;
l’appartenenza religiosa: una fede da vivere per e non contro gli altri;
incentivare le vie della legalità.
Alcune proposte
Caritas (in 10 punti) per realizzare un progetto di convivenza: «Non vi
può essere una via alternativa a quella che riconosce agli immigrati
pari dignità nei doveri e nei diritti e offre loro possibilità concrete
per vivere attivamente l’avventura societaria e spirituale nel nostro
Paese e nell’Unione Europea».
Mobilità etnica o immigrazione?
La mobilità etnica e il
fenomeno immigratorio sono la conseguenza più chiara di un cambiamento
d’epoca che sta assumendo dimensioni sempre più ampie, espandendosi
anche nei più anonimi angoli del pianeta. In questa prospettiva, parlare
di immigrazione, oggi, è usare un’espressione che risuona sempre
più inadeguata di fronte a un fenomeno che si caratterizza piuttosto
come circolazione mondiale delle persone.
Le ragioni che fondano
questo rovesciamento di prospettiva sono evidenti: si calcola che almeno
200 milioni di persone l’anno circolino per il mondo, alla
ricerca di uno spazio più tranquillo, stabile, sicuro.
Alcuni demografi tra i
più avveduti parlano di un sesto continente destinato ad
espandersi sempre di più nel cuore del terzo millennio. Questo processo
che nei primi cinquant’anni del millennio acquisterà maggiore
dinamicità, passerà alla storia come l’età globale.
Potremmo dire che la
spinta alla circolazione è irreversibile a causa di due
grandi rivoluzioni che stanno avvenendo nel cosiddetto “Terzo
mondo”: il forte crollo della mortalità infantile e la favolosa salita
dell’aspettativa di vita, della qualità della vita e dell’età media
sempre più elevata. (cfr. E.J. Serrano, UCSEI).
Accanto alla
significativa componente del processo migratorio che registra un’elevata
percentuale di giovani, la componente femminile rappresenta quasi la
metà della popolazione migratoria.
Un elemento che potrà,
inoltre, cambiare i parametri di lettura è il fenomeno migratorio
all’interno dei Paesi europei, in una Europa unita, sempre più
allargata.
Anche in questo
contesto rimane da affrontare in modo serio il rapporto-confronto
culturale e spirituale tra l’est e l’ovest, tra Oriente ed Occidente,
considerati come “i due polmoni” dell’Euro-pa.
Dalla
“tolleranza” alla “convivialità”
Il
contesto pluralistico della nostra società ci obbliga, oggi, a
sviluppare il concetto di tolleranza.
Non è più sufficiente
coabitare con la differenza, dobbiamo piuttosto cooperare con
essa.
I fondamenti
antropologici
che spingono gli uomini a vivere insieme si radicano più su ragioni
positive, che sul fatto di voler evitare le guerre, o altri rischi e
pericoli.
Conoscere e riconoscere
l’apporto di tutte le civiltà al pensiero umano, alla ragione, alla
scienza è il punto di partenza essenziale per ogni educazione
interculturale capace di mettere in rapporto le somiglianze
(appartenenza alla comune famiglia umana) e le differenze (appartenenze
particolari che ci distinguono).
È estremamente
necessario educare al rapporto, sviluppando e sostenendo nella
relazione interpersonale e intercomunitaria la riscoperta dell’alterità
come relazione da costruire e non come barriera da cui difendersi o
fuggire (Levy-Strauss); educare allo spirito critico circa le proprie
identità particolari (religiose, nazionali, etniche) e alla loro
relativizzazione in riferimento all’universale inteso come appartenenza
a spazi più ampi: l’uomo, la sua dignità e i suoi diritti fondamentali (cfr.
L. Principe - direttore CIEMI - Parigi).
Come accettare e
integrare positivamente la realtà plurietnica e pluriculturale delle
diverse società europee?
Quasi la metà degli
immigrati non provenienti dall’Unione europea è musulmana.
Circa 7 milioni di persone, originarie essenzialmente del Maghreb, della
Turchia e del Pakistan. Quasi il 70% di questi vive in tre Paesi:
Germania (turchi), Francia (maghrebini), e Inghilterra (pakistani).
Fra le 30 comunità più
importanti residenti nei 15 Paesi dell’Unione Europea, cinque comunità
(turchi, ex-iugoslavi, italiani, portoghesi e marocchini)
rappresentano più del 40% degli stranieri dell’UE.
L’Europa come società
pluriculturale riconosce che “una società politica integrata” presuppone
sempre l’accettazione:
- di regole comuni di
comunicazione (la/le lingue);
- di un sistema
giuridico comune (il diritto);
- di un costante
impegno educativo all’interculturale.
L’educazione
interculturale riguarda tutti i membri di una società (non solo gli
stranieri); in un contesto di molteplici riferimenti culturali è urgente
ripensare le conoscenze da trasmettere, le capacità da sviluppare e i
valori da promuovere, in modo da poter mettere le identità e
appartenenze (etnia, nazione, religione, lingua, territorio…) in
relazione con la vocazione universale dell’uomo (la ragione, la
libertà di coscienza, i diritti fondamentali).
La
mobilità della vita religiosa femminile all’interno
della mobilità etnica
La profezia della vita
religiosa femminile: essere vicine ad ogni popolo, cultura, religione.
Una vita “radicalmente
donata” a causa del Vangelo è nelle migliori disposizioni e condizioni
per essere e fare da ponte con ogni persona immigrata e con la
comunità civile ed ecclesiale che la ospita.
Come religiose “in
missione per il Regno” (Ripartire da Cristo, n. 9) siamo
chiamate a vivere la mobilità quale espressione e testimonianza di
un amore libero e universale (ogni uomo è mio fratello) e del primato di
Dio nella nostra vita: la nostra sicurezza non è legata a un luogo
scelto personalmente, ma a quello indicatoci dall’obbedienza, che
abbiamo scelto di vivere.
La mobilità vissuta per
Cristo e per il Vangelo
ci fa povere di legami, ci pone nella situazione di non mettere
radici, nella condizione di comprendere più da vicino il nostro fratello
immigrato e di ricordare al mondo che ogni uomo ha una radice più
profonda di quella della propria terra: la radice che è nel cuore di
Dio, nostro Padre e Creatore.
Tale condizione di
mobilità ci rende più dinamiche, aperte e flessibili anche nel servizio.
Credo che tutte abbiamo avuto modo di cogliere come il dover adeguare il
nostro servizio apostolico alle diverse situazioni dell’uomo, situato in
un certo tempo e in un particolare luogo, ci renda più vitali e più
“prossime”.
Nel contesto del
fenomeno immigratorio del nostro Paese gli Istituti religiosi stanno
passando da interventi di prima accoglienza che rispondono alla
condizione di povertà e di insicurezza degli immigrati e che fanno da
stimolo ad altre forze sociali (gruppi di solidarietà, gruppi politici e
amministrazioni pubbliche) a interventi di seconda accoglienza,
cioè di sostegno all’integrazione delle persone (formazione non solo
linguistica, promozione dell’associazionismo, ricongiungimento
familiare, ecc.) e di riabilitazione della dignità della persona.
Solo dove c’è
accoglienza, sollecitudine, solidarietà e giustizia
fioriranno la salute, la dignità, l’amore e la pace.
Questo ci spinge ad
assumere sempre di più l’etica della sollecitudine, della solidarietà,
dell’ascolto e dell’accoglienza delle persone, soprattutto di quelle
apparentemente “inutili”.
Dentro questa trama di
relazioni ogni essere vivente è unico e irripetibile, porta in sé
l’impronta di Dio e il frutto di innumerevoli anni di lavoro creativo
dell’umanità e dell’universo. Continuare a sviluppare questo divenire è
collaborare al compimento della creazione e dare senso alla propria
esistenza in “comunione” con i fratelli (cfr.
A. Marrone).
Professare la speranza:
ossia dire l’uomo, creatura di Dio.
Il fenomeno della
globalizzazione sta producendo, da una parte, una generale omologazione
culturale, dall’altra, reazioni, spesso smisurate, di rifiuto.
Il nostro è un tempo
contraddittorio: mentre la storia ci conduce ad un ripensamento
dell’uomo, da individuo in quanto tale a “essere” in
relazione, aperto all’altro (siamo esseri per gli altri e non solo
per noi), nel mondo si sta operando un annullamento del valore
dell’uomo, dell’identità, della persona e del gruppo: c’è in atto un
processo di disumanizzazione pauroso, che sta impoverendo l’uomo stesso.
Proprio per questo
necessita, oggi, ricordare che il Vangelo è vangelo di speranza. La
speranza cristiana rivela al mondo che Cristo è la vera
risposta di ogni uomo.
Vivere la virtù
teologale
della speranza è orientare il cambiamento verso una meta spirituale, è
dargli un’anima; annunciare che ogni persona è creatura-figlia di Dio e
il suo divenire e il suo compimento si realizzano nel progetto salvifico
del Padre.
La speranza non
può essere identificata con un semplice atteggiamento di ottimismo o di
fiducia nella vita
o con l’attesa di un qualcosa che si realizzerà o ci verrà dato in
futuro: è credere che la risurrezione finale inizia qui, ogni
giorno; collaborare a rendere possibile la risurrezione dentro ad ogni
croce dell’uomo; riconoscere che l’uomo e il creato hanno la loro
origine in Dio e a Lui ritornano.
Professare la
speranza ci aiuta ad esprimere, nel concreto della vita quotidiana,
alcuni atteggiamenti che creano vicinanza, accoglienza, senso di
appartenenza e di famiglia:
- tutti condividiamo la
medesima vicenda umana e abbiamo la stessa dignità pur con doni diversi;
- crediamo che al di là
del colore della pelle, della razza, della cultura, della fede è
possibile incontrare l’altro a partire dalla nostra stessa realtà di
persone umane: tutti siamo figli dello stesso Dio,
pur chiamato con nomi diversi; fratelli tra di noi perché partecipi
della medesima vicenda umana; uguali nella dignità.
Oggi, tuttavia, siamo
testimoni di come questa verità sia sempre più minacciata e come sia
terribilmente minato l’uomo con i suoi valori più profondi: la vita nel
suo nascere, nel suo svilupparsi e morire; l’identità e la dignità della
persona; il senso della corresponsabilità; il rispetto e l’accoglienza
dell’altro, soprattutto del più debole e fragile.
La speranza cristiana
ci aiuta a recuperare il legame di parentela con Dio
e a ricordare
all’uomo di oggi lo sguardo benedicente di un Dio innamorato delle sue
creature: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».
2.
Il ricambio e l’interscambio generazionale nelle Congregazioni religiose
femminili in Italia
“Agire”
o subire il cambiamento.
La sfida che ci attende
oggi, non sta nel chiederci se la vita religiosa attuale avrà futuro o
non lo avrà, sappiamo infatti che essa è nelle mani di Dio, bensì nel
verificare il nostro atteggiamento dinanzi alla realtà di un cambiamento
epocale e nell’interrogarci se abbiamo una fede che ci rende capaci
di vedere i “semina Dei” in questi nostri tempi e accettare
quest’ora come un’ora voluta da Dio per noi.
Quasi tutte le
Congregazioni in Italia e in Europa stanno sperimentando una drammatica
diminuzione del personale e la presenza sempre più elevata di suore
anziane e malate. A ciò si aggiunge la mancanza di vocazioni, resa più
complessa dal timore di un impegno permanente, dalla fatica ad entrare
in dialogo con le giovani che entrano nei nostri Istituti, oltre che da
una visione alquanto depauperata della figura della religiosa.
Questa realtà dolorosa
ha come contraccolpo la chiusura di opere apostoliche e di comunità, con
la conseguenza che le religiose sono sempre meno presenti e la vita
religiosa è meno visibile.
Nel rapporto
intergenerazionale esistono tensioni e nelle Congregazioni
internazionali si sperimentano inoltre difficoltà dovute ai diversi modi
di concepire la vita religiosa nei vari Continenti, da qui l’urgenza di
dialogare su questo argomento.
In questi dieci anni,
in Italia, molte Congregazioni locali, diocesane si sono trovate a fare
i conti con la dimensione dell’internazionalità senza un’adeguata
preparazione; altre si trovano di fronte a una maggioranza di suore
giovani di altri Paesi, senza aver avuto la possibilità di conoscerne a
fondo la cultura e, quindi, avviare un serio interscambio. Ciò è dovuto
in gran parte a motivi di età, di impostazione della formazione e dello
stesso governo di una Congregazione.
Non si può infine
ignorare il fatto che le giovani provenienti dai Paesi dell’Est Europa,
sono facilmente omologate nel cammino formativo alle giovani italiane e
quindi trascurate nella loro specificità culturale e religiosa.
Cambiare stile e
mentalità di fronte a queste problematiche non equivale soltanto ad
accogliere il cambiamento, ma domanda di agirlo, ossia di iniziarsi e di
iniziare ad esso. Dal rito dell’iniziazione apprendiamo che sono i segni
a rendere visibile la realtà che si intuisce e che si intende esprimere
(cfr. UISG, n. 116/2001, p. 101 ss).
Iniziazione al
cambiamento
Il
cambiamento più difficile da operare non riguarda le distanze, la
diversità dei luoghi o delle professioni; non si tratta, in altre
parole, di arrivare geograficamente più lontano, bensì di arrivare più
lontano in umanità, correndo anche il rischio, malgrado i nostri limiti
e la nostra riduzione numerica, di cercare sia pure a tentoni, piste e
azioni concrete che permettano di avviare cammini comuni di presenze
solidali, dando così credito ai valori della comunione e della missione
profetica della vita religiosa.
Quali gesti o scelte
possono avviare nei nostri Istituti l’iniziazione al cambiamento?
Quali percorsi di speranza esigono di essere attivati
comunitariamente?
La comunità è il luogo
in cui si genera la fede nel quotidiano; lo spazio concreto in cui ci si
aiuta e ci si perdona a vicenda; il luogo della comunione che si
costruisce mediante la lenta “guarigione delle ferite” che
talvolta ci provochiamo con le nostre stesse differenze.
A tutte è chiesto di
prepararsi al confronto interculturale, quello vero, alla pari, anzi in
situazione di minoranza.
Urgono percorsi di
dialogo interculturale, che esigono impegno e disponibilità da parte
della vita religiosa, luogo privilegiato per l’integrazione delle
diversità, che può avere ricadute positive anche sull’attuale società
moderna.
Occorre soprattutto
abnegazione interiore, capacità di perdere qualcosa di sé perché si
realizzi il dialogo e cresca la comunione.
In un orizzonte più
ampio, a livello ecclesiale e sociale, dovremmo, inoltre, accogliere
l’idea che il nostro mondo occidentale sta esaurendo “le sue risposte”
che peraltro non hanno sempre generato nel mondo, benessere vero e
positività, ma forti conflittualità e contraddizioni.
Altri popoli:
latino-americani, africani e dell’Estremo Oriente si stanno affacciando
sull’orizzonte internazionale, capaci di offrire al mondo le loro
soluzioni, sicuramente diverse dalle nostre.
L’era occidentale sta
per finire e se ne sta aprendo un’altra: quella dei popoli del Sud del
mondo. Reagire a questo processo bloccandolo, non servirebbe a niente;
occorrerà invece studiarlo, approfondirlo a più voci, capire come
entrare fattivamente e non passivamente in questo nuovo scenario
multietnico ed interreligioso, prepararci ad affrontarlo senza grossi
traumi.
Occorrerà soprattutto
imparare la “grammatica delle relazioni, il codice della comunione”
che non escludono, ma integrano le differenze.
Leggere la nostra
storia con speranza evangelica.
Ogni cambiamento nella
vita religiosa sarà destinato ad essere solo di immagine se non verrà
operato in ascolto dello Spirito. Diversamente potremmo vivere il
compromesso del cambiamento, lasciarci guidare dalle sfide del mondo,
rispondere a queste sfide, vivendo determinati valori riconducibili al
Vangelo, senza il Vangelo. Quasi fosse possibile vivere da uomini nuovi
senza lo Spirito santo, da redenti senza Redentore, da cristiani senza
Cristo.
Il passaggio dalle idee
all’esperienza religiosa, a una dimensione spirituale profonda rimane
certamente difficile e richiede un lungo cammino.
Come insegna
l’esperienza della prima evangelizzazione, due cose sono necessarie
affinché il processo del cambiamento non rimanga un fenomeno isolato e
non si spenga:
- l’esperienza di
Chiesa nel
senso autentico del termine, cioè di una comunità spirituale e cultuale,
ma umana, concreta, quotidiana e la riflessione su tale
esperienza, all’interno delle coordinate della memoria e della
tradizione;
- il bisogno di
elaborare mediante un serio impegno di vita spirituale le proprie
idee religiose, politiche, morali.
Qual è l’idea archetipo
dei nostri valori? Quella del Vangelo? Professiamo questa nostra
convinzione o la lasciamo sottintesa?
Spesso nel mondo
religioso avviene che nell’intraprendere un cammino spirituale siamo
frenate dal timore e dalla paura di dogmatismi, dal timore di far
violenza sulla libertà dell’altro, ecc…; sentimenti che denunciano una
mentalità abituata a ragionare più in termini di concetti e di forme,
che in termini di vita spirituale.
Uno sguardo spirituale
integro esige la dimensione pneumatologica, cioè il riferimento alla
presenza dello Spirito Santo quale punto di partenza per la comprensione
dell’uomo.
Un approccio pastorale
che voglia incontrare tutto l’uomo non può prescindere dall’esperienza
della redenzione dell’uomo peccatore.
Perciò
un’evangelizzazione che voglia aiutare la crescita nella fede deve far
sì che le persone amino Dio più di ogni altra cosa e in Lui amino tutto
ciò che Egli ama, con il Suo stesso amore (cfr. M. J. Rupnik, Alla
mensa di Betania, ed. Lipa, Roma 2004, pp. 22-32).
L’esperienza dell’amore
e del perdono di Dio è fonte di umiltà e di audacia: questa è la nostra
vera forza per il futuro.
Come religiose, siamo
sempre più sollecitate a presentare il “volto femminile di Dio”, a
mobilitarci insieme per la sua giustizia, come donne che sono entrate in
contatto con la propria vulnerabilità e con la misericordia di Dio e
possono meglio capire la fragilità dell’altro.
La vita religiosa porta
in se stessa doni terapeutici che aiutano a guarire l’anima, il corpo,
la solitudine; offre luoghi in cui la persona può riprendersi, ritrovare
se stessa, vivere la speranza.
Formazione della
leadership
negli Istituti: guidare il cambiamento, come esperienza di speranza e
di profezia.
Attraverso alcuni
scambi e l’acquisizione di elementi conoscitivi, mi sembra di cogliere
con una certa evidenza che i religiosi non sono più considerati
semplicemente in funzione del servizio che offrono; in questa
prospettiva, infatti, la vita religiosa non ha nulla di indispensabile
che non possa essere rimpiazzato da altri organismi socio-educativi.
Essa è piuttosto un dono di Dio alla storia di ogni tempo e pensarla con
l’atteggiamento di gratitudine, che si alimenta nei confronti di un
dono, è sorgente di libertà.
Non possiamo tuttavia
ignorare che permangono degli obblighi istituzionali e sociali quali: la
demografia, le opere da gestire o da trasmettere ad altri, il numero
elevato delle nostre sorelle anziane…, obblighi da prendere di petto.
Anche se ciò può essere, a volte, pesante e, per alcuni aspetti,
schiacciante, si tratta di un compito preciso da assolvere, ereditato in
gran parte dalla gestione del periodo che ci ha precedute.
La nostra missione di
responsabili consiste in primo luogo nel coltivare maggiormente la
coerenza tra l’esperienza di ciò che abbiamo gustato del Verbo della
Vita e la capacità di manifestarlo nelle opere. Siamo chiamate a
conservare e a far crescere il patrimonio spirituale dei nostri Istituti
e delle singole suore, ad attendere pazientemente il momento della
raccolta e a custodire i frutti; ad agire e lasciarci agire dallo
Spirito, per consentire che Egli stesso operi attraverso di noi quel
cambiamento che è chiesto a tutti dalla storia.
In questa prospettiva
c’è bisogno di un governo spirituale che assuma con stile
evangelico gli aspetti più significativi del servizio dell’autorità.
Leasdership e governo spirituale
Nate in un’epoca
caratterizzata da uno stile nel quale veniva esercitato il potere di una
persona su altre persone, senza alcuna possibilità di ricorso,
conosciamo che cosa significhi un governo autoritario.
Anche noi, per un certo
periodo, ci eravamo assuefatte a contrapporre autorità e leadership. Non
era raro, infatti, sentir dire: “Una persona può avere un mandato
d’autorità senza avere quello di leadership e viceversa”. In un passato
a noi vicino l’autorità era sinonimo di potere, mentre la leadership era
legata alla sfera dell’influenza, dell’ispirazione.
Se è vero che
l’autorità è chiamata a ricomporre la vita, a favorire la crescita delle
persone, a consolidare le energie interiori, è altrettanto vero che ciò
sarà possibile solo se le nostre comunità sapranno integrare il bisogno
di una autorità esteriore con l’esperienza di una autorità interiore
autentica.
Una leadership è
profetica nella misura in cui esprime una visione di futuro, condivisa e
creativa, carica di speranza. La speranza è una dimensione fondamentale:
significa credere sempre in un futuro capace di cantare le meraviglie
operate da Dio e aperto a possibilità sempre nuove, di coltivare sogni.
Credo che la trappola
che insidia attualmente le/i leaders delle comunità sia quella di
lasciarsi assorbire dalle contingenze quotidiane che radicano alla
terra. Chi non coltiva desideri, difficilmente riesce ad aiutare gli
altri.
Come possiamo aiutare a
sognare se noi stesse non sappiamo sognare?
Un politico di notevole
levatura amava citare questa espressione: “I ragionevoli hanno
resistito. Gli appassionati hanno vissuto”.
Leadership condivisa
Nessuno può essere
leader profetico da solo; un vero leader è “interdipendente”, in
sinergia con altre persone. Personalmente sono fortemente convinta che
il modello da privilegiare, oggi, sia quello della leadership condivisa.
Un’immagine che per
alcuni aspetti ci può aiutare a cogliere il significato di questo
modello è quella della formazione a V degli stormi di uccelli che
migrano.
Fuori di metafora, le
persone che camminano insieme verso la stessa direzione raggiungono più
rapidamente e più facilmente l’obiettivo. I membri di un’équipe che
riescono a sognare insieme qualcosa di grande rendono possibile
l’impossibile e scoprono il gusto della condivisione.
La sfida è sviluppare
una organizzazione che corrisponda a un “noi collettivo”, disponibile a
camminare nella stessa direzione. (cfr. UISG n. 124, 2004, p. 40 e ss).
3. L’interscambio ai
vari livelli:
intercongregazionalità, internazionalità e interculturalità
La sfida
dell’interscambio e dell’interdipendenza se non è
ispirata e coniugata con i criteri evangelici del riconoscimento
dell’altro, della forza della debolezza, della grandezza della
piccolezza, può diventare concorrenza, predominio, scomparsa del
soggetto collettivo più debole, abuso di potere…
La
stessa vita moderna ci spinge all’interdipendenza. Non abbiamo ancora
finito di imparare ad uscire dalla dipendenza e dall’indipendenza e già
la nostra azione futura ci vede inserite nelle reti, nei partenariati.
Operare un passaggio di
qualità significa mettere in gioco in questo cammino di autonomia la
coerenza tra l’efficacia e la spoliazione di sé: una nuova forma di
obbedienza alla quale siamo chiamate ad aprirci.
Due sole parole di
commento al forum sulle tre aree tematiche dell’Assemblea. Esso
ha registrato attenzione alla dimensione dell’intercongregazionalità,
mentre l’aspetto dell’interculturalità e la sfida del dialogo
interreligioso hanno riscosso minore interesse.
Considero, tuttavia,
gli apporti ricevuti e quelli che verranno dai lavori nei gruppi, una
grossa opportunità per offrire, a questa Assemblea delle Superiore
maggiori, delle indicazioni concrete relative ai nuclei evidenziati.
L’intercongregazionalità in
Italia: segni di comunione e di nuova presenza
Le Congregazioni in
Italia hanno
avviato da alcuni anni esperienze di interscambio, a livello di
condivisione dei carismi e di collaborazione in alcune opere e servizi;
hanno inoltre attuato il cambiamento (quasi indotto) della propria
fisionomia: da Istituti locali o nazionali a Istituti internazionali,
per la presenza di giovani provenienti dai Paesi europei, e/o da altri
Paesi.
Dall’osservatorio dell’Usmi,
si coglie che l’interscambio, a cui le Congregazioni sembrano essere
meglio preparate,
riguarda la condivisione a livello di carismi e la costituzione di
comunità intercongregazionali in luoghi di frontiera o in situazioni di
emergenza.
Significative sono, da
questo punto di vista, le richieste rivolte all’Usmi, (circa dieci)
provenienti da piccole Congrega-zioni, le quali domandano di poter
essere messe a contatto con Congregazioni che hanno un carisma affine,
allo scopo di studiare possibilità di federazione o di interscambio
formativo o di unione. Sono state offerte, in proposito, delle
indicazioni; in alcuni casi l’incontro è avvenuto, anche se non si
conosce l’esito del cammino.
Più faticose le
collaborazioni in opere tradizionali: scuole, pensionati; dove la
presenza intercongregazionale è meno significativa, a motivo di funzioni
e compiti equiparati a quelli di qualsiasi altro personale laico.
Più facile invece, per
la flessibilità delle strutture e per le problematiche emergenti, la
compresenza di vari Istituti in opere socio-assistenziali, o di pronto
intervento: servizi di accoglienza, partecipazione e appoggio a
iniziative che denunciano situazioni di ingiustizia, di violazione della
dignità della persona e di ogni diritto umano.
Un’analisi attenta
evidenzia che le religiose in Italia sono approdate alla
intercongregazionalità, sollecitate dalla necessità di continuare la
loro presenza e di offrire un servizio. Non mi risultano esperienze di
intercongregazionalità pensate o cercate come condivisione del comune
carisma della “consacrazione”, il quale permette di creare per le stesse
Congregazioni, ridottissime nel numero, condizioni più vivibili a
livello comunitario, di animazione spirituale e di assistenza sanitaria.
Ci sono, a questo
livello, alcune esperienze in altri Stati dell’Europa occidentale.
La stessa
internazionalità
è per diverse Congregazioni italiane un dato di fatto più che una
scelta. Resta una scelta la decisione di andare in altri Paesi per
l’espansione del carisma, o per rinforzare le nostre fila; ma superato
questo momento, la presenza di sorelle provenienti da altri Paesi, dove
la Congregazione non ha una presenza di lunga data, richiederebbe un
impegno culturale e spirituale notevole, proprio per non creare dei
gruppi paralleli all’interno delle nostre Congregazioni.
La diversità delle
culture è infatti notevole
anche a livello europeo.
Per le Superiore e i
Consigli lo studio delle culture, la conoscenza diretta dei diversi
Paesi è anzitutto un dovere prima che un’esigenza, per poter far sì che
la Congregazione sia arricchita non soltanto nel numero dei suoi membri,
ma soprattutto da quei valori culturali, umani e spirituali che le
sorelle di altre culture portano con loro.
La vita religiosa
femminile in Italia e l’interscambio Est-Ovest Europa
Dai diversi incontri
delle Conferenze delle Superiore maggiori, a livello europeo, ho sempre
riportato un’impressione: che la posizione, la composizione,
l’esperienza della vita religiosa italiana ha certamente qualcosa da
dire, da proporre, da offrire per favorire lo scambio di doni spirituali
tra l’Est e l’Ovest dell’Europa.
Tra le Conferenze,
l’Italia è ancora quella più numerosa, in grado quindi di offrire
risorse materiali e spirituali, di avviare un concreto itinerario di
conoscenza delle culture e della spiritualità a noi più vicine: quelle
del mondo orientale.
Mentre si fa l’unità
dell’Europa a livello economico monetario, credo che le religiose in
Italia debbano cercare il modo non solo di trapiantarsi nell’Est Europa,
ma di avviare dei laboratori di conoscenza e di interscambio per poter
crescere verso una mutua condivisione di ideali e di doni spirituali;
approfittando della circolarità di presenze e di centri che già ci sono
nel nostro Paese.
Giovanni Paolo II,
nella lettera apostolica Orientale lumen (1995), scritta per la
ricorrenza centenaria della Orientalium dignitatis di Leone XIII
(1894), insiste molto sulla necessità di «incontrarsi, conoscersi,
lavorare insieme tra fedeli dell’Est e dell’Ovest».
Anche su questo
versante avverto l’esigenza di pensare insieme qualcosa che ci renda
propositive e apra le nostre comunità alla reciprocità delle ricchezze e
dei doni culturali e spirituali.
Una svolta culturale e
spirituale nella formazione iniziale e permanente delle Congregazioni
Il contesto esterno e
la situazione delle nostre Congregazioni esigono che il linguaggio della
formazione iniziale e permanente non sia più esclusivamente
monoculturale. Non si tratta tanto di una sfida, è piuttosto un grave
problema che se non affrontato inciderà negativamente sul futuro delle
nostre Congregazioni.
Nell’Assemblea dello
scorso anno, l’intervento di p. M.J. Rupnik: «L’Europa, incrocio di
spiritualità e culture: le possibilità per la vita religiosa»,
ci invitava a ripensare alcuni nostri atteggiamenti e ad avere pure
il coraggio di ripensare i contenuti della nostra fede (cfr.
Consacrazione e servizio n. 7/8, 2003, p. 107).
Il ripensamento di
atteggiamenti e di contenuti, che a livello di cuore si chiama
conversione, non può avvenire per pura volontà nostra; l’abitare la
storia di oggi esige di essere aperte alla mobilità interna ed esterna,
alla rielaborazione di quei principi e contenuti che sono state le
nostre certezze e che ora possono rischiare di diventare le nostre
gabbie o chiusure.
I discorsi tra gruppi
di sorelle, i contenuti dei nostri incontri comunitari, lo stile della
preghiera, i ritmi e gli orari comunitari non sono più aspetti che vanno
bene per tutte, ma nello stesso tempo non vanno trascurati.
Alle superiore è
chiesto la difficile e paziente operazione del dialogo, del confronto,
della conoscenza di altre modalità e ritmi, affinché il discernimento
non sia operato solo su criteri validi per le italiane, ma per tutte le
presenti.
I punti di accordo
saranno sempre meno, ma essenziali e fondamentali; aumenteranno le
diversità di prassi e modalità puramente esterne: arredi d’ambiente,
menù, modalità di preghiera, di musica,…
Ospitare e accompagnare
l’accoglienza di queste diversità apparentemente marginali, esige un
cambiamento profondo di visione di apertura e di disponibilità a
“perdere per guadagnare”.
Conclusioni
A conclusione di questa
lettura sulla nostra realtà, preferisco non anticipare nessun
orientamento preferenziale in ordine agli aspetti evidenziati o cammini
concreti, che sicuramente emergeranno dai lavori di questa Assemblea; mi
piace invece rinforzare interiormente la nostra attenzione richiamandoci
all’icona biblica di Rut, la moabita (Rut, 1, 8-19), la quale
potrebbe essere considerata la versione femminile di Abramo, che
sperò contro ogni speranza.
Donna e icona della
speranza teologale per la sua fede e il suo coraggio. Anche lei si
lascia alle spalle il paese da cui proviene, Moab, per seguire Noemi, il
Dio di Noemi: «Il tuo Dio sarà il mio Dio, dove tu andrai, io andrò».
In un atto di amore
gratuito e di abbandono fiducioso, affronta l’ignoto, l’insicurezza e si
apre alla speranza anche quando Noemi, per distoglierla, le dice che non
potrà avere altri figli in grembo per donarglieli.
Inoltre Rut è una
migrante, esce dalla sua terra per recarsi in un paese a lei straniero e
forse ostile. Ma la sua fede e la sua speranza sono più forti.
E’ una straniera in
Israele, povera, tanto povera che per procurare la sopravvivenza per lei
e la suocera, va a spigolare, proprio come facevano i più poveri, ai
quali non è donata nemmeno la dignità del lavoro.
Ma il suo coraggio e la
sua capacità di rischiare, la sua umiltà e, non ultima, la sua bellezza,
la rendono attraente icona della speranza.
La bellezza di Rut
esprime il significato teologico della salvezza, perché è una
vita che si affida alla cura di Dio.
La bellezza è la
cura di Dio per le sue creature: egli le guarda ed esse splendono di
gioia.
Rut sperò contro ogni
speranza e divenne feconda di vita: con lei riparte la storia della
salvezza, che al tempo dei Giudici era bloccata da una grave carestia di
pane, ma anche di profezia e di speranza.
Da lei e da Booz
nascerà l’antenato di Davide; e l’evangelista Matteo la inserisce nella
genealogia di Gesù, il Salvatore.
Sia questa icona,
ispiratrice di nuovo coraggio per un cammino di profezia e di speranza
delle nostre Congregazioni.
 |