n. 7/8
luglio/agosto 2004

 

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Rendere visibile la speranza
in un mondo che cambia
Le religiose tra interscambio generazionale e mobilità etnica
di Teresa Simionato, Presidente Usmi Nazionale

 

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Introduzione

La riflessione biblico-teologica offertaci da Don Paolo Giannoni in apertura di questa nostra 51a Assemblea, ci ha introdotte in modo sapienziale nel tema attorno al quale convergeranno, in questi giorni, l’attenzione, l’interesse, la vita delle nostre Congregazioni.

Come vi dicevo nel momento introduttivo, tre sono, a mio avviso, i nuclei che, in questo tempo, sembrano costituire la “cruna dell’ago” entro cui dovrà passare la vita religiosa in Italia:

- vivere la Speranza perché sia visibile e vivibile in un mondo in fuga (cfr. Il vangelo della speranza per l’Europa, Sinodo dei Vescovi, 21 ottobre 1999);

- scegliere l’inter-scambio, come superamento delle nostre chiusure protettive e delle nostre sicurezze;

- abitare la storia dell’uomo di oggi, la storia di una umanità “migrante”, come luogo della Salvezza.

Tre aspetti che, nell’iter di preparazione all’Assemblea, sono emersi come delle costanti, delle luci che la vita religiosa può offrire agli appelli che la raggiungono da ogni parte, quale “segno” della missione profetica che l’attende agli inizi di questo terzo millennio.

Il fenomeno della “mobilità etnica”, delle “migrazioni dei popoli” e le problematiche che ne conseguono relative all’inserimento, all’integrazione, alla promozione e allo sviluppo hanno trovato e trovano notevole interesse e attenzione da parte di numerosissime associazioni e organismi umanitari, rivolti a soddisfare i bisogni primari delle persone immigrate (rifugiati, profughi, immigrati, clandestini, residenti provenienti da altri Paesi).

Anche noi religiose siamo presenti su questo fronte e nello stesso tempo avvertiamo l’urgenza di dover essere maggiormente attente alla persona, alla sua dignità, ai suoi bisogni primari non solo fisici, ma spirituali, per non dimenticare che ogni persona e tutto il creato sono immersi nel progetto d’Amore di Dio Padre per l’umanità.

Non è la prima volta che affrontiamo il tema della mobilità, del cambiamento, come esito della globalizzazione.

Già la 46a Assemblea dell’USMI, la prima del precedente quinquennio, metteva a fuoco lo stesso problema, anche se sotto angolature diverse:

«La vita religiosa verso un’epoca nuova - “morire e rinascere dall’alto”»;

«Quali le sfide sociali e spirituali che il mondo in mutamento pone alle donne e alle religiose in particolare?»

È lecito domandarci allora: ripetizione o ampliamento di lettura e di risposte?

Rileggendo le due relazioni di fondo dell’Assemblea sopra citata, appare con chiarezza che si trattava di aprire allora un percorso comune di riflessione e di scambio sulla problematica del cambiamento all’interno e all’esterno delle Congregazioni, per intraprendere un cammino verso nuove solidarietà.

Nel quinquennio precedente abbiamo percorso un tratto di strada di cui ho dato relazione lo scorso anno, nell’Assemblea di fine mandato.

Ora si apre una seconda tappa che mette a fuoco un’ulteriore prospettiva: ogni solidarietà richiede un’anima, chiede di rendere visibile la speranza che dà senso a tutto.

 

«Chiamate e mandate ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo della speranza»: è la consegna dei Vescovi ai cristiani d’Europa, una consegna che come religiose desideriamo fare nostra, in questo momento di forte insicurezza e instabilità per tantissimi fratelli e sorelle.

 

Siamo di fronte alla mobilità di massa; esito del fenomeno della mondializzazione e globalizzazione, accelerato dalla rapidità dell’universo della comunicazione tecnica, telematica, mediatica.

Una mobilità che per un gran numero di persone è una “dura necessità”, imposta dal dover cercare, al di fuori del proprio Paese minato dalle calamità e dalla guerra, un po’ di pace, di sicurezza e stabilità di vita.

Di fronte a queste problematiche siamo sollecitate a recuperare una nuova coscienza ecclesiale-comunitaria che ci rimanda alla verità costitutiva della persona e della sua dignità di figlia di Dio, ovunque e comunque, amata e salvata in Cristo Gesù.

 

Aperte all’interscambio nelle e tra le Congregazioni.

È una sfida che si impone anche per la situazione che stiamo vivendo: riduzione e scarsità di personale religioso che rende sempre più difficile e talvolta inattuabile il ricambio. Immerse nel flusso vorticoso dell’invecchiamento e del cambiamento, che riflette la condizione più generale del nostro Paese e dell’Europa, ci sentiamo spinte a cercare insieme e a indicare le effettive possibilità di“inter-scambio” a cui siamo chiamate.

 

Intraprendiamo il nuovo cammino sollecitate anche dalle espressioni di Giovanni Paolo II, nell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa:

«La Chiesa è consapevole dell’apporto specifico della donna nel servire il Vangelo della speranza. Le vicende della comunità cristiana attestano come le donne abbiano un posto di rilievo nella testimonianza del Vangelo.

«Va ricordato quanto esse hanno fatto, spesso nel silenzio e nel nascondimento, nell’accogliere e nel trasmettere il dono di Dio, sia attraverso la maternità fisica e spirituale, l’opera educativa, la catechesi, la realizzazione di grandi opere di carità, sia attraverso la vita di preghiera e di contemplazione, le esperienze mistiche e la redazione di scritti ricchi di sapienza evangelica» (n. 42).

 

 1. La vita religiosa in Italia nel flusso del cambiamento

 Uno sguardo all’Italia “Paese di immigrazione in un mondo di migranti”.

Un panorama completo del fenomeno in oggetto è stato presentato recentemente dalla Caritas-Migrantes, attraverso il Dossier statistico immigrazione 2003: “Italia Paese di immigrazione” - XIII Rapporto sull’immigrazione.

Riprenderò in questo contesto alcune dichiarazioni che ci aiutano a cogliere aspetti particolari, utili per meglio comprendere la situazione in cui ci troviamo.

Affermare che l’Italia è un Paese di immigrazione in un mondo di migranti può sembrare una banalità e, invece, costituisce in gran parte una consapevolezza da acquisire.

Non può continuare a valere la scusa che siamo un Paese di recente esperienza in questo campo, tenuto conto che i flussi di immigrazione, come fenomeno di massa, iniziati negli anni ’70, hanno cominciato ad essere palesi dai primi anni ’80: trent’anni di tempo per riflettere, secondo i ritmi serrati del mondo di oggi, sono tanti.

Inoltre non si tratta più di un fenomeno di emergenza, quanto piuttosto di una dimensione strutturale della nostra società; ciò comporta da parte dei politici, degli amministratori e degli operatori sociali una concezione più approfondita e lungimirante, l’unica che consente di affrontare un tema già di per sé complesso.

Il Dossier Statistico Immigrazione 2003, realizzato in collaborazione con prestigiose strutture internazionali, nazionali e territoriali e attraverso l’utilizzo di archivi disponibili, pone di fronte ad un’analisi rigorosa della diversa configurazione dell’immigrazione.

 

Attraverso il Dossier possiamo conoscere:

  • il contesto europeo e internazionale

  • gli stranieri soggiornanti in Italia

  • l’inserimento socio-culturale

  • il mondo del lavoro

  • i contesti regionali

  • l’inserto speciale dedicato ai rifugiati.

 

È indispensabile che queste conoscenze vengano immesse nel circuito della sensibilizzazione, perché “l’immagine degli immigrati in Italia” possa essere percepita nella sua concreta dimensione e liberata da pregiudizi.

  

Alcuni numeri significativi, utili per orientare la nostra conoscenza e anche il nostro servizio

 Circa la presenza straniera in Italia, la nazionalità più numerosa rimane ancora quella marocchina (172.834 soggiornanti, pari all’11,4% sul totale), che precede di poco quella albanese (11,2%), il cui esodo più consistente pare si sia ormai verificato. Al terzo posto c’è il gruppo rumeno (95.834), seguito dai filippini (65.257) e dai cinesi (62.314).

I motivi di ingresso: lavoro e ricongiungimento familiare.

Alcuni problemi emergenti: i figli di immigrati a scuola; il diritto alla salute per tutti; l’appartenenza religiosa: una fede da vivere per e non contro gli altri; incentivare le vie della legalità.

Alcune proposte Caritas (in 10 punti) per realizzare un progetto di convivenza: «Non vi può essere una via alternativa a quella che riconosce agli immigrati pari dignità nei doveri e nei diritti e offre loro possibilità concrete per vivere attivamente l’avventura societaria e spirituale nel nostro Paese e nell’Unione Europea».

 

Mobilità etnica o immigrazione?

La mobilità etnica e il fenomeno immigratorio sono la conseguenza più chiara di un cambiamento d’epoca che sta assumendo dimensioni sempre più ampie, espandendosi anche nei più anonimi angoli del pianeta. In questa prospettiva, parlare di immigrazione, oggi, è usare un’espressione che risuona sempre più inadeguata di fronte a un fenomeno che si caratterizza piuttosto come circolazione mondiale delle persone.

Le ragioni che fondano questo rovesciamento di prospettiva sono evidenti: si calcola che almeno 200 milioni di persone l’anno circolino per il mondo, alla ricerca di uno spazio più tranquillo, stabile, sicuro.

Alcuni demografi tra i più avveduti parlano di un sesto continente destinato ad espandersi sempre di più nel cuore del terzo millennio. Questo processo che nei primi cinquant’anni del millennio acquisterà maggiore dinamicità, passerà alla storia come l’età globale.

Potremmo dire che la spinta alla circolazione è irreversibile a causa di due grandi rivoluzioni che stanno avvenendo nel cosiddetto “Terzo mondo”: il forte crollo della mortalità infantile e la favolosa salita dell’aspettativa di vita, della qualità della vita e dell’età media sempre più elevata. (cfr. E.J. Serrano, UCSEI).

Accanto alla significativa componente del processo migratorio che registra un’elevata percentuale di giovani, la componente femminile rappresenta quasi la metà della popolazione migratoria.

Un elemento che potrà, inoltre, cambiare i parametri di lettura è il fenomeno migratorio all’interno dei Paesi europei, in una Europa unita, sempre più allargata.

Anche in questo contesto rimane da affrontare in modo serio il rapporto-confronto culturale e spirituale tra l’est e l’ovest, tra Oriente ed Occidente, considerati come “i due polmoni” dell’Euro-pa.

 

 Dalla “tolleranza” alla “convivialità”

 Il contesto pluralistico della nostra società ci obbliga, oggi, a sviluppare il concetto di tolleranza.

Non è più sufficiente coabitare con la differenza, dobbiamo piuttosto cooperare con essa.

I fondamenti antropologici che spingono gli uomini a vivere insieme si radicano più su ragioni positive, che sul fatto di voler evitare le guerre, o altri rischi e pericoli.

Conoscere e riconoscere l’apporto di tutte le civiltà al pensiero umano, alla ragione, alla scienza è il punto di partenza essenziale per ogni educazione interculturale capace di mettere in rapporto le somiglianze (appartenenza alla comune famiglia umana) e le differenze (appartenenze particolari che ci distinguono).

È estremamente necessario educare al rapporto, sviluppando e sostenendo nella relazione interpersonale e intercomunitaria la riscoperta dell’alterità come relazione da costruire e non come barriera da cui difendersi o fuggire (Levy-Strauss); educare allo spirito critico circa le proprie identità particolari (religiose, nazionali, etniche) e alla loro relativizzazione in riferimento all’universale inteso come appartenenza a spazi più ampi: l’uomo, la sua dignità e i suoi diritti fondamentali (cfr. L. Principe - direttore CIEMI - Parigi).

Come accettare e integrare positivamente la realtà plurietnica e pluriculturale delle diverse società europee?

Quasi la metà degli immigrati non provenienti dall’Unione europea è musulmana. Circa 7 milioni di persone, originarie essenzialmente del Maghreb, della Turchia e del Pakistan. Quasi il 70% di questi vive in tre Paesi: Germania (turchi), Francia (maghrebini), e Inghilterra (pakistani).

Fra le 30 comunità più importanti residenti nei 15 Paesi dell’Unione Europea, cinque comunità (turchi, ex-iugoslavi, italiani, portoghesi e marocchini) rappresentano più del 40% degli stranieri dell’UE.

L’Europa come società pluriculturale riconosce che “una società politica integrata” presuppone sempre l’accettazione:

- di regole comuni di comunicazione (la/le lingue);

- di un sistema giuridico comune (il diritto);

- di un costante impegno educativo all’interculturale.

L’educazione interculturale riguarda tutti i membri di una società (non solo gli stranieri); in un contesto di molteplici riferimenti culturali è urgente ripensare le conoscenze da trasmettere, le capacità da sviluppare e i valori da promuovere, in modo da poter mettere le identità e appartenenze (etnia, nazione, religione, lingua, territorio…) in relazione con la vocazione universale dell’uomo (la ragione, la libertà di coscienza, i diritti fondamentali).

 

 La mobilità della vita religiosa femminile all’interno della mobilità etnica

La profezia della vita religiosa femminile: essere vicine ad ogni popolo, cultura, religione.

Una vita “radicalmente donata” a causa del Vangelo è nelle migliori disposizioni e condizioni per essere e fare da ponte con ogni persona immigrata e con la comunità civile ed ecclesiale che la ospita.

Come religiose “in missione per il Regno” (Ripartire da Cristo, n. 9) siamo chiamate a vivere la mobilità quale espressione e testimonianza di un amore libero e universale (ogni uomo è mio fratello) e del primato di Dio nella nostra vita: la nostra sicurezza non è legata a un luogo scelto personalmente, ma a quello indicatoci dall’obbedienza, che abbiamo scelto di vivere.

La mobilità vissuta per Cristo e per il Vangelo ci fa povere di legami, ci pone nella situazione di non mettere radici, nella condizione di comprendere più da vicino il nostro fratello immigrato e di ricordare al mondo che ogni uomo ha una radice più profonda di quella della propria terra: la radice che è nel cuore di Dio, nostro Padre e Creatore.

Tale condizione di mobilità ci rende più dinamiche, aperte e flessibili anche nel servizio. Credo che tutte abbiamo avuto modo di cogliere come il dover adeguare il nostro servizio apostolico alle diverse situazioni dell’uomo, situato in un certo tempo e in un particolare luogo, ci renda più vitali e più “prossime”.

 

Nel contesto del fenomeno immigratorio del nostro Paese gli Istituti religiosi stanno passando da interventi di prima accoglienza che rispondono alla condizione di povertà e di insicurezza degli immigrati e che fanno da stimolo ad altre forze sociali (gruppi di solidarietà, gruppi politici e amministrazioni pubbliche) a interventi di seconda accoglienza, cioè di sostegno all’integrazione delle persone (formazione non solo linguistica, promozione dell’associazionismo, ricongiungimento familiare, ecc.) e di riabilitazione della dignità della persona.

Solo dove c’è accoglienza, sollecitudine, solidarietà e giustizia fioriranno la salute, la dignità, l’amore e la pace.

Questo ci spinge ad assumere sempre di più l’etica della sollecitudine, della solidarietà, dell’ascolto e dell’accoglienza delle persone, soprattutto di quelle apparentemente “inutili”.

Dentro questa trama di relazioni ogni essere vivente è unico e irripetibile, porta in sé l’impronta di Dio e il frutto di innumerevoli anni di lavoro creativo dell’umanità e dell’universo. Continuare a sviluppare questo divenire è collaborare al compimento della creazione e dare senso alla propria esistenza in “comunione” con i fratelli (cfr. A. Marrone).

 

Professare la speranza: ossia dire l’uomo, creatura di Dio. Il fenomeno della globalizzazione sta producendo, da una parte, una generale omologazione culturale, dall’altra, reazioni, spesso smisurate, di rifiuto.

Il nostro è un tempo contraddittorio: mentre la storia ci conduce ad un ripensamento dell’uomo, da individuo in quanto tale a “essere” in relazione, aperto all’altro (siamo esseri per gli altri e non solo per noi), nel mondo si sta operando un annullamento del valore dell’uomo, dell’identità, della persona e del gruppo: c’è in atto un processo di disumanizzazione pauroso, che sta impoverendo l’uomo stesso.

Proprio per questo necessita, oggi, ricordare che il Vangelo è vangelo di speranza. La speranza cristiana rivela al mondo che Cristo è la vera risposta di ogni uomo.

Vivere la virtù teologale della speranza è orientare il cambiamento verso una meta spirituale, è dargli un’anima; annunciare che ogni persona è creatura-figlia di Dio e il suo divenire e il suo compimento si realizzano nel progetto salvifico del Padre.

La speranza non può essere identificata con un semplice atteggiamento di ottimismo o di fiducia nella vita o con l’attesa di un qualcosa che si realizzerà o ci verrà dato in futuro: è credere che la risurrezione finale inizia qui, ogni giorno; collaborare a rendere possibile la risurrezione dentro ad ogni croce dell’uomo; riconoscere che l’uomo e il creato hanno la loro origine in Dio e a Lui ritornano.

Professare la speranza ci aiuta ad esprimere, nel concreto della vita quotidiana, alcuni atteggiamenti che creano vicinanza, accoglienza, senso di appartenenza e di famiglia:

 

- tutti condividiamo la medesima vicenda umana e abbiamo la stessa dignità pur con doni diversi;

- crediamo che al di là del colore della pelle, della razza, della cultura, della fede è possibile incontrare l’altro a partire dalla nostra stessa realtà di persone umane: tutti siamo figli dello stesso Dio, pur chiamato con nomi diversi; fratelli tra di noi perché partecipi della medesima vicenda umana; uguali nella dignità.

 

Oggi, tuttavia, siamo testimoni di come questa verità sia sempre più minacciata e come sia terribilmente minato l’uomo con i suoi valori più profondi: la vita nel suo nascere, nel suo svilupparsi e morire; l’identità e la dignità della persona; il senso della corresponsabilità; il rispetto e l’accoglienza dell’altro, soprattutto del più debole e fragile.

La speranza cristiana ci aiuta a recuperare il legame di parentela con Dio e a ricordare all’uomo di oggi lo sguardo benedicente di un Dio innamorato delle sue creature: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».

 

 2. Il ricambio e l’interscambio generazionale nelle Congregazioni religiose femminili in Italia

 “Agire” o subire il cambiamento.

La sfida che ci attende oggi, non sta nel chiederci se la vita religiosa attuale avrà futuro o non lo avrà, sappiamo infatti che essa è nelle mani di Dio, bensì nel verificare il nostro atteggiamento dinanzi alla realtà di un cambiamento epocale e nell’interrogarci se abbiamo una fede che ci rende capaci di vedere i “semina Dei” in questi nostri tempi e accettare quest’ora come un’ora voluta da Dio per noi.

Quasi tutte le Congregazioni in Italia e in Europa stanno sperimentando una drammatica diminuzione del personale e la presenza sempre più elevata di suore anziane e malate. A ciò si aggiunge la mancanza di vocazioni, resa più complessa dal timore di un impegno permanente, dalla fatica ad entrare in dialogo con le giovani che entrano nei nostri Istituti, oltre che da una visione alquanto depauperata della figura della religiosa.

Questa realtà dolorosa ha come contraccolpo la chiusura di opere apostoliche e di comunità, con la conseguenza che le religiose sono sempre meno presenti e la vita religiosa è meno visibile.

Nel rapporto intergenerazionale esistono tensioni e nelle Congregazioni internazionali si sperimentano inoltre difficoltà dovute ai diversi modi di concepire la vita religiosa nei vari Continenti, da qui l’urgenza di dialogare su questo argomento.

In questi dieci anni, in Italia, molte Congregazioni locali, diocesane si sono trovate a fare i conti con la dimensione dell’internazionalità senza un’adeguata preparazione; altre si trovano di fronte a una maggioranza di suore giovani di altri Paesi, senza aver avuto la possibilità di conoscerne a fondo la cultura e, quindi, avviare un serio interscambio. Ciò è dovuto in gran parte a motivi di età, di impostazione della formazione e dello stesso governo di una Congregazione.

Non si può infine ignorare il fatto che le giovani provenienti dai Paesi dell’Est Europa, sono facilmente omologate nel cammino formativo alle giovani italiane e quindi trascurate nella loro specificità culturale e religiosa.

Cambiare stile e mentalità di fronte a queste problematiche non equivale soltanto ad accogliere il cambiamento, ma domanda di agirlo, ossia di iniziarsi e di iniziare ad esso. Dal rito dell’iniziazione apprendiamo che sono i segni a rendere visibile la realtà che si intuisce e che si intende esprimere (cfr. UISG, n. 116/2001, p. 101 ss).

 

Iniziazione al cambiamento

 Il cambiamento più difficile da operare non riguarda le distanze, la diversità dei luoghi o delle professioni; non si tratta, in altre parole, di arrivare geograficamente più lontano, bensì di arrivare più lontano in umanità, correndo anche il rischio, malgrado i nostri limiti e la nostra riduzione numerica, di cercare sia pure a tentoni, piste e azioni concrete che permettano di avviare cammini comuni di presenze solidali, dando così credito ai valori della comunione e della missione profetica della vita religiosa.

Quali gesti o scelte possono avviare nei nostri Istituti l’iniziazione al cambiamento? Quali percorsi di speranza esigono di essere attivati comunitariamente?

La comunità è il luogo in cui si genera la fede nel quotidiano; lo spazio concreto in cui ci si aiuta e ci si perdona a vicenda; il luogo della comunione che si costruisce mediante la lenta “guarigione delle ferite” che talvolta ci provochiamo con le nostre stesse differenze.

A tutte è chiesto di prepararsi al confronto interculturale, quello vero, alla pari, anzi in situazione di minoranza.

Urgono percorsi di dialogo interculturale, che esigono impegno e disponibilità da parte della vita religiosa, luogo privilegiato per l’integrazione delle diversità, che può avere ricadute positive anche sull’attuale società moderna.

Occorre soprattutto abnegazione interiore, capacità di perdere qualcosa di sé perché si realizzi il dialogo e cresca la comunione.

In un orizzonte più ampio, a livello ecclesiale e sociale, dovremmo, inoltre, accogliere l’idea che il nostro mondo occidentale sta esaurendo “le sue risposte” che peraltro non hanno sempre generato nel mondo, benessere vero e positività, ma forti conflittualità e contraddizioni.

Altri popoli: latino-americani, africani e dell’Estremo Oriente si stanno affacciando sull’orizzonte internazionale, capaci di offrire al mondo le loro soluzioni, sicuramente diverse dalle nostre.

L’era occidentale sta per finire e se ne sta aprendo un’altra: quella dei popoli del Sud del mondo. Reagire a questo processo bloccandolo, non servirebbe a niente; occorrerà invece studiarlo, approfondirlo a più voci, capire come entrare fattivamente e non passivamente in questo nuovo scenario multietnico ed interreligioso, prepararci ad affrontarlo senza grossi traumi.

Occorrerà soprattutto imparare la “grammatica delle relazioni, il codice della comunione” che non escludono, ma integrano le differenze.

 

Leggere la nostra storia con speranza evangelica.

Ogni cambiamento nella vita religiosa sarà destinato ad essere solo di immagine se non verrà operato in ascolto dello Spirito. Diversamente potremmo vivere il compromesso del cambiamento, lasciarci guidare dalle sfide del mondo, rispondere a queste sfide, vivendo determinati valori riconducibili al Vangelo, senza il Vangelo. Quasi fosse possibile vivere da uomini nuovi senza lo Spirito santo, da redenti senza Redentore, da cristiani senza Cristo.

Il passaggio dalle idee all’esperienza religiosa, a una dimensione spirituale profonda rimane certamente difficile e richiede un lungo cammino.

Come insegna l’esperienza della prima evangelizzazione, due cose sono necessarie affinché il processo del cambiamento non rimanga un fenomeno isolato e non si spenga:

- l’esperienza di Chiesa nel senso autentico del termine, cioè di una comunità spirituale e cultuale, ma umana, concreta, quotidiana e la riflessione su tale esperienza, all’interno delle coordinate della memoria e della tradizione;

- il bisogno di elaborare mediante un serio impegno di vita spirituale le proprie idee religiose, politiche, morali.

Qual è l’idea archetipo dei nostri valori? Quella del Vangelo? Professiamo questa nostra convinzione o la lasciamo sottintesa?

Spesso nel mondo religioso avviene che nell’intraprendere un cammino spirituale siamo frenate dal timore e dalla paura di dogmatismi, dal timore di far violenza sulla libertà dell’altro, ecc…; sentimenti che denunciano una mentalità abituata a ragionare più in termini di concetti e di forme, che in termini di vita spirituale.

Uno sguardo spirituale integro esige la dimensione pneumatologica, cioè il riferimento alla presenza dello Spirito Santo quale punto di partenza per la comprensione dell’uomo.

Un approccio pastorale che voglia incontrare tutto l’uomo non può prescindere dall’esperienza della redenzione dell’uomo peccatore.

Perciò un’evangelizzazione che voglia aiutare la crescita nella fede deve far sì che le persone amino Dio più di ogni altra cosa e in Lui amino tutto ciò che Egli ama, con il Suo stesso amore (cfr. M. J. Rupnik, Alla mensa di Betania, ed. Lipa, Roma 2004, pp. 22-32).

L’esperienza dell’amore e del perdono di Dio è fonte di umiltà e di audacia: questa è la nostra vera forza per il futuro.

Come religiose, siamo sempre più sollecitate a presentare il “volto femminile di Dio”, a mobilitarci insieme per la sua giustizia, come donne che sono entrate in contatto con la propria vulnerabilità e con la misericordia di Dio e possono meglio capire la fragilità dell’altro.

La vita religiosa porta in se stessa doni terapeutici che aiutano a guarire l’anima, il corpo, la solitudine; offre luoghi in cui la persona può riprendersi, ritrovare se stessa, vivere la speranza.

 

Formazione della leadership negli Istituti: guidare il cambiamento, come esperienza di speranza e di profezia.

Attraverso alcuni scambi e l’acquisizione di elementi conoscitivi, mi sembra di cogliere con una certa evidenza che i religiosi non sono più considerati semplicemente in funzione del servizio che offrono; in questa prospettiva, infatti, la vita religiosa non ha nulla di indispensabile che non possa essere rimpiazzato da altri organismi socio-educativi. Essa è piuttosto un dono di Dio alla storia di ogni tempo e pensarla con l’atteggiamento di gratitudine, che si alimenta nei confronti di un dono, è sorgente di libertà.

Non possiamo tuttavia ignorare che permangono degli obblighi istituzionali e sociali quali: la demografia, le opere da gestire o da trasmettere ad altri, il numero elevato delle nostre sorelle anziane…, obblighi da prendere di petto. Anche se ciò può essere, a volte, pesante e, per alcuni aspetti, schiacciante, si tratta di un compito preciso da assolvere, ereditato in gran parte dalla gestione del periodo che ci ha precedute.

La nostra missione di responsabili consiste in primo luogo nel coltivare maggiormente la coerenza tra l’esperienza di ciò che abbiamo gustato del Verbo della Vita e la capacità di manifestarlo nelle opere. Siamo chiamate a conservare e a far crescere il patrimonio spirituale dei nostri Istituti e delle singole suore, ad attendere pazientemente il momento della raccolta e a custodire i frutti; ad agire e lasciarci agire dallo Spirito, per consentire che Egli stesso operi attraverso di noi quel cambiamento che è chiesto a tutti dalla storia.

In questa prospettiva c’è bisogno di un governo spirituale che assuma con stile evangelico gli aspetti più significativi del servizio dell’autorità.

 

Leasdership e governo spirituale

Nate in un’epoca caratterizzata da uno stile nel quale veniva esercitato il potere di una persona su altre persone, senza alcuna possibilità di ricorso, conosciamo che cosa significhi un governo autoritario.

Anche noi, per un certo periodo, ci eravamo assuefatte a contrapporre autorità e leadership. Non era raro, infatti, sentir dire: “Una persona può avere un mandato d’autorità senza avere quello di leadership e viceversa”. In un passato a noi vicino l’autorità era sinonimo di potere, mentre la leadership era legata alla sfera dell’influenza, dell’ispirazione.

Se è vero che l’autorità è chiamata a ricomporre la vita, a favorire la crescita delle persone, a consolidare le energie interiori, è altrettanto vero che ciò sarà possibile solo se le nostre comunità sapranno integrare il bisogno di una autorità esteriore con l’esperienza di una autorità interiore autentica.

Una leadership è profetica nella misura in cui esprime una visione di futuro, condivisa e creativa, carica di speranza. La speranza è una dimensione fondamentale: significa credere sempre in un futuro capace di cantare le meraviglie operate da Dio e aperto a possibilità sempre nuove, di coltivare sogni.

Credo che la trappola che insidia attualmente le/i leaders delle comunità sia quella di lasciarsi assorbire dalle contingenze quotidiane che radicano alla terra. Chi non coltiva desideri, difficilmente riesce ad aiutare gli altri.

Come possiamo aiutare a sognare se noi stesse non sappiamo sognare?

Un politico di notevole levatura amava citare questa espressione: “I ragionevoli hanno resistito. Gli appassionati hanno vissuto”.

 

 

Leadership condivisa

 

Nessuno può essere leader profetico da solo; un vero leader è “interdipendente”, in sinergia con altre persone. Personalmente sono fortemente convinta che il modello da privilegiare, oggi, sia quello della leadership condivisa.

Un’immagine che per alcuni aspetti ci può aiutare a cogliere il significato di questo modello è quella della formazione a V degli stormi di uccelli che migrano.

Fuori di metafora, le persone che camminano insieme verso la stessa direzione raggiungono più rapidamente e più facilmente l’obiettivo. I membri di un’équipe che riescono a sognare insieme qualcosa di grande rendono possibile l’impossibile e scoprono il gusto della condivisione.

La sfida è sviluppare una organizzazione che corrisponda a un “noi collettivo”, disponibile a camminare nella stessa direzione. (cfr. UISG n. 124, 2004, p. 40 e ss).

 

3. L’interscambio ai vari livelli:
intercongregazionalità, internazionalità e interculturalità

La sfida dell’interscambio e dell’interdipendenza se non è ispirata e coniugata con i criteri evangelici del riconoscimento dell’altro, della forza della debolezza, della grandezza della piccolezza, può diventare concorrenza, predominio, scomparsa del soggetto collettivo più debole, abuso di potere…

La stessa vita moderna ci spinge all’interdipendenza. Non abbiamo ancora finito di imparare ad uscire dalla dipendenza e dall’indipendenza e già la nostra azione futura ci vede inserite nelle reti, nei partenariati.

Operare un passaggio di qualità significa mettere in gioco in questo cammino di autonomia la coerenza tra l’efficacia e la spoliazione di sé: una nuova forma di obbedienza alla quale siamo chiamate ad aprirci.

 

Due sole parole di commento al forum sulle tre aree tematiche dell’Assemblea. Esso ha registrato attenzione alla dimensione dell’intercongregazionalità, mentre l’aspetto dell’interculturalità e la sfida del dialogo interreligioso hanno riscosso minore interesse.

Considero, tuttavia, gli apporti ricevuti e quelli che verranno dai lavori nei gruppi, una grossa opportunità per offrire, a questa Assemblea delle Superiore maggiori, delle indicazioni concrete relative ai nuclei evidenziati.

L’intercongregazionalità in Italia: segni di comunione e di nuova presenza

 

Le Congregazioni in Italia hanno avviato da alcuni anni esperienze di interscambio, a livello di condivisione dei carismi e di collaborazione in alcune opere e servizi; hanno inoltre attuato il cambiamento (quasi indotto) della propria fisionomia: da Istituti locali o nazionali a Istituti internazionali, per la presenza di giovani provenienti dai Paesi europei, e/o da altri Paesi.

Dall’osservatorio dell’Usmi, si coglie che l’interscambio, a cui le Congregazioni sembrano essere meglio preparate, riguarda la condivisione a livello di carismi e la costituzione di comunità intercongregazionali in luoghi di frontiera o in situazioni di emergenza.

Significative sono, da questo punto di vista, le richieste rivolte all’Usmi, (circa dieci) provenienti da piccole Congrega-zioni, le quali domandano di poter essere messe a contatto con Congregazioni che hanno un carisma affine, allo scopo di studiare possibilità di federazione o di interscambio formativo o di unione. Sono state offerte, in proposito, delle indicazioni; in alcuni casi l’incontro è avvenuto, anche se non si conosce l’esito del cammino.

Più faticose le collaborazioni in opere tradizionali: scuole, pensionati; dove la presenza intercongregazionale è meno significativa, a motivo di funzioni e compiti equiparati a quelli di qualsiasi altro personale laico.

Più facile invece, per la flessibilità delle strutture e per le problematiche emergenti, la compresenza di vari Istituti in opere socio-assistenziali, o di pronto intervento: servizi di accoglienza, partecipazione e appoggio a iniziative che denunciano situazioni di ingiustizia, di violazione della dignità della persona e di ogni diritto umano.

Un’analisi attenta evidenzia che le religiose in Italia sono approdate alla intercongregazionalità, sollecitate dalla necessità di continuare la loro presenza e di offrire un servizio. Non mi risultano esperienze di intercongregazionalità pensate o cercate come condivisione del comune carisma della “consacrazione”, il quale permette di creare per le stesse Congregazioni, ridottissime nel numero, condizioni più vivibili a livello comunitario, di animazione spirituale e di assistenza sanitaria.

Ci sono, a questo livello, alcune esperienze in altri Stati dell’Europa occidentale.

 

La stessa internazionalità è per diverse Congregazioni italiane un dato di fatto più che una scelta. Resta una scelta la decisione di andare in altri Paesi per l’espansione del carisma, o per rinforzare le nostre fila; ma superato questo momento, la presenza di sorelle provenienti da altri Paesi, dove la Congregazione non ha una presenza di lunga data, richiederebbe un impegno culturale e spirituale notevole, proprio per non creare dei gruppi paralleli all’interno delle nostre Congregazioni.

La diversità delle culture è infatti notevole anche a livello europeo.

Per le Superiore e i Consigli lo studio delle culture, la conoscenza diretta dei diversi Paesi è anzitutto un dovere prima che un’esigenza, per poter far sì che la Congregazione sia arricchita non soltanto nel numero dei suoi membri, ma soprattutto da quei valori culturali, umani e spirituali che le sorelle di altre culture portano con loro.

 

La vita religiosa femminile in Italia e l’interscambio Est-Ovest Europa

Dai diversi incontri delle Conferenze delle Superiore maggiori, a livello europeo, ho sempre riportato un’impressione: che la posizione, la composizione, l’esperienza della vita religiosa italiana ha certamente qualcosa da dire, da proporre, da offrire per favorire lo scambio di doni spirituali tra l’Est e l’Ovest dell’Europa.

Tra le Conferenze, l’Italia è ancora quella più numerosa, in grado quindi di offrire risorse materiali e spirituali, di avviare un concreto itinerario di conoscenza delle culture e della spiritualità a noi più vicine: quelle del mondo orientale.

Mentre si fa l’unità dell’Europa a livello economico monetario, credo che le religiose in Italia debbano cercare il modo non solo di trapiantarsi nell’Est Europa, ma di avviare dei laboratori di conoscenza e di interscambio per poter crescere verso una mutua condivisione di ideali e di doni spirituali; approfittando della circolarità di presenze e di centri che già ci sono nel nostro Paese.

Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Orientale lumen (1995), scritta per la ricorrenza centenaria della Orientalium dignitatis di Leone XIII (1894), insiste molto sulla necessità di «incontrarsi, conoscersi, lavorare insieme tra fedeli dell’Est e dell’Ovest».

Anche su questo versante avverto l’esigenza di pensare insieme qualcosa che ci renda propositive e apra le nostre comunità alla reciprocità delle ricchezze e dei doni culturali e spirituali.

 

Una svolta culturale e spirituale nella formazione iniziale e permanente delle Congregazioni

Il contesto esterno e la situazione delle nostre Congregazioni esigono che il linguaggio della formazione iniziale e permanente non sia più esclusivamente monoculturale. Non si tratta tanto di una sfida, è piuttosto un grave problema che se non affrontato inciderà negativamente sul futuro delle nostre Congregazioni.

Nell’Assemblea dello scorso anno, l’intervento di p. M.J. Rupnik: «L’Europa, incrocio di spiritualità e culture: le possibilità per la vita religiosa», ci invitava a ripensare alcuni nostri atteggiamenti e ad avere pure il coraggio di ripensare i contenuti della nostra fede (cfr. Consacrazione e servizio n. 7/8, 2003, p. 107).

Il ripensamento di atteggiamenti e di contenuti, che a livello di cuore si chiama conversione, non può avvenire per pura volontà nostra; l’abitare la storia di oggi esige di essere aperte alla mobilità interna ed esterna, alla rielaborazione di quei principi e contenuti che sono state le nostre certezze e che ora possono rischiare di diventare le nostre gabbie o chiusure.

I discorsi tra gruppi di sorelle, i contenuti dei nostri incontri comunitari, lo stile della preghiera, i ritmi e gli orari comunitari non sono più aspetti che vanno bene per tutte, ma nello stesso tempo non vanno trascurati.

Alle superiore è chiesto la difficile e paziente operazione del dialogo, del confronto, della conoscenza di altre modalità e ritmi, affinché il discernimento non sia operato solo su criteri validi per le italiane, ma per tutte le presenti.

I punti di accordo saranno sempre meno, ma essenziali e fondamentali; aumenteranno le diversità di prassi e modalità puramente esterne: arredi d’ambiente, menù, modalità di preghiera, di musica,…

Ospitare e accompagnare l’accoglienza di queste diversità apparentemente marginali, esige un cambiamento profondo di visione di apertura e di disponibilità a “perdere per guadagnare”.

 

Conclusioni

A conclusione di questa lettura sulla nostra realtà, preferisco non anticipare nessun orientamento preferenziale in ordine agli aspetti evidenziati o cammini concreti, che sicuramente emergeranno dai lavori di questa Assemblea; mi piace invece rinforzare interiormente la nostra attenzione richiamandoci all’icona biblica di Rut, la moabita (Rut, 1, 8-19), la quale potrebbe essere considerata la versione femminile di Abramo, che sperò contro ogni speranza.

Donna e icona della speranza teologale per la sua fede e il suo coraggio. Anche lei si lascia alle spalle il paese da cui proviene, Moab, per seguire Noemi, il Dio di Noemi: «Il tuo Dio sarà il mio Dio, dove tu andrai, io andrò».

In un atto di amore gratuito e di abbandono fiducioso, affronta l’ignoto, l’insicurezza e si apre alla speranza anche quando Noemi, per distoglierla, le dice che non potrà avere altri figli in grembo per donarglieli.

Inoltre Rut è una migrante, esce dalla sua terra per recarsi in un paese a lei straniero e forse ostile. Ma la sua fede e la sua speranza sono più forti.

E’ una straniera in Israele, povera, tanto povera che per procurare la sopravvivenza per lei e la suocera, va a spigolare, proprio come facevano i più poveri, ai quali non è donata nemmeno la dignità del lavoro.

Ma il suo coraggio e la sua capacità di rischiare, la sua umiltà e, non ultima, la sua bellezza, la rendono attraente icona della speranza.

La bellezza di Rut esprime il significato teologico della salvezza, perché è una vita che si affida alla cura di Dio.

La bellezza è la cura di Dio per le sue creature: egli le guarda ed esse splendono di gioia.

Rut sperò contro ogni speranza e divenne feconda di vita: con lei riparte la storia della salvezza, che al tempo dei Giudici era bloccata da una grave carestia di pane, ma anche di profezia e di speranza.

Da lei e da Booz nascerà l’antenato di Davide; e l’evangelista Matteo la inserisce nella genealogia di Gesù, il Salvatore.

Sia questa icona, ispiratrice di nuovo coraggio per un cammino di profezia e di speranza delle nostre Congregazioni.

 

   

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