n. 7/8
luglio/agosto 2004

 

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L'Europa tra scambio generazionale
e mobilità etnica
di Filomeno Lopes *

 

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Mi trovo un po’ a disagio. Avevo preparato un discorso, ma entrando qui in sala la prima cosa che mi è venuta in mente, e forse è quello che farò, è di dimenticare ciò che avevo preparato.

Ed è questo il problema di convegni e tavole rotonde: devi preparare qualcosa da dire a un volto che non vedi, e bisogna poi avere il coraggio e l’umiltà, una volta visto il volto, almeno al primo impatto, di dire a te stesso che quello che hai preparato non è quello che puoi desiderare di dire qui.

Sapevo di partecipare a una tavola rotonda per le Madri generali e provinciali, ma un conto è immaginare un pubblico variegato e un altro è vedere i loro volti. L’altra difficoltà è che io sono africano e, quindi, non c’è bisogno che vi dica cosa rappresenti una madre per noi africani. Terza difficoltà è il fatto che mi trovo qui, davanti a voi, a dover parlare, invece di essere colui che deve ascoltare. Forse il mondo sta andando un po’ alla rovescia, non lo so, però… l’unica cosa che posso fare prima di prendere la parola, e lo dico sinceramente poiché io vengo da una formazione filosofica e, normalmente, lo sapete, si tende a provocare tanto, e poi, se si proviene dai Gesuiti, ancora peggio.

Avrei voluto, difatti, prima di tutto versare un po’ di acqua a favore dei miei antenati, chiedendo loro che mi proteggano dal dire qualche cosa di sbagliato, perché di solito la mia formazione mi porta a dire troppe cose che, forse, non dovrei dire, poiché ho davanti a me le Madri generali e provinciali. Comunque, grazie di questa opportunità.

Essendo qui presenti le Madri, vorrei improvvisare con loro un discorso da questo punto di vista: mi è stato chiesto di dire come vedo questa Europa, e io avevo improntato il discorso sul contributo che l’Africa ha dato per la pace mondiale, soprattutto tenendo presente il modo come ha affrontato la questione della schiavitù fino all’indipendenza, dove l’idea non fu mai quella di dire andatevene a casa vostra, ciascuno per conto proprio, ma di dire semplicemente che la nostra lotta doveva essere contro il sistema, non contro qualcuno, né contro i bianchi, né i gialli, ecc. Così hanno imparato quelli come me, che nacquero dopo l’indipendenza.

Da quando sono nato ne ho visti di tutti i colori, quindi il problema etnico me lo sono posto, non nel mio Paese, ma in Europa. Questo è un riconoscimento all’Africa, che quando ha dovuto risolvere dei problemi importanti, lo ha sempre fatto in modo positivo, senza odio né razzismo. In questo modo ha dato all’umanità una lezione. Il problema però è che dal periodo dell’indipendenza in poi, non si è mai dato a quest’Africa l’aiuto che merita per rispondere a domande esistenziali, tipo: che cos’è che questa libertà, duramente conquistata, implica in termini di responsabilità sociale? Questo era il mio discorso, ma adesso preferisco lasciarlo lì, perché ve l’ho dato e potete leggerlo. E passo, allora, ad un altro discorso. Se mi si chiede come vedo questa Europa, è come se mi si chiedesse adesso di parlare della mia realtà di figlio illegittimo. Cosa intendo dire con questo? Perché illegittimo? Voglio dire che parto da un dato di fatto: guardando i certificati di nascita di tutti i miei fratelli più grandi di me, vedo in tutti, e anche nel mio, che noi siamo figli di… e di… , oppure figli illegittimi di Siare, di Jata, ecc., ecc., comunque figli illegittimi.

Allora la domanda è questa: perché illegittimi? Chi è allora il legittimo? Insomma, se illegalità, illegittimità, indicano uno spazio fisico, ma anche relazionale, quindi umano, allora voglio sapere: chi è il proprietario legittimo, il genitore legittimo di questo spazio fisico e temporale in cui i miei genitori, illegalmente, hanno osato di far venire me al mondo? La risposta è, forse, da ricercare nella conferenza di Berlino, là c’erano un po’ tutti: c’erano i miei padri portoghesi, c’erano anche gli italiani, c’erano i francesi, c’erano gli inglesi, gli spagnoli, ecc. Prima credevo che il mio essere extracomunitario fosse in rapporto all’Europa, invece mi scopro adesso, pensandoci bene, che già all’interno del mio stesso Paese ero nato extracomunitario. E ora mi si chiede di dire come vedo questa Europa. Allora capite che mi state chiedendo di parlarvi di mio padre legittimo, che non ha mai voluto riconoscermi. Se voi andate poi alle definizioni di che cosa è l’Africa, vedrete Libia, Lubin, Lubu, Faraka, ecc., tutte queste etimologie che alla fine però vi portano a un unico punto, cioè che nessuna di queste parole ha un significato indigeno, cioè non furono i miei bisnonni a chiamarle così. L’Africa, che poi è una donna, vuol dire quella donna che i primi, i nuovi arrivati, per usare un’espressione comune, decisero di chiamare così, e l’hanno deciso a Berlino, ecc., ecc.; Quando mi si chiede… mi domando: ma dove si trova?

Questa è l’ironia della sorte, perché di fatto dovrei essere io a chiederlo, perché i miei bisnonni non hanno la cultura del mappamondo. Questo è quello disegnato da Berlino, quindi sono loro che dovrebbero saperlo, non io. In fondo, che cos’è quest’Africa che voi tutti servite e per la quale cercate di rinnovare le idee, pensando al futuro? Ecco, ho la sensazione allora… chiedendomi di parlare di quest’Europa, che mi chiediate di parlarvi un po’ di quella danza indanzabile che i Babanamu, una popolazione del Mani, chiama, appunto, la danza indanzabile, perché se faccio un passo indietro, muore mio padre, se faccio un passo in avanti, muore mia madre, se faccio un passo sulla mia sinistra, muore mio fratello, se a destra, muore mia sorella; se non vado né avanti, né indietro, né ai lati, muoio io.

E che facciamo? Voglio dire semplicemente che l’Africa, di fatto, è una creazione dell’Occidente e, quindi, se i portoghesi erano europei, non potete dire che io non sono europeo, magari il mio bisnonno non lo era, ma mio padre mise sulla bocca di mia madre queste parole: dal momento in cui i nuovi arrivati sono qui, l’unica speranza che abbiamo ora di poter preservare la nostra identità culturale è di avere il coraggio di inviare i nostri figli alla scuola dei nuovi arrivati, perché da ora in poi è la loro scuola la nostra sfida. Il problema però è che questo padre legale, forse, non aveva mai pensato che anche per se stesso, da quel preciso momento, la scuola degli altri diventava una sfida e che quindi, dal momento in cui i conquistatori erano giunti nei nostri porti, l’epoca della preservazione pura di se stessi era compiuta. Da quel momento non c’era più il retaggio dei miei nonni, non c’era più la preservazione delle nostre tradizioni e della nostra cultura, ma nasceva la nuova generazione ibrida, perché la nuova generazione, che doveva andare alla scuola dei nuovi arrivati, era la nuova Africa, ovvero un essere ibrido. Non ero più come i miei bisnonni, ma non sono neanche uguale a chi legalmente mi ha partorito, anche se non vuol riconoscere la sua paternità.

Sta di fatto che tutti quelli che sono andati a scuola, me compreso, hanno imparato le stesse cose che tutti voi avete imparato qui. Se questo è ciò che s’impara in Europa, e l’Europa vuol dire Occidente, perché l’Occidente in sé non esiste, è una cultura, la stessa cultura che ho avuto io l’avete anche voi, allora come fate a dire che non sono europeo, occidentale, ecc., ecc.? A meno che non abbiate il coraggio di tirare fuori la parte peggiore di voi; cioè quello che è problematico e razzista, e asserire che la diversità tra me e voi sta nel colore della mia pelle, come di fatto i politici non esitarono a fare nella conferenza di Darwan, dove non si volle neanche minimamente riconoscere che la schiavitù è un crimine contro l’umanità.

Ora, forse, potrete comprendere perché vi dico che mi chiedete di danzare una danza indanzabile, perché sarebbe, di fatto, andare alla ricerca di che cosa sono realmente: un figlio illegittimo. Quando sai di essere nessuno, però, ti devi inventare. E meno male che hai davanti la mamma, anche se lei adesso è quella vecchia donna sola. Questo è il punto dove volevo arrivare e concludo: il fatto che voi siete tutte quante madri, significa che dopo duemila anni di storia bisognerà avere il coraggio di ricominciare da capo: non cercare le riforme, ma passi intermedi, che significa metanoia. Per fare questo bisogna prima conoscere bene gli esseri umani a cominciare dal bambino appena nato, che si apre come un fiore davanti a noi, non è né Josè, né Maria, né angolano, né tutsi, è semplicemente un bambino, una bimba, e di fatto quando qualcuno nasce, si dice: è nata una bella bimba, o un bel bambino. Questo significa che ciò che a priori Dio dona come vita, è la vita che si concretizza in un essere umano, tutto il resto arriverà dopo: il nome, dov’è nato, ecc. ecc. Il guaio però è che io vedo un’Europa arroccata a voler continuare in questa disarmonia drammatica, cioè, a far sì che nel mondo di oggi ci si consideri più per quello che si fa piuttosto che per quello che realmente si è, ossia come lettere di amore di Dio inviate in questo mondo per significare qualcosa.

Poi non voglio dire che non è bello essere italiano, africano, ecc., ma semplicemente asserire che essere africano o italiano è l’unico modo che abbiamo di storicizzare noi stessi. I popoli, come storia, infatti, sono un po’ come i fiumi a sé stanti: il fiume Nilo non è il Giordano, il Giordano non è il Gange, il Gange non è il Tevere e non è neanche sicuro che le loro acque s’incontrino nell’oceano, ma c’è un punto dove si trovano di sicuro e cioè nel cielo, non più come acqua pura, ma come vapore, ed è come vapore che di nuovo, in sintonia, cantano un inno alla vita sotto forma di pioggia, per bagnare questo mondo con la loro nuova linfa vitale.

Ed è una questione di natura; io credo che i popoli siano questo, allora quello che oggi dobbiamo fare è proprio di coltivare questa coscienza. Bisogna trovare altri meccanismi che portino fuori da questa realtà dell’essere umano che rischia di diventare catastrofica: noi siamo le nostre carte d’identità e non le nostre carte di credito. Chi pensa il contrario, codifica l’uomo. Il problema di venire fuori dalla mia illegalità è proprio questo, io non ho una carta d’identità pesante né una carta di credito, però sono una creatura di Dio e valgo come ogni altra persona, e con me valgono tutte le altre persone del mondo, al di là della razza, della religione e del ceto sociale.

Grazie a tutti.

 

* Giornalista di Radio Vaticana.

** Il testo non è stato rivisto dall’autore 

   

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