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I nostri nonni e genitori, le
generazioni che ci hanno preceduto, hanno trascorso la loro esistenza a
conservare tutto quanto con fatica erano riusciti a conquistarsi, dalla
casa acquistata con tanta sacrifici, agli oggetti che via via
l’arricchivano di comodità e di un qualche benessere.
Si era consolidata nel
dopoguerra una «religione della conservazione» che testimoniava la
rinascita e la ricostruzione dalle macerie del conflitto in cui tanti
avevano perso tutto. Ispirava uno stile di vita e di comportamento che
ha permesso all’Italia della gente comune di crearsi delle sicurezze
molto importanti per un progresso sociale che ha portato un generale
miglioramento della vita. Anche perché il significato di questi
risparmi, della cura di quanto si era ritornati a possedere, o si
possedeva per la prima volta, non era soltanto un fatto economico. Era
legato a una idea di vita presieduta da principi etici, a cominciare dal
valore del sacrificio e della negatività dello spreco, un’idea ereditata
dal passato, ma importante per non interrompere il filo d’intesa e di
apprendimento con le generazioni precedenti.
Poi è arrivato il ciclone del
consumismo con i suoi meccanismi distruttivi, con la sua filosofia
dell’usa e butta, con il suo stile di vita legato a una precarietà che
ha tolto ogni significato positivo all’azione del conservare e
cancellato ogni consistenza alle cose.
Siamo diventati schiavi e
dipendenti di una cultura del possesso che ha creato una corsa all’uso
affannoso non soltanto delle cose, ma anche dei rapporti con gli altri,
delle situazioni, delle persone. Siamo diventati dei precari della vita
senza passato, senza presente, in attesa di un futuro confuso.
«C’è un tempo per serbare....»
E’ venuto il momento per riscoprirlo e rimetterlo in pista. Contro la
precarietà del vivere, del consumare e bruciare emozioni, rapporti,
situazioni, sentimenti e anche oggetti.
Serbare per riempire quella
cassaforte della mente e del cuore, quel tesoro di pensieri, di affetti
e di relazioni umane che è indispensabile alla costruzione delle persona
e a un progetto di vita che non voglia edificare sulla sabbia, ma su un
terreno consolidato dalla presenza di significati e riferimenti
importanti. Per investire in un incontro, magari casuale, che ci ha
regalato un’amicizia, un volto, una storia, ricca di stimoli e di
scoperte; per far crescere dentro di noi una conoscenza approfondita di
una situazione nella quale possiamo trovare aiuti per crescere e per
progettare scelte e comportamenti; per tesaurizzare emozioni e
sentimenti che sono fondamentali per ridarci quello spessore umano e
anche intellettuale, quella ricchezza del cuore che abbiamo smarrito.
Il tempo del serbare chiede
pause e meditazione, valutazione e scelte. Suggerisce di ritirarci nel
retroterra delle nostre azioni, dove il significato vero e autentico del
vivere e del morire, illumina di una luce eterna il nostro breve
passaggio sulla terra.
Dove dobbiamo ricominciare a
imparare a leggere ciò che vale e ciò che non vale, in compagnia di quel
patrimonio messo a nostra disposizione dagli altri, da chi ci ha
preceduto e da chi ci vive accanto, fondato su quella Parola che deve
essere «serbata» preziosamente nel tabernacolo del nostro cuore, come
fonte continua di ispirazione e di verifica.
Ma anche il «buttare via» che
pratichiamo in modo così insensato deve correggersi in un’ottica
diversa.
Oggi viviamo tutti mascherati.
Ci nascondiamo dietro alle maschere che ci hanno imposto o che abbiamo
scelto di indossare per far parte del grande ballo della società che
premia soltanto chi è ricco, forte, potente, sano, e bello. Il nostro
vero essere è sepolto sotto sembianze che non ci appartengono, ma sono
l’espressione di quello che gli altri vogliono che siamo. In casa, in
famiglia, sul lavoro, nelle istituzioni, nella vita sociale, politica e
anche religiosa. Ci siamo ritrovati un po’ tutti, in un giorno della
nostra vita, a guardarci nello specchio e a non più riconoscerci. Il
nostro viso, i nostri occhi, sono scomparsi dietro a una maschera,
imposta dalla nostra condizione sociale, dai nostri ruoli, dalla nostra
acquiescenza a omologarci sui modelli di una società che, sin da quando
siamo piccoli, ci impone precisi modelli vincenti.
Una cara amica, una giovane
donna che ha scoperto il significato vero della sua vita nella scelta di
condividere totalmente la vita degli ultimi in una bidonville africana,
mi ha scritto: «L’obiettivo della nostra esistenza deve essere solo
questo: fare il tuo passo oggi nel miglior modo possibile, dando il
meglio di te stesso e delle tue possibilità. Solo credendo veramente in
tutto ciò che sei e che fai, puoi arrivare a trasmettere un messaggio.
Ed è questo che più conta. Non tanto le parole e le attività, le
costruzioni, ma l’essere umano nella sua identità spoglia e semplice,
autentica. Qui la gente non ha maschere dietro alle quali nascondersi,
etichette da mettersi addosso. Non ha nulla da fingere. E’ stato questo
a spogliare i miei occhi da tanti filtri, a restituirmi a me stessa».
Oggi il tempo del «buttare via»
inizia proprio da qui. Dal levarci dal viso le tante maschere che ci
impediscono di vedere, di capire, di accogliere con occhi e cuore puro,
mente sgombra da pregiudizi, con quella innocenza che è coerenza e
fedeltà a se stessi.
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