Il Natale per il cristiano è festa: è fare memoria del
mistero del Verbo del Padre che si rivela in umana carne per opera dello Spirito
Santo e nasce dal grembo di una Vergine di nome Maria. “Il nome della vergine
era Maria”, scrive concisamente, quasi stringatamente, l’evangelista Luca. E
mistici come il beato Timoteo Giaccardo sapevano trarre anche da questo solo
versetto delle meditazioni splendide.
C’è un verbo, e derivati, che fa da
cornice o, meglio, accompagna tutto l’evento racchiuso nella parola Natale.
Zaccaria, che diventerà padre del
precursore che nascerà sei mesi prima, mentre esercitava le sue funzioni
sacerdotali davanti a Dio nel tempio, quindi in un contesto spazio-temporale
sacro, riceve l’annuncio della nascita di un figlio e nel dialogo-dibattito con
l’angelo si attarda. Fuori il popolo lo attende e “si meravigliava per il
fatto che egli indugiava troppo nel santuario”.
Dopo la nascita del figlio, ancora
Zaccaria è occasione e motivo dello stesso sentimento. Si discute sul nome da
imporre al neonato. Narra il Vangelo che egli, presa una tavoletta, vi scrive:
“il suo nome è Giovanni” e che “tutti ne furono meravigliati”. Lo stesso
cantico di Maria, pronunciato dopo aver ascoltato il saluto della cugina
Elisabetta, è un procedere in un inno di esaltazione e di meraviglia
per le ‘meraviglie’, operate dal Dio degli uomini e della storia. Ella “celebra
le gesta misericordiose di Dio lungo l’arco della storia della salvezza che ora,
nella pienezza dei tempi, trovano la loro definitiva realizzazione” ed esalta
“la fedeltà di Dio alle sue promesse”.
A Betlemme, i pastori ascoltano
l’annuncio angelico, e in fretta – come già Maria dopo aver accolto nel proprio
grembo di donna il Figlio di Dio nel viaggio verso la montagna – vanno a
Betlemme. Trovano, come era stato loro detto dai messaggeri di Dio, “Maria,
Giuseppe e il bambino che giaceva in una mangiatoia”. Tornati riferiscono e,
assicura il vangelo, “tutti quelli che udivano si meravigliavano
delle cose che i pastori dicevano loro”.
Più tardi Maria e Giuseppe portano il
Bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore. Simeone e Anna profetizzano gioie
e dolori su di lei e sul Figlio. Commenta ancora l’evangelista “suo padre e sua
madre rimasero meravigliati di quanto era stato loro detto di
lui”.
Anni più tardi ancora a Gerusalemme,
Gesù dodicenne si ferma nel tempio tra i dottori: ascolta, interroga, risponde.
La conclusione è semplicemente questa: “tutti quelli che lo udivano restavano
meravigliati della sua intelligenza e delle sue risposte”. L’acutezza
delle domande, l’esattezza delle risposte, la conoscenza della legge del ragazzo
li stupisce.
I soggetti sono persone diverse. Nel
caso di Zaccaria è il popolo che attende impaziente. E’ un popolo che non ha
nessuna peculiare distinzione socioculturale. Per esso quanto sta succedendo è
anomalo. L’anziano sacerdote indugia troppo. Di fatto uscirà con una menomazione
sorprendente: impossibilitato a parlare.
Elisabetta, certo ricolma di Spirito
Santo, come narra Luca, che la rende capace di comprendere e di interpretare il
significato profondo di quanto sta avvenendo, ma attonita per quanto si è
compiuto nella cugina pronuncia il ‘suo’ Benedictus: “Benedetta tu che hai
creduto…”. Ella ha constatato, con meraviglia, la rivelazione sconvolgente della
benevolenza di un Dio che ha reso feconda la cugina.
Poi è ancora una donna, Maria, - la
piena di grazia, ossia di santità, ossia di giustizia e di amore - che ha atteso
nella speranza e nella fede il compimento della parola dei profeti. Con uno
sguardo sulla storia trae luce per il futuro e, carica di meraviglia per il
presente e il passato nel quale scopre il filo purpureo di un tessuto lavorato
da chi governa il mondo e gli uomini, preannuncia il futuro: “l’anima mia rende
grande il Signore… ha dispiegato la potenza che è nel suo braccio… A partire da
ora tutte le generazioni mi proclameranno beata…”.
Nelle vicinanze di Betlemme, è ancora
gente del popolo, compagni di lavoro e di fatica, che ascolta avida la notizia
dei pastori, i quali si fanno narratori dell’evento costatato, messaggeri a loro
volta del lieto annunzio ricevuto. Hanno capito che Dio è arrivato nella storia
dell’uomo, quindi che Dio deve entrare nel recinto dei propri pensieri e del
proprio cuore. E chi ascolta si meraviglia di quanto viene narrato.
Probabilmente essi vivevano quanto secoli, molti secoli più tardi, consiglierà
Paolo VI: “Non fermiamoci alla cornice; guardiamo al quadro; e nel quadro
vediamo il mistero”.
Nel tempio sono i dottori, quindi uomini
di scienza e di sapienza, navigati in questioni di ricerca e di studio, ferrati
in esegesi e nell’interpretazione delle promesse profetiche.
Tornano spontaneamente alla memoria le
parole del cantore dal cui cuore affascinato è sbocciato il Salmo 8: “O Signore,
nostro Dio, quanto mirabile è il tuo nome su tutta la terra…” con quel che
segue. E l’esclamazione innamorata ed estasiata di Paolo nella Lettera ai
cristiani di Roma: “O profondità della ricchezza, sapienza e conoscenza di
Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie!”.
Ripetiamo: sono persone diverse in
situazioni diverse. La capacità di meraviglia non è privilegio di nessuno. Non è
prerogativa di nessuno. Nessuno la può ipotecare o riservare a sé. E’
sufficiente avere l’animo del bambino del vangelo. Avere orecchi e occhi, e
mente e cuore che sanno andare oltre il proprio isolotto… Che sanno vedere e
ascoltare, accogliere e apprezzare. Perché lo Spirito produce, questo sì, le sue
meraviglie quando vuole e in chi vuole, senza la pur minima esclusività di
persone.
Del resto il Vangelo, che inizia a
camminare lungo i secoli proprio con gli eventi natalizi, è una gioiosa notizia.
E le notizie belle, come le cose belle,
sono, o debbono essere, sempre oggetto di uno sguardo, di un ascolto carico di
meraviglia.
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