n. 5
maggio 2011

 

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Il simbolo nella liturgia

di MONS. CLAUDIO GUGEROTTI

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Ai miei tempi ci si divertiva con i puzzle: passavamo ore a comporre le varie tesserine, in maniera da costruire pian piano l’immagine bellissima che stava disegnata sulla scatola. Il segreto consisteva tutto nello scegliere bene, soprattutto agli inizi, gli incastri, in modo da riconoscere, tra mille, la tessera che meglio poteva corrispondere a quella già piazzata sul tavolo. Se si perde la scatola con l’immagine, non si riuscirà mai a terminare il puzzle. Lo stesso accade se si perde anche solo una delle tessere. D’altronde i mosaici non erano che dei puzzle più sofisticati.

Cristo guida all’immagine raffigurata 

Il simbolo è come un puzzle: ogni singolo elemento acquista il suo significato dall’insieme e da ciò che gli sta accanto. Per questo simbolo vuol dire “mettere insieme”. Il singolo pezzo, preso da solo, non significa nulla: prende consistenza e senso solo se fa parte di una figura completa. La liturgia è il tentativo di comporre, con un infinito numero di tessere, il puzzle ridimensionale del volto di Cristo. Essa però ha un potere speciale: Cristo stesso ci guida nella costruzione dell’immagine. Egli è il costruttore e, contemporaneamente, l’immagine raffigurata. E ciascuno di coloro che celebrano il sacramento è il frammento che compone sia il Cristo costruttore, operatore, “offerente”, diremmo, sia il volto del Cristo finale. Ogni simbolo nella liturgia acquista senso “per Cristo, con Cristo e in Cristo”.

La Chiesa (il Christus totus, direbbe Agostino, mentre san Paolo preferisce usare l’immagine delle membra e del capo del corpo) è colei, entro la quale il simbolo prende consistenza. Prima di tutto perché ci ha “trasmesso” i significati, attraverso quella che chiamiamo la “tradizione”. Poi perché ci insegna e ci tramanda come si costruisce il puzzle. Comporlo infatti presuppone che qualcuno abbia già fissato l’immagine da costruire e le regole del gioco. Se ciascuno mettesse a caso la propria  tessera, ne uscirebbe un terribile caos. E non basterebbe dire con orgoglio: “l’ho messo come mi sentivo di metterlo”, per creare armonia. Non è un caso che “diavolo” sia, nel significato della parola, il contrario del simbolo: “dia-ballo”, in greco, significa, dividere. Il divisore è quello che manda in frantumi l’unità del simbolo, che si fonda sulla comunione, cioè, sulla condivisione del dono ricevuto.

Fare «simbolo»

Per questo il simbolo nella liturgia non si inventa mai, si riceve. È vero che l’immagine finale può essere antica o moderna, cambia con i tempi ed esprime ciò che interessa alla sensibilità di chi compra il puzzle da costruire. Però resta il fatto che essa è un’opera comune, si basa sull’accordo cioè di comporre quell’immagine. C’è un sentire condiviso, un sorta di accordo previo e un lavoro di squadra. E poi il simbolo stesso, proprio perché ricevuto, contribuisce a dare alla comunità un linguaggio comune. Agisce quindi nei due sensi.

Ma anche tutta la nostra vita, individuale e personale, è un puzzle. Se una società, una comunità, un agglomerato di persone non possiedono un linguaggio comune (il che non vuol dire omologarsi, ripetendo pedissequamente le stesse cose, però implica un codice condiviso), essa si frantuma e non si comprende più (ecco il “divisore”). Nelle nostre società occidentali sentiamo sempre più la disgregazione che deriva dal non saperci più parlare, dall’aver rinunciato a cercare insieme, a fare “simbolo”. E abbiamo teorizzato tutto questo esaltando il massimo della creatività e libertà individuale. Il risultato è che non ci si capisce più e non si trovano ragioni per un comune impegno, in nome di ideali partecipati, al di là delle differenti individualità, psicologie, idee.

La vita sociale è fatta di infinite liturgie, ognuna con i propri simboli: la spesa, lo stadio, il consulto col mago di turno, la moda, tutto avviene attraverso oggetti e comportamenti che acquistano senso pieno solo ed esclusivamente in quel contesto. Essi possono esistere al di fuori di esso, ma allora sono “simbolo” di un’altra cosa, che a sua volta dipenderà dal contesto in cui si trova. Se a una seduta spiritica il tavolino non comincia a sobbalzare, si dice: non sta funzionando, e si cerca il perché. Se poi uno dei presenti dice: ma io non ho voluto toccare con la mia mano quella del vicino, non è che tutti lo guardano, lodando il suo spirito di iniziativa; semmai lo rimproverano per non aver seguito le regole, cioè per aver distrutto il simbolo.

Forte componente dell’identità

Per i cristiani, il primo simbolo è la comunità stessa che celebra. Vista orizzontalmente, essa si sente unita intorno al simbolo, evocata dal simbolo comune, attraverso una sensibilità che in parte riceve e in parte crea essa stessa. Se la comunità si disperde, cioè, in pratica, se la chiesa rimane vuota, rimane solo l’addetto ai lavori che conosce e condivide i simboli ricevuti, ma non c’è condivisione. Nello stesso tempo una persona si riconosce parte di una comunità perché e nella misura in cui partecipa dei simboli comuni. Noi vediamo una persona recarsi alla moschea e pregarvi e diciamo: è musulmano. Il simbolo dunque è una forte componente dell’identità, sia per chi lo vive, sia per chi lo osserva e lo classifica dall’esterno. Ecco perché chi si definisce “un cristiano senza Chiesa” perde una primaria dimensione simbolica che è parte integrante della propria coscienza di appartenere.

Se chi celebra il simbolo si inventa continuamente quello che a lui pare di dover esprimere, una verità che gli sta a cuore, non c’è più simbolo, perché viene meno il “con” (“syn”, in greco) e il “bolo” (dal greco ballo, che vuol dire “gettare”). Chi getta i dadi da solo, fa la seconda parte di quello che esprime la parola, cioè “getta”, ma non “getta insieme”. Ciò vuol dire che la liturgia presuppone il linguaggio comune ed anche, in buona parte, i modi condivisi di esprimere la vita. Nella liturgia si “celebra”, non si “crea”. Per creare c’è posto altrove. Credere poi di essere i padroni del “simbolo”, cioè gli inventori, significa scambiare la funzione celebrativa con quella didattica. E allora perché usare il simbolo, e non spiegare semplicemente un concetto? Infatti noi abbiamo spesso riempito la liturgia di spiegazioni.

Più si sente la necessità di “commentare”, meno il simbolo parla da solo, in quanto riconosciuto parte comune del linguaggio di tutti. Anche l’omelia non è un discorso come potrebbe essere una lezione o un’arringa: è parte del simbolo e, anziché interromperlo, aiuta ad entrarci  dentro. Altrimenti disturba il simbolo, non lo costruisce. Dire, alla fine dell’omelia, “ed ora torniamo alla nostra preghiera comune” significa svelarsi come coloro che hanno contribuito a distrarre dal simbolo, anziché porsi al servizio di esso, cioè della comunità che lo celebra. Per questo l’omelia è (o, ahimè, dovrebbe essere) mistagogia, cioè una mano offerta dall’interno del simbolo per aiutare ad entrare nel simbolo.

Simbolo: espressione condivisa

Credersi gli artefici, i possessori, gli inventori del simbolo significa creare un nuovo clericalismo: quello di chi “sa” cosa deve trasmettere, il nuovo gnostico: di fronte a lui sta la massa da indottrinare. Ma se così fosse, l’origine del simbolo sarebbe chi aiuta ad evocarlo. E invece è la comunità che pone il simbolo, ed i ministri sono i servitori del simbolo comune. Se dunque la comunità “riceve” il simbolo e lo celebra, la recezione diventerà tanto più facile, quanto più l’oggetto o il gesto che nutre il simbolo è da tutti percepito come parte dell’esperienza comune. Pane, vino, olio, amore sponsale, autorità e servizio, senso del peccato e del perdono - per fare gli esempi costitutivi di quei simboli che chiamiamo “sacramenti” (in realtà “simbolo” è il modo greco, insieme con un’altra parola oggi difficile da comprendere, il “mistero”, di dire quello che in latino si tradurrà con “sacramento”) - dovrebbero essere corposamente parte della vita di ciascuno, per essere massimamente espressivi. 

Se tutti vedono il pane nascere nel campo, diventare spiga, essere mietuto, trasformato in farina, poi in impasto, se tutti lo collegano alla fragranza della cottura, lo sentono morbido, lo vedono spezzare insieme intorno ad una mensa comune, il simbolo del pane riceverà, dal punto di vista umano, la pienezza del suo significato in quanto “simbolo”, cioè espressione condivisa. Allora tutti i significati, appunto, simbolici che ne derivano (il profumo che si diffonde, lo spezzare come sforzo e come condivisione, l’unità rafforzata) verranno evocati naturalmente. 

Nella nostra società dove il pane si incontra sporadicamente, come fratello povero dei grissini e dei cracker, dove un giovane ha raramente osservato un campo di frumento, raramente si alza così presto (forse però rincasa così tardi) da sentire il profumo del forno, quando ognuno a casa mangia per conto proprio e spezza il “suo” pane, il valore evocativo del simbolo diventerà meno immediato e condiviso. Ma non ci si illuda che, spiegandolo, se ne riacquisti il senso. La mente, infatti, è solo una parte dell’esperire la realtà e da sola non basta ad evocarla. La mente suggerisce il cuore che evoca. Lo stesso si può dire, in modo diverso, degli altri simboli.

Una tessera preziosa del Regno

A questa dimensione orizzontale del simbolo, si aggiunge quella verticale: l’azione del soffio, dell’alito, del respiro di Dio, cioè dello Spirito Santo, che “metabolizza”, come dicevano gli antichi, quell’oggetto e quel gesto e vi conferisce “dall’alto” la pienezza spirituale del simbolo: quando il sacerdote, prima di pronunciare con le parole dell’istituzione le stesse parole dette da Gesù sul pane e sul vino, stende le mani, compie un gesto che si chiama “epicletico”: invoca cioè da Dio il dono sempre rinnovato di fare il simbolo “pieno”, capace cioè di offrirci la fragranza, la condivisione, e persino lo stesso corpo e sangue, cioè la persona di Cristo.

Questa parte è, dal punto di vista umano, meno problematica della prima, perché corrisponde alla promessa della fedeltà di Dio, che anche nella goccia di vino e nella briciola di pane che un prete porta nell’incavo della mano, quando celebra di nascosto in un campo di concentramento, garantisce il proprio farsi presente, fino a quando Cristo tornerà e ci inviterà alla pienezza del simbolo che si avrà solo nel “faccia a faccia” del banchetto celeste.

Ci siamo soffermati, dunque sull’aspetto umano del simbolo, con particolare riferimento alla liturgia, perché i problemi nascono non dalla permanente effusione dello Spirito (questo semmai presupporrà il problema del credere o del non credere), ma dalla nostra capacità di essere coloro che sono parte del simbolo, non lo “comprendono” impossessandosene, ma lo accolgono, apportandovi ciascuno la propria individuale sensibilità, ma anche accettando con gratitudine quello che la Chiesa fin dagli inizi ci consegna, come partecipazione al “mistero” di Dio. Ciò ci include nel suo linguaggio e ci chiede di condividerlo (non di inventarlo) ma anche assume ogni volta il nostro linguaggio, in modo che il simbolo non termini nella celebrazione, ma accolga e “metabolizzi” tutta la nostra vita.

Lasciamoci dunque portare dalle ali del simbolo per incontrare Dio, senza volerlo “chiudere” nell’oggetto del simbolo, né pensare anzitutto a “catturarlo” per portarlo alla vita, ma ringraziandolo del suo darsi a noi nel simbolo. È Dio che dolcemente ci cattura nel simbolo e fa della nostra vita una tessera preziosa nel puzzle del suo Regno.

Mons. Claudio Gugerotti
N
unzio Apostolico
nuntius@vatican.ge 

 

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