Ai miei tempi ci si divertiva
con i puzzle: passavamo ore a comporre le varie tesserine, in maniera da
costruire pian piano l’immagine bellissima che stava disegnata sulla
scatola. Il segreto consisteva tutto nello scegliere bene, soprattutto
agli inizi, gli incastri, in modo da riconoscere, tra mille, la tessera
che meglio poteva corrispondere a quella già piazzata sul tavolo. Se si
perde la scatola con l’immagine, non si riuscirà mai a terminare il puzzle. Lo stesso accade se si
perde anche solo una delle tessere. D’altronde i mosaici non erano che
dei puzzle più sofisticati.
Cristo guida all’immagine
raffigurata
Il simbolo è come un puzzle: ogni singolo elemento
acquista il suo significato dall’insieme e da ciò che gli sta
accanto. Per questo simbolo vuol dire “mettere insieme”. Il singolo
pezzo, preso da solo, non significa nulla: prende consistenza e senso
solo se fa parte di una figura completa. La liturgia è il tentativo di
comporre, con un infinito numero di tessere, il puzzle ridimensionale del volto di Cristo. Essa però ha un potere
speciale: Cristo stesso ci guida nella costruzione dell’immagine. Egli
è il costruttore e, contemporaneamente, l’immagine raffigurata. E
ciascuno di coloro che celebrano il sacramento è il frammento che
compone sia il Cristo costruttore, operatore, “offerente”, diremmo,
sia il volto del Cristo finale. Ogni simbolo nella liturgia acquista
senso “per Cristo, con Cristo e in Cristo”.
La Chiesa (il Christus totus, direbbe Agostino,
mentre san Paolo preferisce usare l’immagine delle membra e del capo
del corpo) è colei, entro la quale il simbolo prende consistenza. Prima
di tutto perché ci ha “trasmesso” i significati, attraverso quella
che chiamiamo la “tradizione”. Poi perché ci insegna e ci tramanda
come si costruisce il puzzle. Comporlo infatti
presuppone che qualcuno abbia già fissato l’immagine da costruire e
le regole del gioco. Se ciascuno mettesse a caso la propria
tessera, ne uscirebbe un terribile caos. E non basterebbe dire
con orgoglio: “l’ho messo come mi sentivo di metterlo”, per creare
armonia. Non è un caso che “diavolo” sia, nel significato della
parola, il contrario del simbolo: “dia-ballo”, in greco, significa,
dividere. Il divisore è quello che manda in frantumi l’unità del
simbolo, che si fonda sulla comunione, cioè, sulla condivisione del
dono ricevuto.
Fare «simbolo»
Per questo il simbolo nella
liturgia non si inventa mai, si riceve. È vero che l’immagine finale
può essere antica o moderna, cambia con i tempi ed esprime ciò che
interessa alla sensibilità di chi compra il puzzle da costruire. Però resta il fatto che essa è un’opera comune,
si basa sull’accordo cioè di comporre quell’immagine. C’è un sentire condiviso, un sorta di accordo
previo e un lavoro di squadra. E poi il simbolo stesso, proprio perché
ricevuto, contribuisce a dare alla comunità un linguaggio comune.
Agisce quindi nei due sensi.
Ma anche tutta la nostra
vita, individuale e personale, è un puzzle. Se una società, una comunità, un agglomerato di persone non
possiedono un linguaggio comune (il che non vuol dire omologarsi,
ripetendo pedissequamente le stesse cose, però implica un codice
condiviso), essa si frantuma e non si comprende più (ecco il
“divisore”). Nelle nostre società occidentali sentiamo sempre più
la disgregazione che deriva dal non saperci più parlare, dall’aver
rinunciato a cercare insieme, a fare “simbolo”. E abbiamo teorizzato
tutto questo esaltando il massimo della creatività e libertà
individuale. Il risultato è che non ci si capisce più e non si trovano
ragioni per un comune impegno, in nome di ideali partecipati, al di là
delle differenti individualità, psicologie, idee.
La vita sociale è fatta di
infinite liturgie, ognuna con i propri simboli: la spesa, lo stadio, il
consulto col mago di turno, la moda, tutto avviene attraverso oggetti e
comportamenti che acquistano senso pieno solo ed esclusivamente in quel contesto. Essi possono
esistere al di fuori di esso, ma allora sono “simbolo” di un’altra
cosa, che a sua volta dipenderà dal contesto in cui si trova. Se a una
seduta spiritica il tavolino non comincia a sobbalzare, si dice: non sta
funzionando, e si cerca il perché. Se poi uno dei presenti dice: ma io
non ho voluto toccare con la mia mano quella del vicino, non è che
tutti lo guardano, lodando il suo spirito di iniziativa; semmai lo
rimproverano per non aver seguito le regole, cioè per aver distrutto il
simbolo.
Forte componente
dell’identità
Per i cristiani, il primo
simbolo è la comunità stessa che celebra. Vista orizzontalmente, essa
si sente unita intorno al simbolo, evocata dal simbolo comune,
attraverso una sensibilità che in parte riceve e in parte crea essa
stessa. Se la comunità si disperde, cioè, in pratica, se la chiesa
rimane vuota, rimane solo l’addetto ai lavori che conosce e condivide
i simboli ricevuti, ma non c’è condivisione. Nello stesso tempo una
persona si riconosce parte di una comunità perché e nella misura in
cui partecipa dei simboli comuni. Noi vediamo una persona recarsi alla
moschea e pregarvi e diciamo: è musulmano. Il simbolo dunque è una
forte componente dell’identità, sia per chi lo vive, sia per chi lo
osserva e lo classifica dall’esterno. Ecco perché chi si definisce
“un cristiano senza Chiesa” perde una primaria dimensione simbolica
che è parte integrante della propria coscienza di appartenere.
Se chi celebra il simbolo si
inventa continuamente quello che a lui pare di dover esprimere, una
verità che gli sta a cuore, non c’è più simbolo, perché viene meno
il “con” (“syn”, in greco) e il “bolo” (dal greco ballo, che vuol dire “gettare”). Chi getta i dadi da solo, fa la
seconda parte di quello che esprime la parola, cioè “getta”, ma non
“getta insieme”. Ciò vuol dire che la liturgia presuppone il
linguaggio comune ed anche, in buona parte, i modi condivisi di
esprimere la vita. Nella liturgia si “celebra”, non si “crea”.
Per creare c’è posto altrove. Credere poi di essere i padroni del
“simbolo”, cioè gli inventori, significa scambiare la funzione
celebrativa con quella didattica. E allora perché usare il simbolo, e
non spiegare semplicemente un concetto? Infatti noi abbiamo spesso
riempito la liturgia di spiegazioni.
Più si sente la necessità
di “commentare”, meno il simbolo parla da solo, in quanto
riconosciuto parte comune del linguaggio di tutti. Anche l’omelia non
è un discorso come potrebbe essere una lezione o un’arringa: è parte
del simbolo e, anziché interromperlo, aiuta ad entrarci dentro.
Altrimenti disturba il simbolo, non lo costruisce. Dire, alla fine
dell’omelia, “ed ora torniamo alla nostra preghiera comune”
significa svelarsi come coloro che hanno contribuito a distrarre dal
simbolo, anziché porsi al servizio di esso, cioè della comunità che
lo celebra. Per questo l’omelia è (o, ahimè, dovrebbe essere)
mistagogia, cioè una mano offerta dall’interno del simbolo per
aiutare ad entrare nel simbolo.
Simbolo: espressione
condivisa
Credersi gli artefici, i
possessori, gli inventori del simbolo significa creare un nuovo
clericalismo: quello di chi “sa” cosa deve trasmettere, il nuovo
gnostico: di fronte a lui sta la massa da indottrinare. Ma se così
fosse, l’origine del simbolo sarebbe chi aiuta ad evocarlo. E invece
è la comunità che pone il simbolo, ed i ministri sono i servitori del
simbolo comune. Se dunque la comunità “riceve” il simbolo e lo
celebra, la recezione diventerà tanto più facile, quanto più
l’oggetto o il gesto che nutre il simbolo è da tutti percepito come
parte dell’esperienza comune. Pane, vino, olio, amore sponsale,
autorità e servizio, senso del peccato e del perdono - per fare gli
esempi costitutivi di quei simboli che chiamiamo “sacramenti” (in
realtà “simbolo” è il modo greco, insieme con un’altra parola
oggi difficile da comprendere, il “mistero”, di dire quello che in
latino si tradurrà con “sacramento”) - dovrebbero essere
corposamente parte della vita di ciascuno, per essere massimamente espressivi.
Se tutti vedono il pane
nascere nel campo, diventare spiga, essere mietuto, trasformato in
farina, poi in impasto, se tutti lo collegano alla fragranza della
cottura, lo sentono morbido, lo vedono spezzare insieme intorno ad una
mensa comune, il simbolo del pane riceverà, dal punto di vista umano,
la pienezza del suo significato in quanto “simbolo”, cioè
espressione condivisa. Allora tutti i significati, appunto, simbolici
che ne derivano (il profumo che si diffonde, lo spezzare come sforzo e
come condivisione, l’unità rafforzata) verranno evocati
naturalmente.
Nella nostra società dove
il pane si incontra sporadicamente, come fratello povero dei grissini e
dei cracker, dove un giovane ha
raramente osservato un campo di frumento, raramente si alza così presto
(forse però rincasa così tardi) da sentire il profumo del forno,
quando ognuno a casa mangia per conto proprio e spezza il “suo”
pane, il valore evocativo del simbolo diventerà meno immediato e
condiviso. Ma non ci si illuda che, spiegandolo, se ne riacquisti il
senso. La mente, infatti, è solo una parte dell’esperire la realtà e
da sola non basta ad evocarla. La mente suggerisce il cuore che evoca.
Lo stesso si può dire, in modo diverso, degli altri simboli.
Una tessera preziosa del
Regno
A questa dimensione
orizzontale del simbolo, si aggiunge quella verticale: l’azione del
soffio, dell’alito, del respiro di Dio, cioè dello Spirito Santo, che
“metabolizza”, come dicevano gli antichi, quell’oggetto e quel
gesto e vi conferisce “dall’alto” la pienezza spirituale del
simbolo: quando il sacerdote, prima di pronunciare con le parole
dell’istituzione le stesse parole dette da Gesù sul pane e sul vino,
stende le mani, compie un gesto che si chiama “epicletico”: invoca
cioè da Dio il dono sempre rinnovato di fare il simbolo “pieno”,
capace cioè di offrirci la fragranza, la condivisione, e persino lo
stesso corpo e sangue, cioè la persona di Cristo.
Questa parte è, dal punto
di vista umano, meno problematica della prima, perché corrisponde alla
promessa della fedeltà di Dio, che anche nella goccia di vino e nella
briciola di pane che un prete porta nell’incavo della mano, quando
celebra di nascosto in un campo di concentramento, garantisce il proprio
farsi presente, fino a quando Cristo tornerà e ci inviterà alla
pienezza del simbolo che si avrà solo nel “faccia a faccia” del
banchetto celeste.
Ci siamo soffermati, dunque
sull’aspetto umano del simbolo, con particolare riferimento alla
liturgia, perché i problemi nascono non dalla permanente effusione
dello Spirito (questo semmai presupporrà il problema del credere o del
non credere), ma dalla nostra capacità di essere coloro che sono parte
del simbolo, non lo “comprendono” impossessandosene, ma lo
accolgono, apportandovi ciascuno la propria individuale sensibilità, ma
anche accettando con gratitudine quello che la Chiesa fin dagli inizi ci consegna, come partecipazione al “mistero”
di Dio. Ciò ci include nel suo linguaggio e ci chiede di condividerlo
(non di inventarlo) ma anche assume ogni volta il nostro linguaggio, in
modo che il simbolo non termini nella celebrazione, ma accolga e
“metabolizzi” tutta la nostra vita.
Lasciamoci dunque portare
dalle ali del simbolo per incontrare Dio, senza volerlo “chiudere”
nell’oggetto del simbolo, né pensare anzitutto a “catturarlo” per
portarlo alla vita, ma ringraziandolo del suo darsi a noi nel simbolo.
È Dio che dolcemente ci cattura nel simbolo e fa della nostra vita una
tessera preziosa nel puzzle del suo Regno.
Mons. Claudio Gugerotti
Nunzio Apostolico
nuntius@vatican.ge