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n. 2 del 2003

 

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Giovani e consacrate: un dono reciproco
di Paolo Giulietti
 

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 1. Nell’orizzonte degli orientamenti pastorali

Gli Orientamenti Pastorali sono l’orizzonte in cui si situa questa relazione. Il secondo capitolo degli OP (dedicato alle indicazioni pastorali) è articolato in due grandi sezioni: quella relativa al livello di azione della comunità eucaristica (nn. 47-54) e quella relativa al livello di azione per tutti i battezzati (nn. 56-81). All’interno della prima sezione, il n. 51 parla esplicitamente del rapporto tra Chiesa e mondo giovanile.

Ho scelto di trattare il tema ispirandomi appunto al n. 51, pur sapendo che non si può restringere ad esso il significato del documento in relazione ai giovani, giacché si potrebbe parlare di tante altre questoni.

  

2. I bisogni dei giovani, talento della Chiesa

 I giovani sono il talento della Chiesa; l’affermazione è del n. 51 di OP, che la riprende da NMI 45. L’uso del termine richiama la parabola evangelica, in cui l’accento è posto sul compito rischioso, ma doveroso, di trafficare e far fruttare il denaro lasciato dal padrone ai suoi servi. Personalmente, all’espressione «talento» preferisco la parola «risorsa», usata al Convegno di Palermo e spesso contrapposta a «problema». Infatti, mentre «talento» dà l’idea di un oggetto che rimane comunque passivo, «risorsa» evoca l’immagine di una reale soggettività e, quindi, suggerisce che la relazione si imposta in termini di vera reciprocità. Dico questo perché sono convinto - in parte anche per esperienza - che la vicinanza con i giovani non produce esiti solo nei loro confronti, ma stimola il rinnovamento di tutta la comunità cristiana.

Parlando dei bisogni dei giovani non voglio quindi avvallare l’idea che il problema sia fornire servizi, sia pure spirituali e qualificati; il problema è sempre quello di aprire relazioni autentiche, che vengano incontro ai bisogni in un contesto di vera reciprocità. Potremmo dire, cioè, che i giovani hanno bisogni cui la comunità cristiana - e per noi oggi le religiose - possono rispondere; ma anche la Chiesa ha bisogno dei giovani! Nel trattare, quindi, dei bisogni dei giovani, cercherò di mostrare in che modo la risposta ad essi, nel contesto di una rapporto autentico, provoca la crescita della comunità.

Detto questo, mi sembra che il n. 51 chiami in causa tre particolari bisogni, e ne evochi un quarto, trasversale agli altri, ma non meno importante:

  • il bisogno di senso

  • il bisogno di accompagnamento

  • il bisogno di orientamento

  • il bisogno di essere protagonisti.

 

2.1. Il bisogno di senso

 Il n. 51 sottolinea una rinnovata disponibilità dei giovani all’accoglienza del Vangelo (disponibilità testimoniata anche dall’evento della GMG). Tale disponibilità è più volte menzionata anche in NMI (nn. 9 e 45). Nei numeri dedicati al «discernimento», OP parla di una rinnovata ricerca di senso e anelito alla trascendenza, come di uno dei fenomeni culturali che manifestano in questo nostro tempo l’apertura alla comunicazione del Vangelo. È chiaro che il mondo giovanile vive un po’ tutti i fenomeni contemporanei a un livello di maggiore intensità rispetto alle generazioni di adulti.

In cosa consiste il bisogno di senso? In OP 37 se ne parla in questi termini: il desiderio di riconoscere di essere preceduti da una storia, […] essere capaci di perseverare nelle inevitabili oscurità della vita, […] riconoscere lo spessore della realtà che ci circonda, nonché della verità ultima che costituisce anche l’orizzonte verso il quale siamo tutti incamminati. Il bisogno di senso esprime - in breve - il desiderio di decifrare e dare sapore alla vita in ogni suo frammento, senza lasciare inquietanti parentesi irrisolte.

 

2.2. Il bisogno di accompagnamento

 Traduco così la sottolineatura degli OP sulla necessità di aiutare i giovani a saper assumere tutte le responsabilità della vita umana, a partire dalla vita quotidiana. L’accento posto sulla vita quotidiana va preso sul serio; tra le righe di questa seconda parte del n. 51 si legge infatti una constatazione preoccupata: i percorsi formativi non riescono a incidere sui comportamenti quotidiani, rimangono quasi un compartimento stagno, un frammento tra gli altri frammenti della vita. E questo non basta: per quanto «forti» siano le esperienze di fede che un giovane possa fare, è sul terreno della vita di ogni giorno che si gioca la sua identità cristiana. La cosa è chiaramente percepita da molti ragazzi, che si trovano però di fronte non solo alla difficoltà oggettiva di una vita cristiana coerente negli ambienti della quotidianità, ma anche a una altrettanto oggettiva povertà di strumenti interpretativi e operativi.

In effetti, i percorsi formativi soffrono di due malattie gravi:

  sono sostanzialmente limitati agli spazi di Chiesa: le realtà cosiddette «di ambiente», che cioè operano sostanzialmente nei luoghi della vita quotidiana, sono nella maggior parte in crisi; di conseguenza, la maggior parte dei giovani cristiani si forma in spazi ecclesiali. Ciò indubbiamente porta con sé dei limiti in ordine alla incarnazione nel vissuto;

  ma questo sarebbe anche un problema superabile, se non fosse vero un secondo limite: nella formazione i problemi del vissuto non entrano quasi per nulla. Non si parla in modo serio di scuola, di università, di lavoro… Non si elaborano indicazioni e non si offre adeguato sostegno per praticarle…

 Ai giovani viene a mancare in primo luogo questo sostegno formativo, senza il quale il loro protagonismo stenta a svilupparsi. Infatti, in mancanza di percorsi praticabili e sostenibili, i giovani, anziché contestare con violenza, preferiscono ritirarsi in buon ordine.

Oltre al bisogno di formazione, i giovani esprimono anche la necessità di un accompagnamento individualizzato, per poter individuare e sostenere le scelte cristiane nel quotidiano. Il bisogno di accompagnamento è proprio questa esigenza di un sostegno adulto (e adulto nella fede) per discernere e praticare il bene nella vita di ogni giorno.

 

2.3. Il bisogno di orientamento

 Anche qui la mia formulazione traduce l’attenzione vocazionale con cui si chiude il n. 51. Mi sembra che la prospettiva sia interessante. Si suggerisce - in sintesi - che tutta la vita del giovane ha una innata dimensione vocazionale. In effetti la giovinezza è il tempo in cui maturano e si rendono possibili le scelte di vita collegate al lavoro, alla dimensione affettiva, al ruolo sociale…

Non possiamo nasconderci che essere giovani oggi è particolarmente complesso, proprio nel senso che esercitare delle scelte significa confrontarsi con una moltitudine di possibilità non esistenti in passato (si pensi alla scelta dell’università, all’indeterminatezza dei percorsi lavorativi…). Per di più l’esito delle proprie scelte non pare garantire lo stesso inserimento nel mondo adulto possibile in passato. Da qui (da cause - cioè - sia strutturali che culturali), il senso della incertezza, della reversibilità, dello smarrimento; tutto ciò produce un’angoscia spesso sottile, a volte patente, magari attraverso comportamenti devianti o fortemente rischiosi.

In tale situazione  il mondo giovanile vive un forte bisogno di orientamento:

  • orientamento alla scelta scolastica

  • orientamento alla scelta lavorativa

  • orientamento alla scelta dello stato di vita

  • orientamento nei cammini di preparazione al matrimonio…

 

Qui per orientamento si intende il sostegno alla scelta (che comprende la conoscenza di sé, la verifica delle motivazioni, l’intuizione degli esiti nel quadro del proprio progetto di vita, l’accompagnamento nel percorso di realizzazione…).

E’ giusto, tra l’altro, notare, che a ciascuna di queste scelte corrisponde un periodo «sensibile» della vita del giovane. Infatti ogni decisione importante implica la necessità (o quanto meno l’opportunità) di rimettere in discussione l’equilibrio dei valori, la qualità delle relazioni, i progetti di vita… e ciò può generare esiti negativi (appiattimento di ogni ideale) oppure positivi. Un vero orientamento ha necessità di guardare alla scelta in prospettiva autenticamente vocazionale, cioè come a qualcosa che chiama in causa l’interezza del progetto di vita di una persona (o di una coppia), anche mentre affronta una questione apparentemente settoriale.

 

2.4. Il bisogno di essere protagonisti

 Tale bisogno rimane abbastanza inespresso nel testo che stiamo analizzando. Esso è tuttavia implicito nel concetto stesso di risorsa (o talento): si tratta del desiderio di essere protagonisti della propria esistenza. Questo bisogno mi sembra trasversale agli altri tre: chiede, cioè, che la soluzione alle necessità di cui sopra non vada cercata in proposte preconfezionate e paternaliste, ma in un processo di autentico dialogo e reciprocità. Forse oggi non è più il tempo dei violenti conflitti generazionali e delle contestazioni eclatanti, ma i giovani sanno comunque sottrarsi con la «ritirata in buon ordine» e l’indifferenza alle situazioni che li relegano nella passività. Non è un caso che il recente libro bianco europeo intitolato Un nuovo impulso per la gioventù europea si ponga proprio l’obiettivo di stimolare e favorire il protagonismo dei giovani nella UE.

Questo bisogno ci chiede un’attenzione: quella di garantire che ogni risposta ai bisogni dei giovani li renda protagonisti delle soluzioni adottate. Questo, del resto, si sposa assai bene con l’idea, espressa in apertura, dell’importanza di porre relazioni autenticamente reciproche tra Chiesa (religiose) e mondo giovanile.

 

 3. Le religiose e i bisogni dei giovani

 In OP si parla della vita religiosa in posizione abbastanza defilata (62), anche se molto importante per quanto riguarda il contenuto: si tratta infatti del ruolo profetico di testimonianza della carità. E’ chiaro però che molte indicazioni presenti altrove possono essere applicate, mutatis mutandis, alla realtà della vita religiosa femminile. Sono opportune alcune attenzioni perché la vita religiosa femminile possa essere, ed essere percepita, come risposta ai bisogni dei giovani. Lo sforzo di incrociare la realtà giovanile e il contatto autentico con essa può portare elementi positivi nell’esperienza delle persone e delle comunità consacrate.

 

 3.1. Rispondere al bisogno di senso

 La prima risposta che le religiose possono fornire al mondo giovanile è quella relativa alla ricerca di senso. A questo proposito vorrei richiamare la questione dei «laboratori della fede». Da Tor Vergata in poi sono croce e delizia della pastorale giovanile. Tutti ne parlano, molti li fanno, ma spesso sono riedizioni, con nuova etichetta, delle medesime iniziative. Invece si tratta di pensare qualcosa di veramente nuovo. Occorre creare spazi in cui si aiutino i giovani a capire le domande che nascono dalla vita e a metterle in dialogo con il Vangelo, ma con un Vangelo in tutta la forza della sua radicalità.

A partire dai discorsi del Papa potremmo definire così i laboratori della fede:

  Sono luoghi di ricerca, in cui fare domande, senza dare nulla per scontato, esprimendo dubbi, emozioni, esperienze. La natura di «laboratorio» sta proprio in questo lavoro di analisi e di approfondimento del vissuto, e delle conseguenze sul piano della fede, della religione, della Chiesa. Servono persone che abbiano sperimentato la tentazione dell’incredulità e possano quindi aiutare gli altri a superarla, in direzione di una autentica fede in Gesù Cristo.

  Sono luoghi in cui è possibile il confronto e l’incontro serio con Cristo e il Vangelo, attraverso lo studio, il silenzio, il confronto, la preghiera o il dialogo con una guida. Ciò esige una comunità credente con cui confrontarsi, amici e persone che hanno risposto positivamente alla chiamata di Dio alla fede. Qui si può essere posti con serietà davanti al nucleo fondamentale della fede, al suo centro, alla radicalità del Vangelo, lasciando da parte le cose secondarie; chiarendo quali sono gli elementi fondamentali e quali sono i comportamenti che li traducono nella concretezza.

  Sono luoghi in cui matura l’adesione, anche sofferta, ma decisa e felice, la confessione adorante, l’incontro entusiasta, il ritorno dopo la fuga, il pentimento e l’invocazione accorata. E’ il momento del «Mio Signore e mio Dio», dell’affidamento, della preghiera, della celebrazione della vita sacramentale, dell’accostamento ai tesori della Chiesa, ma in termini rinnovati, incarnati, capaci cioè di portarsi dentro la vita, illuminata dalla fede.

 Un servizio importante per le comunità di vita consacrata è proprio quello di presentarsi ed essere «laboratori della fede». Questo significa ricentrare più in profondità le proposte per i giovani sull’effettivo essere laboratorio, ricerca, sfida, lotta, nuova attrezzatura, nuovo coinvolgimento della vita quotidiana. La vita religiosa, da questo punto di vista, ha molto da offrire, perché la radicalità dei consigli evangelici, incarnata nel carisma del singolo istituto, può consentire un confronto a tutto campo; la struttura comunitaria può offrire un contesto che interpella e accompagna; la spiritualità di ciascuna esperienza può offrire un percorso di interiorità e di preghiera strutturato e flessibile al tempo stesso. Tutto ciò chiede il coraggio di battere strade nuove, che consentano un incontro con quei giovani che si interrogano sul senso della loro esistenza, a partire dalla propria quotidianità. 

 Questo confronto col mondo giovanile attorno alla domanda di senso e alla ricerca della fede è estremamente fecondo.  Obbliga a rimettere al centro l’essenziale, a riaprire con il Vangelo una partita che spesso tendiamo a ritenere risolta solo perché siamo inseriti in strutture definite dalla tradizione. L’esigenza di proporre il Cristo nella sua radicale novità ci rende più nuovi. I giovani sono esigenti: aprendoci a loro ci scopriamo migliorati; annunciando loro la fede ne riscopriamo la freschezza; cercando con loro il volto di Cristo ne contempliamo aspetti sempre nuovi.

 

3.2. Rispondere al bisogno di accompagnamento

 Per quanto riguarda il bisogno di accompagnamento, il mondo degli istituti femminili costituisce una grande risorsa. Innanzitutto per la diffusione capillare sul territorio, ma soprattutto negli ambienti. A differenza di quanto accade per molte pastorali diocesane, le religiose sono presenti in moltissimi ambienti della vita quotidiana dei giovani. I vostri carismi vi portano nelle scuole, nelle carceri, sui luoghi di lavoro, negli ospedali, in televisione… Oltre che nelle diverse articolazioni della vita pastorale parrocchiale e associativa, le religiose hanno l’opportuità di vivere molte altre occasioni di contatto con il mondo giovanile, sia come singole che come comunità.

Un primo, fondamentale servizio è quello della testimonianza che può nascere nella condivisione di vita. Stare con i giovani può anche essere sufficiente, se in questa compagnia la vostra stessa vita, il modo di affrontare il quotidiano, riesce a essere eloquente. Proprio il Concilio indica «nella professione dei consigli evangelici […] un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana» (LG 44), soprattutto nell’aiutare a vivere nella vita di tutti i giorni senza perdere di vista la sua dimensione trascendente. Che è poi - lo abbiamo detto - il più comune terreno di naufragio dei giovani: lasciarsi assorbire dal mondo e accantonare nell’utopistico i desideri e gli ideali grandi che portano dentro. Incarnare le grandi scelte cristiane, in modo visibile e feriale, in comportamenti, atteggiamenti… è un grande aiuto per i giovani. Povertà, castità, obbedienza, sono, da questo punto di vista, enormi risorse, perché consentono di operare scelte davvero profetiche e coerenti, in grado di illuminare tutto il popolo di Dio. Però queste scelte bisogna farle! Un solo esempio (che rimanga tale, perché è proprio limitato): diciamo ai giovani che, nel contesto della globalizzazione e dei suoi limiti, occorre rinnovare gli stili di vita e di consumo, etc. Ora, il limite di queste proposte è che, senza qualcuno che le incarni felicemente, rimangono un po’ moralistiche. Se c’è però qualche persona o comunità che le rende visibili e attraenti, i giovani ci si buttano a pesce! E la vita religiosa ha tutte le potenzialità per svolgere questo ruolo di testimonianza nei confronti del mondo giovanile. Bisogna però puntarci e rendersi visibili. Bisogna soprattutto pensare a modalità di condivisione di vita con i giovani, a comunità più aperte.

Un secondo servizio è quello dell’ascolto: una recente indagine condotta da un istituto di Milano su un campione di oltre 1000 adolescenti (a base nazionale) ha rivelato che, in presenza di un problema, solo il 3% si rivolge a una figura religiosa, mentre ben il 16% se ne va su internet; ma i giovani, accanto al grande bisogno di essere ascoltati, fanno una sostanziale indistinzione tra la figura del prete e quella dello psicologo.

Questi dati (insieme, beninteso ad altri, anche di esperienza comune), offrono due indicazioni da non prendere alla leggera:

  è necessario fornire ai giovani un servizio di ascolto; ma un ascolto (sono le parole di Mario Pollo che commenta la seconda indagine) capace di aiutare i giovani a costruire la propria personalità all’interno di una esperienza di fede;

  è necessario inventare nuove forme di ascolto, capaci di intercettare i giovani là dove essi sono davvero disposti a comunicare.

 Le religiose sono - o devono essere - in grado di rispondere a entrambe le sfide. Il ministero dell’ascolto diventa sempre più gravoso per parroci e preti in genere, spesso in difficoltà ad assicurare quello sacramentale della Confessione. In una situazione in cui i giovani chiedono tempo, di tempo ce n’è sempre di meno. Eppure il «perdere tempo» con loro viene riconosciuto come un grande segno di attenzione e di amore. Avere del tempo da «perdere» è una risorsa preziosa. E lo è soprattutto se - e questa è la sfida - l’ascolto sa aiutare a leggere la propria esistenza nella prospettiva della fede.

Ma questa disponibilità ad ascoltare deve coniugarsi con lo sforzo di trovare nuovi canali di comunicazione: il problema, infatti, è incontrare i giovani da ascoltare quando e come serve a loro. Anche in questo caso credo che le persone consacrate abbiano una grande capacità di sperimentare modelli nuovi. In fin dei conti ogni congregazione nasce come un «esperimento», e la natura «inventiva» non dovrebbe mai abbandonare una famiglia religiosa. In questo le nostre sorelle claustrali ci sono di esempio. Nel sito giovani.org la rubrica «grata elettronica» è tenuta da suor Nella Letizia, della comunità delle Clarisse di Rimini, che ha coinvolto un po’ tutto il monastero in questi colloqui via e-mail e nei colloqui che da questi nascono, appunto, alla grata. Si moltiplicano i vari «telefoni amici» a servizio degli adolescenti e dei giovani. E non sono i soli: la fantasia di qualche religioso/a ha concretizzato in maniera nuova la disponibilità di ascoltare i giovani. Certo, un conto è l’ascolto occasionale di uno sfogo e di un problema, un conto è l’accompagnamento. E questo è vero; però le relazioni «stabili» (di direzione spirituale) difficilmente nascono tali: hanno bisogno di crescere partendo, appunto, dall’occasionalità. Così da un colloquio in una «spiritual room» di discoteca o in una chat, può nascere un rapporto profondo, che risulta di grande aiuto per la vita di un giovane o di una giovane.

 In tutto questo, sia sul versante della testimonianza che su quello dell’ascolto, il mondo giovanile può essere una risorsa per le religiose: la questione cruciale della vita quotidiana e della condivisione di vita con i giovani dovrebbe obbligare le suore a restare sempre sulla breccia del carisma originario. In fin dei conti la maggior parte degli Istituti di vita attiva sono nati attorno all’idea di una condivisione della vita quotidiana dei poveri, là dove, cioè, c’è bisogno di sostenere una qualità di vita migliore. Oggi la sfida di offrire al mondo giovanile la possibilità di condividere un’esperienza di vita significativa (per loro!) è di grande stimolo a ridefinire modalità date a volte per scontate, che magari erano eloquenti cento anni fa, ma che oggi non sono più attuali.

Anche l’impegno dell’ascolto può essere utile alle religiose stesse, non solo perché stimola la fantasia pastorale, ma perché è capace di aprire prospettive nuove. Ogni volta, infatti, che si ascolta qualcuno, si acquista un nuovo punto di vista sul mondo. Se si moltiplicano queste esperienze per molti giovani e per una comunità che ascolta, si percepisce che dal dialogo possono nascere davvero molte cose nuove. Un passo della regola di San Benedetto viene anche dal Papa in NMI 45:

 «Capitolo III - La consultazione della comunità

Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto.

Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno.

Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore».

 In sintesi, l’ascolto implica sempre una certa reciprocità; l’ascolto che si fa come servizio ai giovani può diventare davvero risorsa, anche in quanto hanno da dire, magari tra le righe, al nostro essere Chiesa (e comunità religiosa).

 

3.3. Rispondere al bisogno di orientamento: la consulenza vocazionale

 Rispondere al bisogno di orientamento significa fare un lavoro «vocazionale». L’espressione va intesa in senso lato: si tratta di aiutare ogni giovane a collocare le sue scelte importanti dentro un progetto in cui Dio è parte in causa. Ci sono molti sportelli informativi, ma nessun livello di informazione, per quanto alto e sofisticato sia, basta a giustificare una scelta, a renderla un atto pienamente umano e sensato. Per le religiose, invece, la cosa dovrebbe essere molto chiara: aiutare un giovane a scegliere significa introdurre nel processo decisionale i riferimenti al senso di ogni decisione di vita, che è la propria felicità. Di questo aiuto i giovani hanno estrema necessità, perché oggigiorno la tentazione delle scorciatoie, che sono però mortificanti e avvilenti, è molto forte. Il senso di incertezza che caratterizza l’universo giovanile rende plausibile il compromesso, le mezze misure, l’accontentarsi… Ma nessuna scelta compiuta in base a questi criteri può risultare veramente realizzante. Diceva parecchi anni fa Giovanni Paolo II che la vita è la realizzazione del sogno della giovinezza. Ma se la giovinezza smette di essere terra di sogni, per essere solo terra di adeguamento all’andazzo, che ne sarà della vita?

 

Questo servizio vocazionale ai giovani è molto utile per allargare gli orizzonti. Spesso la pastorale vocazionale diventa reclutamento, e non esprime più quell’amore alla vita di ogni giovane che ne è invece la radice più autentica. La necessità di offrire aiuto disinteressato aiuta probabilmente a scoprire il senso più autentico di una proposta vocazionale, che è per la felicità piena di una persona. Aiuta anche a capire che la pastorale è vocazionale solo se è pastorale, cioè se si prende in carico tutta la vita di un giovane. Ci possono essere dei momenti in cui il confronto con una chiamata alla speciale consacrazione si rende necessario; ma non possiamo limitarci a seguire quella domanda lì. Non è un caso se certe proposte vocazionali vengono guardate un po' con sospetto; al di là di una certa ritrosia a porsi anche solo il problema, c’è però il sospetto (a volte fondato!) che ciò che interessa è la perpetuazione della specie, e non la vita delle persone.

 

4. Conclusione

 Tutto questo discorso deve essere collocato nell’alveo della comunità cristiana, della Chiesa locale. C’è infatti un rischio in ogni tipo di relazione: quello di chiudersi e ritenersi conclusa in sé. Questo è vero anche per le relazioni spirituali ed educative. Ma nella società e nella cultura di oggi questo è estremamente rischioso, perché i giovani hanno la tendenza a vivere «per frammenti», a costruirsi un mondo in cui convivono elementi anche molto diversi, tutti vissuti con intensità, tutti capaci di fornire significati, però non comunicanti tra loro. Ecco allora la necessità della connessione; ogni soggetto educativo, mettendosi in relazione con altri, che toccano diverse dimensioni della vita del giovane, diventa capace di servire all’integrazione, e non alla frammentazione.

Un «laboratorio della fede» che viva isolato dal contesto ecclesiale rischia di suscitare una fede individualista e chiusa alla missione.

Una testimonianza che risulti episodio isolato rischia di indurre atteggiamenti elitari e di giudizio nei confronti del popolo di Dio.

Un ascolto condotto da persone che non chiedono e non danno ascolto alla comunità cristiana rischia di tarpare le ali alle intuizioni migliori.

Un servizio di orientamento che non abbia un orizzonte ecclesiale rischia di suggerire percorsi vocazionali inadeguati alle autentiche necessità e capacità dei giovani.

In  sintesi: dato che nessun  carisma esaurisce la ricchezza dell’essere Chiesa, ma ne esprime (magari in maniera eccelsa) una dimensione, assicurare la connessione ecclesiale è necessario per offrire davvero un aiuto significativo al mondo giovanile e per accogliere in modo efficace l’aiuto che i giovani possono dare a noi.

  

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