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A. Il tempo dell’adulto
maturo:
la stagione della fecondità e dell’interiorizzazione
Con il tempo della vita adulta, quella delle scelte definitive compiute,
la vita stessa sembra veramente stabilizzarsi: l’adulto ha una propria
famiglia, dei figli, una professione, delle responsabilità sociali.
Oppure ha compiuto la sua scelta vocazionale, impegnandosi totalmente
per Dio e per gli altri, con passione e intensità.
Dall’idealismo della fase precedente e del tempo giovanile egli passa al
realismo delle sue valutazioni. Si accorge che il tempo della giovinezza
è passato, che la vita sta scorrendo veloce e che il tempo che gli sta
dietro è forse maggiore di quello che ancora gli resta dinanzi.
Egli ha acquisito esperienza, competenza e consapevolezza delle proprie
forze; in lui si è fatta strada la preoccupazione per qualcun altro di
cui prendersi cura: vuole essere responsabile di qualcuno e desidera che
si provi bisogno di lui. Tuttavia, questo movimento dinamico verso
l’esterno, ha un suo equivalente nel bisogno di ritrovare spazi, tempi e
modi di interiorità. E’ un’esigenza di concentrarsi sui bisogni
personali, di sottoporre a verifica gli impegni e di rivalutare i valori
scelti come perno della propria vita. In lui coesistono due tendenze:
la spinta al ristagno e a chiudersi nel proprio mondo
«acquisito» e la sfida verso una nuova «fecondità».
Erikson definisce questa «sollecitudine per l’altro» … generatività o
fecondità! E’ una preoccupazione per quanto egli ha prodotto o generato.
E’ una attenzione che deve coniugarsi con il distacco, per permettere,
ad esempio ai figli, di camminare per la propria via, di sentirsi
incoraggiati in questo cammino, di dare loro fiducia perché i loro
progetti crescano e maturino al di fuori delle proprie pretese di
possessività e realizzazione; la persona generativa e feconda è capace
di rinunciare al controllo, spesso manipolatore, esercitato anche
inconsciamente nel passato…
L’adulto maturo è anche portato a tornare dentro se stesso, a vivere la
via del «ritorno», che il Talmud ebraico chiamano la «Teshuvàh», la via
dell’interiorità: per fare un bilancio, per riequilibrare le proprie
energie e forse anche per spostare le proprie prospettive. Questa può
essere una fase di crisi matrimoniali, di divorzi, di nuovi matrimoni e
anche di crisi per chi si è impegnato nella vita religiosa o
sacerdotale. In essa sono possibili tre vie di fuga:
-
nel divertimento;
-
nell’attivismo frenetico e senza
pausa;
-
o nella depressione; e quest’ultima
sta diventando, purtroppo, una via di fuga sempre più seguita…
L’esito positivo della «Teshuvàh» è il raggiungimento di un maggiore
livello di interiorità, cioè di capacità di recuperare l’unità di se
stessi, con un senso di equilibrio e nuova consapevolezza delle scelte
fatte.
Anche in questa fase di vita si aprono delle interessanti prospettive di
esperienza religiosa.
All’interno di una comunità è importante che un adulto acceda a delle
concrete responsabilità, senza che queste siano riservate solo alla
gerarchia, affidando agli adulti stessi soli compiti esecutivi. Questo
blocca la crescita di una esperienza religiosa e di una fede adulta e
allontana dalla comunità gli adulti stessi.
E’ un tempo in cui offrire delle opportunità per favorire una nuova
riconsiderazione della propria fede, in sintonia con il bisogno di
interiorità e in termini di vera riconciliazione. E’ un investimento in
tempi e persone, per aiutare gli adulti a riformulare il proprio
messaggio religioso.
Due categorie specifiche della vita cristiana possono aiutare questa
riformulazione: esse sono la Diaconia e il Mistero.
a. Diaconia: è una categoria tipicamente evangelica e ha in Gesù
stesso (Gv 13) il suo punto esplicito di riferimento. E’ la dimensione
del potere che si fa servizio e della responsabilità che diviene
sollecitudine.
b. Mistero: in questa fase della vita l’adulto sperimenta tutte
le sue possibilità, ma anche tutti i suoi limiti; la realtà è più grande
di quella che egli riesce a concepire e a controllare. E’ la stagione
opportuna per passare da una fede di tipo razionalistico a una fede che
sa integrare il limite, la complessità, la contraddizione e il mistero.
Una fede fatta di interiorizzazione, che porta alla riconciliazione con
il reale, che si rivela lontano dall’ideale intravisto e sognato1.
B. Diventare madre
nello Spirito…2
C’è un racconto orientale che narra di un giovane che esce da casa per
andare in giro, conoscere il mondo e capire la vita. Dopo anni ritorna a
casa e al padre che gli chiede che cosa ha imparato risponde: «Ho
scoperto che Dio è mio padre». Al che il padre commenta: «Non c’era
bisogno di perderci tanto tempo e fatica. Lo sappiamo che tutti siamo
figli di Dio». E il figlio incalza: «Una cosa è saperlo, altra cosa è
scoprirlo». Una cosa, potremmo dire, è sapere per sentito
dire, un’altra è sapere per scoperta. Giobbe dirà: «Io ti conoscevo
per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). E il saggio
Confucio commenta: «Io sento e dimentico, vedo e ricordo, faccio e
capisco».
Questo suona come invito a non darci subito delle risposte, a non
chiudere la nostra ricerca, ma abituarci a masticare, per assimilare e
non scadere in frasi fatte o in un parlare vuoto e senza senso.
Attraverso il gioco dei contrasti di ombre e di luci, tipico ad esempio
dei quadri di Rembrandt Van Ryn o del Caravaggio o del Giorgione, vorrei
qui presentare la figura del padre e della madre. Dico chi non è vero
padre e madre, per poi proporre alcuni brani di una pagina
evangelica a tutti noi nota: la parabola del padre misericordioso.
1. Non è vera madre chi crea dipendenza. Il dipendere del figlio
o il dipendere dal figlio, è non offrire all’altro uno spazio in cui si
è se stessi nella libertà.
Ognuno di noi desidera essere utile a qualcosa e più ancora a qualcuno.
In realtà, viviamo per spendere bene la nostra vita. Ma quando questo
bisogno supera certi limiti e diventa molto forte, si può correre il
rischio, anche con le intenzioni e le motivazioni più spirituali, di
creare disfunzioni e manipolazioni nei rapporti con l’altro. E gli
esempi non mancano. Esempi eclatanti sono quelli di colui che si prende
cura dell’altro, ma lo fa in modo che resti alle sue dipendenze,
privandolo della possibilità di maturare e di fare delle scelte
responsabili; di colui che vede più richieste di quelle che l’altro
manifesta subissandolo di domande, di consigli, di esortazioni; di colui
che si preoccupa in modo eccessivo della felice soluzione di una
situazione; o di colui che si deprime quando non può essere utile come
vorrebbe o quando deve prendere coscienza, per necessità di cose, della
propria impotenza ad aiutare.
In quelle circostanze può fare da cartina al tornasole il modo in cui
gestiamo le nostre reazioni di fronte ai fedeli che non si interessano
delle nostre cure pastorali e non colgono il significato di quanto
facciamo o diciamo loro.
Come ci sentiamo? Cosa sperimentiamo?
E’ importante per noi apprendere la capacità di sentirci ugualmente
testimoni di Dio, anche quando abbiamo la sensazione di essere
inadeguati. Accettiamo di stare accanto alle persone, di sentirci
inutili, ma presenti nella loro vita.
Questo è il mistero salvifico della croce. Ai piedi della croce c’è
gente che dice: se non scende vuol dire che non è Figlio di Dio, perché
se è Dio deve avere la potenza di scendere dalla croce. Ma c’è anche chi
dice: proprio perché rimane sulla croce … io ci credo, perché vedo la
forza dell’amore e non la forza della potenza.
Ci piaccia o no: lo scandalo più grave è che Cristo non ha risolto i
nostri problemi, li ha condivisi. E questa è la novità cristiana, questo
è il vero miracolo. La nostra impotenza che diventa potenza di Dio. La
nostra debolezza che si trasforma nella forza di Dio. Il nostro
condividere che diviene speranza e salvezza per l’altro3.
2. Non è vera madre chi, per esistere e sentirsi viva…
progetta, organizza, fa tante cose, usa le attività quasi come una
coazione a ripetere.
Non ci diciamo forse «cosa faccio?». Non cerchiamo forse di vivacizzare
la nostra vita, facendo e operando? Non diciamo forse «Valgo perché
opero, perché faccio, perché agisco, perché incontro quel tale, perché
le cose che organizzo riescono, perché tanta gente mi segue?».
Questa è una forma di… teomania: illusione di essere come Dio. E’ follia
pura e onnipotenza infantile. Noi esistiamo e siamo non perché facciamo
e operiamo, non perché le cose ci riescono o gli altri rispondono alle
nostre iniziative e abbiamo successo. Noi esistiamo e siamo anche quando
non riusciamo, non abbiamo successo e gli altri non rispondono ai nostri
progetti.
Non dobbiamo colpevolizzarci né dobbiamo cercare di fare, di escogitare
chissà che cosa. Potrà dispiacerci per la cura che abbiamo delle
persone, perché ci accorgiamo di loro e questo è positivo, ma non
possiamo diventare rigidi, aggressivi, coattivi, ossessivi e quasi
offenderci. Non possiamo accollarci le scelte degli altri. Prenderci
cura non equivale a colpevolizzarci, a sentirci dei falliti, perché non
riusciamo nel nostro intento. L’altro ha il diritto di esistere in
quanto si esprime ed agisce diversamente da noi.
3. Non è vera madre chi si crede onnipotente e, come novello Re
Sole, stabilisce tutto, o con strategie e furbizia impone o si
sostituisce all’altro nelle attività pastorali.
Noi probabilmente non accettiamo l’altro! Quando dobbiamo lavorare
insieme, scattano in noi paure, meccanismi di difesa o di rifiuto che ci
fanno vedere nell’altro uno che può competere con noi. Rifiutiamo
l’altro perché vogliamo essere appagati dal nostro lavoro, dal nostro
personale progetto.
Dell’altro vogliamo servirci e lo accettiamo nella misura in cui si
accetta (ma bisogna vedere fino a dove!) il nostro progetto. Insomma, sì
all’altro se si lascia strumentalizzare. Crediamo poco nella
complementarietà, nel mettere i propri carismi in relazione.
4. Non è vera madre chi vede dovunque pericoli, errori,
insidie, difficoltà. Questa sarà una madre iperprotettiva, che crea
figli incapaci di staccarsi completamente da lei, o alla ricerca di
sostituti o di persone alle quali appoggiarsi.
5. Non è vera madre chi gestisce il rapporto con l’altro con una
corazza valutativa, fredda, distaccata, giuridica, facendo
riferimento a leggi, regole, disposizioni (anche se a volte necessari),
che passano sopra le teste degli altri e a volte le decapitano. Vera
madre non è chi impedisce a colui/colei che si accompagna, di ascoltarsi
e di ascoltare il Maestro interiore che abita dentro di lui, caricandolo
di principi astratti e pie esortazioni.
E’ vera madre chi…
1.
Vera madre è chi, pure stando in silenzio e non invadendo, fa sentire la
sua vicinanza, il suo
sostegno, il suo amore nei momenti di dolore.
2.
Vera madre è colei che, invece di dirci cosa dobbiamo fare o dove
dobbiamo andare, ci ascolta, ci aiuta a esplorare le nostre ferite,
ci offre l’occasione per
stare da soli e di affrontare il rischio di penetrare nei sentimenti
spesso imbarazzanti e disonorevoli, rintracciandone le radici.
Suggestive a riguardo risultano le parole di Diadoco di Fotico sulla
paternità spirituale.
Secondo lui, dobbiamo mantenere calma la superficie per vedere bene fino
in fondo all’anima: «Quando il mare è calmo, gli occhi del pescatore
possono penetrare fino al punto dove potrà distinguere i vari movimenti
nella profondità delle acque e nessuna delle creature che si muovono per
i sentieri marini gli può sfuggire. Ma il mare, quando è increspato dal
vento, nasconde nella buia agitazione ciò che mostra nel sorriso di una
giornata serena»4.
Qual è l’importanza di tutto questo? Diadoco dice che a mente serena
possiamo distinguere le ispirazioni buone da quelle cattive, in modo da
custodire gelosamente le prime e allontanare le altre.
3.
E’ vera madre colei che non cerca di cambiare l’altro.
Ed è forte in noi la tentazione di
cambiare gli altri. E’ un diritto e una pretesa che inconsapevolmente
rivendichiamo. A che cosa serve la vita se non ci adoperiamo ad aiutare
gli altri? A plasmarli secondo i nostri progetti (che naturalmente
chiamiamo di Dio)? A farli pensare come la pensiamo noi?
Non ci passa neppure per la testa che tanti nostri atteggiamenti sono
dettati dalla voglia di avere tante persone che ci attorniano, di fare
proseliti e non invece di stabilire una relazione fraterna e paterna.
Illuminante è una storia di A. De Mello: «Per anni sono stato un
nevrotico. Ero ansioso, depresso ed egoista. E tutti continuavano a
dirmi di cambiare. E tutti continuavano a dirmi quanto fossi nevrotico.
E io mi risentivo con loro, ed ero d’accordo con loro e volevo cambiare,
ma non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Ciò che mi faceva più male
era che anche il mio migliore amico continuava a dirmi quanto fossi
nevrotico. Anche lui continuava a insistere che cambiassi. E io ero
d’accordo anche con lui, e non riuscivo ad avercela con lui. E mi
sentivo così impotente e intrappolato. Poi, un giorno, mi disse: “Non
cambiare. Rimani come sei. Non importa se cambi o no. Io ti amo così
come sei; non posso fare a meno di amarti”. Quelle parole suonarono come
una musica per le mie orecchie: “Non cambiare. Non cambiare. Non
cambiare... Ti amo”. Allora mi rilassai. E mi sentii vivo. E, oh
meraviglia delle meraviglie, cambiai »5.
Solo accettando la persona come è, la aiutiamo a migliorarla e a
diventare come vuole essere.
4. E’ vera madre colei che non ha un’idea astratta del figlio/a,
perché l’idea distorce la realtà e non fa vedere. Non lo vive come
oggetto del proprio desiderio, volendolo migliore. E’ un pieno amore
nella concretezza…
5. E’ vera madre, ancora, colei che ama vedendo realmente l’altro.
Vedere è morire al proprio io, alle proprie categorie mentali, ai
pregiudizi, alle etichette, alle aspettative, ai giudizi e alle
esperienze passate.
Dopo questa carrellata di «identikit materni», a chi fare riferimento?
Dove trovare una risposta? Il Vangelo di Luca, al capitolo 15, ci
presenta un modello.
«Quando era ancora lontano, il padre
lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e
rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate
il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato”. E cominciarono a fare festa» (Lc 15,20b-24).
In questi pochi versetti, ciò che è più divino viene espresso con ciò
che c’è di più umano. Sono evidenziati quattro movimenti che Dio compie
nel suo essere padre: vedere - accogliere - prendersi cura - fare
festa.
Sono i movimenti che siamo chiamati a compiere anche noi, se vogliamo
diventare padri e madri.
Questo padre non ha un’idea astratta del figlio, proprio perché l’idea
distorce la realtà, e non fa vedere. Così ad esempio l’idea del vino non
è il vino e nessuno si è mai ubriacato per aver compreso
intellettualmente la parola vino.
Questo padre non ha l’idea del figlio che deve corrispondere a
determinati canoni e modelli. Non lo etichetta come figlio degenere e
scapestrato. Non lo vive come un oggetto del proprio desiderio,
volendolo migliore.
Piuttosto, questo padre ama suo figlio, quale realmente è, qui e ora
nella sua concretezza, nella sua unicità, nella sua vitalità, nella sua
povertà e non come è nei suoi ricordi, nelle sue aspettative, nella sua
immaginazione.
Amare è vedere realmente l’altro e vedere è morire al proprio io, cioè
alle proprie categorie mentali, ai pregiudizi, alle etichette, alle
aspettative, ai giudizi, ai legami derivati dai condizionamenti subiti e
dalle esperienze passate. Questo implica una severa disciplina: mettere
a tacere i nostri desideri, i nostri pregiudizi, i nostri ricordi, le
nostre proiezioni, la nostra maniera faziosa di guardare, i nostri
ostinati punti di vista.
«Commosso, gli corse incontro».
C’è un dipinto di Rembrandt, risalente al 1668-1669 (è stato lo spunto
per H. J. M. Nouwen (1932-1996) nello scrivere il libro L’abbraccio
benedicente), che mostra con una maestria particolare l’accoglienza
che il padre riserva al figlio. E’ un dipinto, ora all’Ermitage di San
Pietroburgo, che affascina e commuove. C’è un padre con la mano sinistra
forte e muscolosa, mano tipicamente maschile, che si posa sul figlio con
una certa delicatezza e lo stringe a sé con energia e nello stesso tempo
lo sorregge.
La mano destra, raffinata, delicata e tenera, si posa dolcemente sulla
spalla del figlio. E’ una mano che vuole accarezzare, calmare, offrire
conforto e consolazione. E’ una mano di madre. Questo padre tocca il
figlio con una mano maschile e femminile. Lui sorregge, lei accarezza.
Lui rafforza e lei consola. Il nostro Dio è un Dio Padre e Madre. «Si
dimentica forse una madre del suo bambino, così da non commuoversi per
il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si
dimenticasse, io non ti dimenticherò mai. Ecco, io ti ho disegnato sulle
palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me» (Is
49,15-16).
Inoltre questo padre cerca il figlio da lontano, vuole trovarlo e
desidera portarlo a casa. Ha bisogno del figlio quanto lui ha bisogno
del padre.
Dio non è il patriarca che se ne sta a casa e aspetta che suo figlio
vada da lui, si scusi per il suo comportamento, chieda perdono e
prometta di essere migliore. Al contrario, lascia la casa, corre verso
di lui, incurante della propria dignità, non bada a scuse e promesse di
cambiamento, anzi sembra che non lo ascolti nemmeno quando dice: «Padre
ho peccato contro il cielo e contro di te...», e lo porta
alla tavola riccamente imbandita per lui.
Signore, voglio rivolgerti solo una preghiera. «Fammi sentire una
profonda nostalgia di Te. Fammi sentire padre e madre».
Essere padre e madre è avere lo stesso cuore di Dio.
Questo padre si prende cura personalmente e concretamente del figlio. «Portate
subito il vestito più bello, mettetegli l’anello al dito e i
calzari ai piedi». Sono attenzioni personali, concrete,
delicate - si noti «il vestito più bello», che rivelano il volto del
padre.
Compito del padre è armonizzare i conflitti dei figli, è esortare con
interesse perché la vita tutta intera sia vissuta nel segno dell’unità:
non professata a parole, ma testimoniata con i fatti.
«Portate il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa».
Questo padre si rallegra, non perché i problemi del mondo sono stati
risolti, non perché milioni di persone si sono convertite. No, questo
padre si rallegra perché uno dei suoi figli, che era perduto, è stato
ritrovato.
Statisticamente non è rilevante. Ma sembra che a questo padre i numeri
non interessino.
Noi siamo abituati a sentire storie dolorose, problematiche, difficili e
ingarbugliate. Siamo preparati a ricevere cattive notizie, a leggere di
violenze, crimini e a essere testimoni di conflitti.
Dobbiamo imparare a fare festa e ad assaporare le gioie semplici e
concrete di ogni giorno… Piccole gioie che ci tolgono dalla tensione,
dalla frustrazione e serietà nella quale ci immergiamo, come se tutto il
mondo poggiasse sulle nostre spalle.
Piccole gioie che dobbiamo prenderci e non sentirci assolutamente in
colpa, pensando che ciò significhi sottrarre tempo alle attività
pastorali.
Chi ci osserva e chi ci cerca ha tutto il diritto di trovarci sereni,
rinfrancati e armonici. Se fossimo più pieni della gioia di Dio e più
integrati con noi stessi renderemmo di più e saremmo ricercati di più
dai nostri fedeli proprio per quel pizzico di gioia che facciamo
trasparire dai nostri volti e non trovano nelle caricature di tanti
padri.
C’è una via per questa paternità e maternità spirituale? Oppure siamo
condannati a ricorrere all’autorità del potere anziché all’autorità
della misericordia?
Le vie che portano ad una vera paternità e maternità di misericordia
sono: il dolore, il perdono, la generosità.
Per diventare padre la cui unica autorità è la misericordia,
siamo chiamati a ricevere chiunque, qualunque itinerario abbia percorso,
a versare lacrime e a sentirci a volte svuotati dalla sofferenza. Essere
padre e madre è generare alla vita e generare è soffrire. Forse è per
questo che ci sono poche persone disposte a rivendicare di essere padri
e madri nella contrazione da grembo.
La seconda via che conduce alla paternità spirituale è il perdono
che viene dal cuore. Anche se abbiamo detto: «Ti perdono», il nostro
cuore può rimanere chiuso nella rabbia, nel risentimento, nella
sfiducia.
La terza via è la generosità. Essere generosi è agire in base
alla verità che coloro, ai quali ci si chiede di perdonare, appartengono
alla nostra stessa famiglia. Non a caso la parola generosità ha in
comune con le altre parole quali «genere», «generazione»,
«generatività», la radice «gen».
«La verità è misericordia pura, dalla quale dobbiamo essere rivestiti da
capo a fondo per poterci dire cristiani».
Termino con le parole di un grande scrittore contemporaneo H. J. M.
Nouwen, che ha incontrato il volto mite e festoso del Salvatore: «C’è
un vuoto terribile in questa paternità/maternità spirituale. Niente
potere, niente successo, nessuna popolarità, nessuna facile
soddisfazione. Ma questo terribile vuoto è anche il luogo della vera
libertà. Il luogo dove “non c’è niente da perdere”, dove l’amore non è
costretto da legami e dove si può trovare la vera forza spirituale»6.
C. Per capire meglio la
dimensione della «Madre»…
in quanto donna
Sono
alcuni spunti, a flash, che possono coniugare meglio la dimensione della
maternità e della femminilità anche nella vita consacrata.
a.
La madre è colei che ha il senso dell’offerta e non del trattenere per
sé… Sono altamente significative le figure di Maria al tempio e di Anna
con il figlio Samuele…
Questo va contro la tendenza diffusa alla iperprotezione e alla
possessività affettiva.
b.
La madre nelle decisioni non agisce da sola, ma è unita al padre.
Il rischio, altrimenti, è di una figura gigantesca, quella materna, e di
una figura nana, quella paterna. Quando Maria e Giuseppe non trovano
Gesù nella loro carovana che ritorna da Gerusalemme, Maria dice: «Tuo
padre ed io ti cercavamo…».
c.
Anche fisicamente la madre è molto attaccata al figlio, perché il suo
corpo biologico è configurato e proteso verso la maternità.
Questo evidenzia il senso di un cuore di madre che dona la vita, che è
capace di dimenticarsi per far crescere la propria creatura…
d.
La madre piange il figlio di un dolore diverso da ogni altra creatura.
Nessuno, come la madre, sente il dolore del figlio perduto o il distacco
da lui…
e.
Mano a mano che passano le varie età
della vita, la madre dovrebbe imparare a farsi piccola, perché il suo
figlio cresca; è un imparare a guardarlo, sempre, con indicibile
affetto, da lontano.
f.
La madre vive il rapporto con quella emotività-sensibilità che non è un
limite, ma la capacità di ascoltare fino in fondo le ragioni del cuore.
g.
La madre, proprio perché donna, è allenata a una certa sofferenza, e per
questo vive con più compassione i momenti difficili della vita, ma anche
con quel coraggio che ha fatto la forza e la propositività di tante …
madri coraggio!
h.
La madre, ancora perché donna, è capace di una grande forza intuitiva; è
quell’acutezza che non si impara sui libri né sui testi di psicologia,
ma che aiuta a leggere tra le righe, a cogliere il senso di un silenzio
o di una pausa di un discorso, o di un imbarazzo che è altamente
comunicativo.
In questo senso, proprio perché donna, può aiutare o distruggere, perché
più dell’uomo sa cogliere i punti deboli dell’altro…
i.
La madre, perché donna, ha una grande capacità di conservare nel cuore
quello che è accaduto; il senso degli eventi forma in lei quella che
possiamo chiamare la forza della «memoria affettiva».
l.
Da ultimo, non dimentichiamo che la madre è sempre il perno di ogni
relazione familiare. Il legame con lei è particolarmente forte, senza
andare a scomodare il complesso di Edipo, e senza di lei una casa perde
tanta della sua vitalità e spesso diventa … morta!
D. Diversità e
complementarietà di padre e madre
Molto brevemente, vorrei cercare di riflettere sulla figura del padre e
della madre spirituale, per vedere se si può parlare di una diversità
fra di essi perlomeno di accenti, in una sostanziale unità di compito,
ma in una diversità e complementarietà di doni e di funzioni rispetto al
figlio/discepolo. In effetti la Scrittura parla molto spesso di
Dio-Padre e solo qualche volta di Dio-Madre (cf Is 66,1213; 49,15), e
tuttavia anche quando parla della paternità di Dio utilizza a volte
immagini della vita materna, come le «viscere di misericordia» (sono le
viscere dell’utero materno).
A partire dal modo in cui la Scrittura ci annuncia questa
paternità-maternità di Dio è possibile cogliere una diversità fra la
figura del padre spirituale e quella della madre spirituale, anche a
livello antropologico?
Anzitutto, cerchiamo di leggere con attenzione i testi.
Dt 1,30-33: «Il Signore stesso, il vostro Dio, cammina davanti a voi
e combatterà per voi, proprio come ha fatto tante volte sotto i vostri
occhi in Egitto e nel deserto. Insomma, avete visto quel che ha fatto il
Signore, il vostro Dio: per tutta la strada percorsa fin qui, vi ha
portati come un padre porta il proprio figlio. Nonostante le mie parole,
voi continuaste a non aver fiducia nel Signore, vostro Dio: lui che
camminava davanti a voi lungo la strada, per cercarvi un posto per
l’accampamento: di notte vi indicava la via da percorrere con la colonna
di fuoco e di giorno con la colonna di nubi».
Il Signore ha guidato Israele nel deserto come un uomo, cioè un padre,
porta, guida il proprio figlio! Il compito del padre, dunque, è quello
di guidare il figlio, di camminargli davanti, di precederlo e aprirgli
la via, affinché egli possa vedere la strada e sapere dove andare e vada
su cammini di vita e non di morte. La Scrittura ritorna molto spesso su
questa azione di guida-pastore di Dio nei confronti del suo popolo
Israele (cf Es 15,13; Dt 32,12; Ne 9,12; Sal 72,21; 78,52 ... ). E il
Signore guidava Israele con una nube di giorno e con una colonna di
fuoco di notte (Es 13,21-22), e dunque in un modo in certa misura
visibile per Israele, di una visibilità non totale, ma parziale e
mediata sì. E anche questo mi pare importante per il nostro discorso.
Ma l’A.T. parla anche, in modo estremamente più sobrio, ma tuttavia
molto presente, di un altro atteggiamento del Signore verso Israele
durante il cammino nel deserto: il Signore, cioè, non solo precedeva e
guidava il popolo, ma anche lo seguiva: «Il Signore tuo Dio ti
ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani, ti ha seguito nel tuo
viaggio attraverso questo grande deserto; il Signore tuo Dio è
stato con te in questi quaranta anni e non ti è mancato nulla» (Dt
2,7). Il Signore segue il popolo e non gli fa mancare nulla per il suo
sostentamento: gli dona la manna quando ha bisogno di pane, le quaglie
quando vuole la carne, l’acqua quando ha sete.
E’, questa, la dimensione materna di Dio: il nutrire, il proteggere
durante il cammino, l’assistere il figlio nei suoi bisogni vitali
affinché non venga meno per via. E’ infatti compito proprio della madre,
la quale dunque non precede il figlio, ma lo segue, gli sta dietro,
cammina dietro a lui e gli protegge le spalle, cioè lo custodisce
prendendosi cura della sua parte più indifesa, delle sue debolezze,
affinché nulla sia trascurato durante la via e le forze del figlio
consentano di camminare dietro al padre, le sue debolezze siano ignorate
e non prendano il sopravvento.
Ma la madre resta invisibile al figlio, la sua presenza e la sua mano
restano nascoste: Israele vede la manna e le quaglie, ma non ha nessun
segno visibile di questa presenza di Dio, come invece erano la nube di
giorno e la colonna di fuoco di notte: il volto materno di Dio è, cioè,
totalmente inaccessibile all’uomo su questa terra, mentre quello paterno
è parzialmente visibile (cf anche Es 33,20-23).
Il volto materno di Dio è il non-detto della sua rivelazione all’uomo e
ci sarà svelato pienamente solo nel Regno. Mentre dunque la paternità di
Dio può avere per il credente una mediazione che la rende visibile, la
maternità di Dio no, perché questo vorrebbe dire arrestare il cammino
del credente verso il Regno, vorrebbe dire pensare di poter vedere su
questa terra il volto di Dio, di possedere Dio, di averlo in mano.
Invece no, il Signore resta colui verso il quale camminare e dietro a
cui camminare fino alle sue dimore (cf nel NT Gv 14).
Quale è, dunque, il compito del
padre? Quello di
valorizzare le capacità del figlio, la sua forza, di farlo crescere
secondo tutti i suoi doni, guidandolo sulla via di una libertà e
maturità sempre più piena: cf 1Cor 3,l; 10,15; 14,20; 2Cor 13,9; Col
1,28.
E il compito della madre?
Quello di far vivere il figlio prendendosi cura non tanto della sua
forza, ma della sua debolezza, aiutando il figlio ad assumere le proprie
debolezze e a vederle non come un limite, ma come una possibilità di
relazione con l’altro da sé, e dunque come una privilegiata via di
comunione. La madre cammina dietro al figlio affinché questi non cada.
Il padre sprona il figlio a non attardarsi sulle proprie debolezze, a
non ripiegarsi su di esse accettando anche la sofferenza di rinunce e
separazioni per crescere, per continuare a camminare (e dunque a vivere)
e dispiegare in pienezza le proprie forze, le proprie energie vitali e
di relazione. La madre vigila che questo processo di crescita non sia
troppo veloce e non produca, invece di separazioni e rinunce salutari,
strappi e lacerazioni che uccidono il figlio invece di farlo vivere.
Cosa dice Ez 34 a proposito del Signore che pasce il suo popolo: «Andrò
in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita;
fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e
della forte; la pascerò con giustizia» (Ez 34,16). E anche Benedetto
nella sua regola per i monaci dice dell’abate: «Agisca con misura in
tutto, in modo che anche i forti desiderino qualcosa e che i deboli non
si scoraggino» (RB 64,19).
Il padre dunque ha cura che la debolezza del figlio non lo blocchi; la
madre che il cammino che egli fa non lo schiacci. Il padre insegna a
camminare al figlio standogli davanti e il figlio lo vede (seppur in
modo parziale, si è detto), come qualcuno diverso da lui e più grande di
lui, dal quale imparare. La madre, invece, insegna al figlio a camminare
standogli dietro, e il figlio non la vede, ma ne è custodito e protetto;
la madre gli cammina dietro come qualcuno che si fa piccolo davanti a
lui, che scompare e che lo fa vivere proprio nella misura in cui accetta
di camminargli alle spalle, non davanti, non guidandolo, ma seguendolo.
La madre ha il compito di insegnare a camminare, a vivere al figlio
facendosi piccola davanti a lui, come qualcuno che da lui ascolta e deve
imparare, facendo parlare il figlio e facendo sì, dunque, che il figlio
si conosca e si abbia in mano sempre di più, che veda uscire da sé una
vita che non conosceva grazie all’altro (la madre) che si pone in
condizione di bisogno davanti a lui, ma che così facendo continua a
generarlo come figlio, proprio nella misura in cui il figlio cresce e
diventa sempre più autonomo da lei. Nei confronti del figlio, dunque, il
padre appare come maestro, mentre la madre come discepola. Il rischio
della relazione è che allora il padre venga come adorato e la madre come
disprezzata; ma se questo avviene è da stolti e il figlio forse solo
troppo tardi si accorgerà di aver ignorato la grandezza di sua madre
proprio in questo suo farsi piccola davanti a lui per farlo
continuamente nascere a se stesso (è l’arte della maieutica, della
«ostetricia» che già i filosofi della Grecia antica conoscevano), e di
aver troppo enfatizzato e ingrandito la figura del padre,
misconoscendone i limiti e le debolezze, l’umanità, la creaturalità.
Ma se questo cammino avviene in modo equilibrato e maturo, il figlio
piano piano cresce e raggiunge la statura del padre e si trova ad essere
suo simile, cioè suo fratello (sta al padre - e non è facile scoprire e
accettare questa crescita del figlio e dunque questo suo diminuire
davanti a lui, mentre fino a quel momento era grande ai suoi occhi, era
«il più grande»). Ma allora il figlio, proprio in proporzione alla sua
crescita scopre pian piano la grandezza - prima non conosciuta - della
madre, fino a sentirla, come minimo, pari a se stesso, come sorella, ma
anche percependo che in lei c’è una capacità di ammaestramento, di
insegnamento reale, ma nascosta e che forse ha molto da imparare da lei,
ancora; certo in modo diverso da come fino a quel momento è stato, in
modo più cosciente e più autonomo. Allora l’uomo maturo imparerà dal suo
rapporto con la madre ad accogliere in sé quell’elemento femminile che
ha e a farlo crescere secondo la sua personalità e mentre nella prima
parte della sua vita gli era sembrato di dover imparare soprattutto dal
padre a diventare un uomo, adesso scoprirà che per essere completo ha da
imparare molte cose dalla madre, seppur diversamente, per poter abitare
in pace con se stesso. E la figura della madre allora cresce ai suoi
occhi, gli si pone davanti, come all’inizio era stata per lui quella del
padre e diventa la meta del cammino, la pienezza della conoscenza di sé,
che incontrerà però solo dopo la morte.
E il padre, nella misura in cui con maturità compie questo cammino, non
solo deve accettare di vedere suo figlio pari a lui, ma addirittura di
vederlo crescere più di lui, perché mentre fino ad allora come padre lo
ha fatto crescere per ciò che aveva di simile a lui, da questo momento
lo avrà davanti e lo vedrà crescere (se accetta questa relazione, se
accetta la sua diminuzione e il suo morire, se veramente gioisce della
vita del figlio) per ciò che di diverso da lui e, dunque, in tale
misura, continua a generarlo come figlio solo se accetta di non
conoscerlo a fondo, di non possederlo, ma di imparare a scoprirlo
continuamente come una novità, se accetta il mistero in lui e
dunque se accetta di poter imparare molte cose da lui, mentre fino a
quel momento lui stesso era stato il suo maestro. Che un uomo giunga
fino a questa maturità della relazione con il figlio è molto raro e
anche nei detti dei «Padri del deserto», di un solo «abba» si dice che a
un certo punto della relazione con il suo discepolo questo abba gli
disse: «Da questo momento tu sarai l’abba, il padre e io discepolo»; e
così egli ne fu veramente il padre, generandolo non solo in ciò che di
comune aveva con lui, ma anche in ciò che aveva di altro, di diverso, di
nuovo rispetto a lui! Questo è anche quanto faceva Giovanni Battista con
Gesù. Per una donna l’itinerario sembra essere lo stesso, ma il processo
di identificazione deve avvenire non con il padre, ma con la madre.
Il padre, dunque, inizialmente genera il figlio mediante la parola e la
madre mediante l’ascolto. In un secondo momento, poi, la madre genera
non più attraverso l’ascolto, ma anche attraverso la parola, ma con un
insegnamento silenzioso: con la propria stessa vita, con l’esempio, con
ciò che essa stessa è, mentre il padre è chiamato a generare non più con
la parola, ma neanche attraverso l’ascolto, ma mediante l’accoglienza
come viscerale, come materna, del figlio nella sua diversità da lui,
nella sua sconosciuta alterità.
Ecco, dunque, che il padre e la madre spirituale abbiano in sé questa
diversità e questo diverso potere generante. E un padre è chiamato in
certa misura ad essere anche un po’ (non troppo!) madre e una madre
anche un po’ (non troppo!) padre.
In sintesi…
E’ vero che la Scrittura parla molto di Dio padre e meno di Dio madre
(Is 66,12-13;49,15). Tuttavia anche la paternità di Dio è chiamata ad
avere viscere di misericordia.
Deut 1,30-33: «Il compito del padre è quello di guidare il figlio, di
stargli davanti, di precederlo e aprirli la via in maniera visibile»
(nube e colonna di fuoco…).
Deut 2,7: «Ma il Signore segue anche il figlio nel suo viaggio, perché
non gli manchi nulla…». La madre cammina dietro il figlio, lo protegge
alle spalle, vigila su di lui, si prende cura della sua parte più
indifesa, perché le sue debolezze non prendano il sopravvento su di lui.
Il volto materno resta invisibile al figlio… quello del padre
parzialmente visibile. Il padre ha cura che la debolezza del figlio non
lo blocchi, la madre che il cammino non lo schiacci. Una madre che si fa
piccola, prima discepola per generarlo, poi sorella, poi maestra sulla
via della diversità dal padre… Il padre genera il figlio attraverso la
parola, la madre attraverso l’ascolto, l’accoglienza e l’insegnamento
silenzioso: un potere generante, diverso e complementare.
SUGGERIMENTO
BIBLIOGRAFICO
H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana, Brescia 1994.
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