n. 1
gennaio 2003

 

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Il rapporto liturgia e pietà popolare
interpella le comunità religiose - I

di Corrado Maggioni

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Se la liturgia associa una voce dicentes la preghiera di tutte le membra del Corpo di Cristo, in lui e per lui, le devozioni e pratiche di pietà sono come innumerevoli variazioni sul tema: le tradizioni di paesi, città, istituti religiosi, sono contrassegnate, infatti, da peculiari sottolineature carismatiche che hanno trovato espressione in moduli, tempi e formule particolari di preghiera.

E’ facile individuare in un Ordine o Congregazione religiosa, erede della spiritualità del Fondatore o Fondatrice o di un suo esponente di rilievo, la matrice di varie pratiche di pietà diffuse nel popolo cristiano. Si pensi esemplarmente alla tradizione del presepio legata a san Francesco, all’uso dello Scapolare diffuso dai Carmelitani, alla recita del Rosario irradiata dai Domenicani, alla devozione al Cuore di Gesù promossa dagli Eudisti e dai Gesuiti, alla pratica della Via Matris incrementata dai Serviti, alla consacrazione a Maria predicata dai Monfortani, ecc. Le stesse confraternite sono generalmente fiorite sul tronco di istituti religiosi.

 A seconda dell’esperienza personale, della formazione ricevuta, degli ambienti in cui siamo cresciuti e della comunità in cui viviamo e operiamo, di fronte alla pietà popolare si disegna, nella mente di ciascuno, uno scenario con una propria fisionomia. Del resto è normale, giacché accostarsi alla pietà popolare significa avvicinarsi a un mondo variopinto: vi confluiscono svariate manifestazioni cultuali, di carattere privato o comunitario, diverse tra loro per origine, ispirazione, modalità e diffusione. Si pensi a novene e processioni in onore di Santi patroni, ai suffragi per i defunti, ai noti gesti di devozione che riempiono i santuari: accendere una candela, toccare l’immagine venerata, portare un dono votivo, baciare una reliquia, chiedere una benedizione...

Ha ancora senso oggi pregare l’Angelus Domini, fare il mese di maggio, recitare le litanie della Vergine, portare al collo la “medaglia miracolosa”, innalzare croci e cappelle lungo le strade, appendere in casa un’immagine sacra? Qual è il senso genuino di queste e altre pratiche di devozione? Che senso ha continuare a recitare quotidianamente le medesime formule raccomandate secoli fa dalla Madre Fondatrice?

Sono molte le domande che si affacciano pensando all’universo generalmente chiamato “pietà popolare”, così complesso e radicato nel tessuto cristiano di ieri e di oggi, talvolta criticato per eccessi e deviazioni, bisognoso di essere purificato e valorizzato, indubbiamente amato almeno nelle forme che ognuno ha assorbito dall’infanzia.

In tanta varietà di modi e gesti per dire la fede, la lode e la supplica a Dio, alla Vergine, ai Santi, è anzitutto utile avere chiaro il centro di riferimento a cui ricondurre i mille riverberi della pietà cristiana, in modo da superare la dispersione, la parzialità di accenti, i rischi del pietismo e dello sterile devozionalismo. Questo necessario riferimento cultuale è la celebrazione liturgica dei misteri di Cristo, «fonte e culmine della vita della Chiesa» (SC 10). Ogni espressione di fede pregata e vissuta deve in qualche modo trarre ispirazione dalla liturgia e ad essa condurre.

D’altro canto, basta la sola liturgia per custodire una vita spiritualmente qualificata? La tradizione ci ha consegnato una ricchezza di gesti e preghiere che aiutano a sedimentare nella mente e nelle opere l’adesione a Gesù Cristo. Da qui, allora, l’istanza oggi sentita: come valorizzare il primato della liturgia senza deprezzare altre forme di preghiera, perseguendo quell’armonizzazione tra liturgia e pietà popolare che matura una fruttuosa vita cultuale nelle comunità – anche religiose - e nei singoli credenti?

 A questa domanda di fondo ha inteso rispondere il Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, pubblicato nel 2002 dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (= DPPL). I destinatari del documento sono anzitutto i Vescovi e i loro collaboratori, ma anche «i Superiori maggiori degli istituti di vita consacrata, maschili e femminili, perché non poche manifestazioni della pietà popolare sono sorte e si sono sviluppate in quell’ambito, e perché dalla collaborazione dei religiosi e delle religiose e dei membri degli istituti secolari molto si può attendere per la giusta armonizzazione doverosamente auspicata» (DPPL 5).

 

1. Il “Direttorio su pietà popolare e liturgia”

 Il documento è articolato in due parti, precedute da una Introduzione che traccia un quadro generale di accostamento alla terminologia, ai criteri di base, al linguaggio proprio della pietà popolare, alle responsabilità in materia.

Nella prima parte, intitolata Linee emergenti dalla storia, dal Magistero, dalla teologia sono offerti i dati per conoscere l’argomento e le sue implicazioni: è delineato dapprima il cammino storico dei secoli passati e la problematica odierna; è quindi esposto l’insegnamento del Magistero sulla pietà popolare; sono ricordati infine i principi teologici alla cui luce impostare il raccordo tra liturgia e pietà popolare. Nel sapiente rispetto di questi presupposti è possibile sviluppare una feconda armonizzazione, come chiesto dal Concilio.

La seconda parte, intitolata Orientamenti per l’armonizzazione della pietà popolare con la liturgia, contiene le indicazioni e le proposte concrete. L’esposizione è raggruppata in primo luogo sul binario dell’Anno liturgico: la sintonia con la celebrazione liturgica della Chiesa è la strada maestra che aiuta la pietà popolare a trovare il riferimento giusto. Quindi sono presi in esame alcuni ambiti che hanno grande peso e risvolto nella pietà popolare: la venerazione per la Madre del Signore; la devozione verso gli Angeli, i Santi e i Beati; i suffragi per i defunti; i pellegrinaggi e i santuari.

Il Direttorio ha lo scopo di orientare e anche se, in alcuni casi, previene possibili abusi e deviazioni, ha un indirizzo costruttivo e un tono positivo. Fornisce sulle singole devozioni brevi notizie storiche, ricorda i vari pii esercizi in cui esse si esprimono, richiama le ragioni teologiche che ne sono a fondamento, dà suggerimenti pratici e apre prospettive pastorali. Viene così toccata tutta quell’ampia serie di aspetti che costituiscono il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, come le formule di preghiera, il canto e la musica, i gesti e le azioni, le immagini sacre, i tempi (giorni, tridui, novene, mesi) e i luoghi (santuari, chiesa, casa, strade, piazze, ambienti di lavoro…). Molto utile risulta l’indice analitico, le cui voci permettono di reperire facilmente i testi in cui si tratta l’argomento che interessa.

In quest’ottica, abbiamo tra mano uno strumento volto ad aiutare l’azione pastorale di parrocchie e di santuari, come altresì l’educazione spirituale di singoli fedeli, di comunità religiose, di movimenti e associazioni. Il suo obiettivo, in effetti, è di favorire una sapiente comprensione delle modalità del culto cristiano, nella distinzione e nella complementarietà tra le celebrazioni liturgiche della Chiesa e le altre forme di preghiera antiche e nuove.

Sarebbe contro l’intento del Direttorio promuovere la pietà popolare lasciando le cose come sono o recuperando acriticamente le dismesse pratiche ereditate dal passato. Il Documento non ha la mira di dare fiato a “qualsiasi” pietà popolare, senza imprimerle un orientamento rinnovatore sul versante dell’azione pastorale, quanto di illuminare il rapporto della pietà popolare con la liturgia. Lo evidenzia il titolo e il sottotitolo del Direttorio. In realtà, la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II non può non avere una ricaduta anche sulla pietà non liturgica.

 

Nella linea del Vaticano II

 Se vi sono stati periodi in cui la celebrazione liturgica era riduttivamente dischiusa al popolo, il Concilio Vaticano II ha voluto “restituirla” ad esso, essendo un’azione che riguarda e coinvolge, per natura sua, l’intero popolo di Dio. Nell’evidenziare che la liturgia è «il culmine a cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10), i Padri conciliari hanno tuttavia ricordato che «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia» (SC 12). A nutrire la spiritualità dei credenti contribuiscono, infatti, anche «i pii esercizi del popolo cristiano» (SC 13).

Considerando questi anni postconciliari, si possono osservare atteggiamenti contrastanti, a seconda dei luoghi e delle tradizioni: si sono abbandonati modi di pregare ereditati dal passato, con evidenti vuoti rimasti incolmati; permangono modi imperfetti o errati di devozione, che pregiudicano il primato della rivelazione biblica e dell’economia sacramentale per la vita cristiana; ci sono critiche ingiustificate verso certi modi semplici di dire la fede; c’è bisogno che la pietà popolare sia sorretta dal Vangelo e dalla conversione della vita.

L’argomento è stato esplicitamente indicato tra i compiti del rinnovamento dallo stesso Giovanni Paolo II, ricordando che la «pietà popolare non può essere né ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio. Ma essa ha bisogno di essere di continuo evangelizzata, affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo e autentico. Tanto i pii esercizi del popolo cristiano, quanto altre forme di devozione, sono accolti e raccomandati purché non sostituiscano e non si mescolino alle celebrazioni liturgiche. Un’autentica pastorale liturgica saprà appoggiarsi sulle ricchezze della pietà popolare, purificarle e orientarle verso la liturgia come offerta dei popoli» (Lettera apostolica Vicesimus Quintus Annus, n. 18).

 Sono parole preziose, che sottolineano l’importanza di valorizzare la pietà popolare, di purificarla dove è necessario, di ancorarla al Vangelo, di orientarla alla liturgia, senza confusione né contrapposizioni indebite.

 

Il n. 13 di Sacrosanctum Concilium

Su 130 numeri che compongono la Costituzione sulla sacra liturgia, uno solo è direttamente dedicato ai pii esercizi del popolo cristiano1. L’argomento è toccato nel n. 13, a conclusione del capitolo I, titolato Natura della liturgia e sua importanza nella vita della Chiesa, per ricordare: il nesso dei pii esercizi (pietà popolare) con la liturgia, senza assimilarli ad essa, essendo questa «di gran lunga superiore»; la loro qualifica di espressione cultuale “cristiana” («del popolo cristiano») e non qualsiasi. Ecco il testo conciliare:

«I pii esercizi del popolo cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa, sono vivamente raccomandati, soprattutto quando si compiono per disposizione della Sede Apostolica.

Di speciale dignità godono anche i sacri esercizi delle Chiese particolari, che vengono celebrati per disposizione dei Vescovi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati.

Bisogna però che tali esercizi, tenuto conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra liturgia, derivino in qualche modo da essa, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano».

Il contesto che lo precede è significativo per coglierne la portata. Dopo aver sottolineato che la liturgia è il culmine e la fonte della vita della Chiesa (n. 10) e le disposizioni d’animo per parteciparvi con frutto (n. 11), Sacrosanctum Concilium tiene a precisare che «la vita spirituale, tuttavia, non si esaurisce nella partecipazione alla sola sacra liturgia», introducendo così la vocazione di ciascun credente alla preghiera incessante, privata, tradotta in vita cristianamente vissuta (n. 12). Quindi tratta appunto dei pii esercizi (n. 13).

I pii esercizi del popolo cristiano sono tutelati e garantiti dall’autorità responsabile. Ossia, sono quelle pratiche cultuali non-liturgiche, conformi alle leggi e norme della Chiesa e raccomandate dalla Santa Sede o dal Vescovo per la sua diocesi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati. Dunque, non tutto ciò che appartiene alla preghiera non-liturgica va posto sullo stesso piano e trattato con medesimo giudizio: ci sono forme di pietà approvate dai Pastori, appartenenti alla tradizione di una Chiesa particolare (o di un istituto religioso) e altre per così dire non regolamentate; la pietà popolare si differenzia secondo le consuetudini e le tradizioni (anche culturali) delle Chiese particolari, e pertanto non dice uniformità.

Il senso e il posto dei pii esercizi è, per così dire, “ipotecato” dal riferimento alla liturgia, «data la sua natura di gran lunga superiore». Dopo la premessa: tenuto conto dei tempi liturgici, SC 13 chiede che i pii esercizi siano regolati da una triplice istanza, descritta con tre verbi da prendersi insieme: «siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra liturgia, derivino in qualche modo da essa, e ad essa conducano il popolo cristiano».

I criteri esposti in Sacrosanctum Concilium per i pii esercizi sono estesi dal Direttorio alle molteplici forme di devozione del popolo cristiano, articolando in tal modo il rapporto pietà popolare e liturgia.

 

Pietà “popolare”

Mentre Sacrosanctum Concilium parla di pii esercizi del popolo cristiano e sacri esercizi, il Direttorio preferisce la categoria pietà popolare. Se è certo che i pii esercizi fanno parte della pietà popolare, questa non è però esaurita da quelli. Se con “pii esercizi” si intende un genere cultuale ben individuato2, la denominazione “pietà popolare” rappresenta piuttosto una categoria di riferimento per molteplici forme di preghiera, non assimilabili alla liturgia. Senza pretendere di dare definizioni, il Direttorio descrive il vocabolario invalso per indicare pratiche e devozioni diverse, accomunabili sotto la comune accezione di “pietà popolare”3.

Intorno all’aggettivo “popolare”, la prima considerazione è che non si oppone sbrigativamente a elitario, quasi a dire che la pietà popolare si contrappone alla liturgia, vista come non-popolare.

I Padri conciliari hanno asserito a chiare lettere che la celebrazione liturgica è l’azione per eccellenza del popolo di Dio, lo manifesta e lo implica (cf SC 7 e 26). Del resto, devozioni e forme di pietà sono praticate, già nel Medioevo, da chierici, religiosi e laici; non sono “esclusive” della gente incolta, in breve del “popolo” visto come massa rispetto a pochi: la pietà “popolare” ha riguardato per secoli il clero come i laici, anche se, almeno in certe epoche, i laici vi hanno trovato maggiore e diretto coinvolgimento rispetto alla celebrazione liturgica.

Il Concilio ha guidato a riscoprire e, attraverso la riforma, a promuovere la liturgia come azione del Corpo di Cristo-Chiesa, in cui ciascuno – ministro ordinato e laico - è chiamato a parteciparvi compiendo la “propria” parte (cf SC 26).

La seconda considerazione è che sotto pietà popolare viene accorpato ciò che, pur essendo cultuale, non appartiene alla liturgia. In tal senso, pietà popolare equivale a preghiera non-liturgica: sono preghiere e gesti, individualmente o comunitariamente compiuti, per esprimere la lode e la supplica a Dio, a Cristo, allo Spirito, alla Vergine, ai Santi, come i suffragi per i defunti, che si avvicinano in qualche aspetto più o meno evidente alla liturgia, senza tuttavia condividerne lo statuto.

La terza considerazione è che la pietà popolare si distanzia dalla religiosità popolare, essendo, la prima, informata dalla rivelazione biblico-cristiana4. Pur esprimendo il sentire dell’uomo verso Dio, ossia l’aspetto dal basso verso l’alto, la pietà popolare dovrebbe comunque evidenziare tra gli altri aspetti - culturale, sociale, religioso, ecc. - , il riferimento al Vangelo e non semplicemente al trascendente indeterminato, alla credenza soggettiva.

 

2. Che cos’ è la pietà popolare?

Rispondere a questa domanda permette di cogliere la natura, lo scopo, la funzione, le modalità, i valori, i limiti della pietà popolare. In breve, si tratta di capire che cosa è la pietà popolare distinguendola sia da ciò che essa non è (religiosità, superstizione, ritualità pre-cristiana), sia da ciò che è liturgia.

  

Pietà popolare e non

Distinguendo tra pietà popolare e religiosità popolare, il Direttorio instrada a discernere gli elementi connotativi la pietà del popolo cristiano: il genio e la cultura di un popolo rappresentano, infatti, la trama a cui si annodano le espressioni della fede della Chiesa nel Dio di Gesù Cristo. Se «ogni popolo tende ad esprimere la sua visione totalizzante della trascendenza e la sua concezione della natura, della società e della storia attraverso mediazioni cultuali, in una sintesi di grande significato umano e spirituale» (DPPL 10), non è scontato che tali mediazioni cultuali e popolari - ossia comuni in un dato popolo - siano sempre positive e valide per dire la fede e la preghiera cristiana. Come per il cristiano non basta dire che esiste Qualcuno o Qualcosa, così anche la pietà popolare deve far trasparire il volto di Cristo e la comunione con la Chiesa. Per dirsi tale, la pietà del popolo cristiano deve essere marcata - senza pretesa di completezza e di sistematicità - dal riferimento alla rivelazione biblica e dalla garanzia della Chiesa5.

I pericoli che possono sviarla6 esortano a cogliere il discrimine tra pietà popolare e non più o non ancora pietà popolare: assenza e scarsità di elementi essenziali della fede cristiana; squilibrio tra culto dei Santi e coscienza dell’assoluto primato dovuto a Cristo; impercettibile contatto con la Sacra Scrittura; isolamento dall’economia sacramentale; separazione tra gesti di pietà e impegno di vita; concezione utilitaristica e cosicistica della pietà; svilimento dei gesti di pietà in spettacolarità; induzione alla superstizione, magia, fatalismo.

Poiché si deve percepire il senso del credere in Cristo con la Chiesa e non dell’una o l’altra esperienza di religiosità o credenza, la pietà popolare esige che, chi la pratica, percepisca il significato veicolato da atteggiamenti, gesti e parole cultuali. In effetti, identiche forme esteriori, rinvenibili nella pietà come nella religiosità popolare - digiuni, pellegrinaggi, danza, accensione di ceri, immersione in acqua sorgiva ecc. - dicono di fatto un contenuto differente. Affinché possa dirsi “pietà del popolo cristiano”, vi è dunque un dato positivo da riscontrare (la retta dottrina della Chiesa) ed uno negativo da escludere (ciò che contrasta la fede cristiana).

 

Pietà popolare e celebrazione liturgica

Due forme parallele di preghiera o piuttosto due modalità con caratteristiche non intercambiabili, ma entrambe legittime seppure con diverso peso specifico? Trattando di pietà popolare in rapporto con la liturgia, il Direttorio ne mostra il legame e insieme la distinzione.

La pietà popolare (o termine equivalente in passato) è sempre esistita nella Chiesa, ma non per ogni epoca si deve parlare di un distacco, talora di contrapposizione alla liturgia. Ciò è accaduto in modo più evidente in certi periodi7, anche se con fisionomie differenti secondo le problematiche che via via si affacciavano in dati tempi e luoghi. Conoscere la storia bimillenaria di tale rapporto8 è premessa per rendersi conto del come e perché certi nodi si sono stretti, individuando la via per il loro scioglimento. Il Direttorio ricorda che: «La storia mostra anzitutto che il corretto rapporto tra liturgia e pietà popolare viene turbato allorché nei fedeli si attenua la coscienza di alcuni valori essenziali della liturgia stessa» (n. 48).

Il primato della liturgia, dunque, è luce che rischiara la portata e il senso della pietà popolare.

Ecco la meditata parola del Concilio in proposito: «Ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia» (SC 7); e ancora, «la natura (della liturgia è) di gran lunga superiore» rispetto ai pii esercizi (SC 13). E’ facile osservare che a comprendere che cosa è la pietà popolare si perviene mettendo a fuoco, nella mente e nell’esperienza dei fedeli, che cosa è la liturgia, la sua eccellenza ed insostituibilità per vivere in Cristo. Accenniamo ad alcuni principi.

La presenza reale di Cristo definisce l’economia liturgico-sacramentale (cf SC 7). Uguale “presenza” non è asserita per la pietà popolare9. Ciò non significa squalificare o disprezzare come insignificante ciò che non ha lo statuto “sacramentale” della liturgia, ma dare ad esso la sua corretta valenza.

La liturgia dipende dalla volontà istitutiva di Cristo e dal pronunciamento della Chiesa: nel noto adagio «la Chiesa fa la liturgia e la liturgia fa la Chiesa» non può sostituirsi liturgia con pietà popolare. Le azioni liturgiche costituiscono e incrementano la vitalità della Chiesa di Cristo: pur nelle variazioni rituali occorse nei secoli e nella diversa tradizione delle Famiglie liturgiche d’Oriente e Occidente, la sostanza della liturgia è rimasta invariata. L’Eucaristia celebrata dalla comunità apostolica e nel corso dei secoli fino ad oggi, in ogni Chiesa cattolica sparsa nel mondo, è la medesima nella sostanza e nel fine: memoriale della morte e risurrezione di Cristo e partecipazione al suo mistero pasquale. Non si può dire, invece, che la pietà popolare del tempo di Sant’Agostino sia identica all’odierna, e che quella di un paese del sud Italia sia come quella di un paese della Germania. Ne consegue che le pie pratiche e devozioni che conosciamo, fiorite soprattutto a partire dal Medioevo, non sono essenziali al vivere in Cristo.

La liturgia è necessaria per vivere e crescere in Cristo nella Chiesa, mentre la pietà popolare appartiene al facoltativo, pur se talora raccomandato10. Ciò non equivale a screditare le forme di preghiera e di devozione, bensì a valutare le cose con occhio lucido. La facoltatività non dice scarsa bensì giusta valutazione11. In verità, talvolta la pietà popolare risulta “indispensabile” ai fedeli (compreso il clero), essendo la sola forma cultuale concretamente possibile in date circostanze e situazioni (rarità della Messa; impossibilità di parteciparvi per malattia, impedimento, coercizione da parte di altri).

La celebrazione liturgica sta alla pietà popolare come l’oggettivo sta al soggettivo (che non è soggettivismo - secondo il mio piacere, sentire, gusto - essendo in qualche modo sottoposta all’autorità competente12). L’oggettivo dice che l’accadimento avviene al di là della capacità e bontà umana, essendo opera di Dio; perciò la liturgia è anzitutto teologia. Il soggettivo dice invece il relazionarsi dell’uomo con Dio a partire dal “proprio” mondo, muovendosi perciò piuttosto nell’ambito antropologico. Non a caso un capitolo importante della pietà popolare è rappresentato infatti dall’“umano” sentire in “questo” tempo e contesto storico-socio-culturale.

Se nell’azione liturgica l’agente principale è Dio, è anzitutto la dimensione discendente a definirla. La dimensione ascendente della Chiesa celebrante (lode, invocazione, supplica) è risposta - in, con, per Cristo - che consegue alla precedente azione divina. La pietà popolare fa leva sul movimento ascendente, senza escludere la dimensione discendente13, che tuttavia non uguaglia l’efficacia della liturgia allo stesso titolo e allo stesso grado (cf SC 7).

Nulla è privato nella liturgia, essendo sempre azione ecclesiale (cf SC 26). La pietà popolare è invece privata: anche se compiuta insieme ad altri, anche sotto la presidenza del sacerdote, non varca la soglia “ecclesiale” della liturgia. Tant’è che nel rito romano la “sostanziale unità” viene richiesta dalla Chiesa soltanto in materia liturgica: una medesima liturgia per l’unica Chiesa, a fronte di una molteplicità di espressioni e modi nella pietà popolare.

E’ rilevante dunque nutrire una retta visione “teologica” del fatto cultuale della Chiesa: vi è un cuore e una circolarità di rete sanguigna. C’è una gerarchia di valori, dove tutto è importante al “proprio” posto: al centro vi sono i sacramenti (istituiti da Cristo), quindi i sacramentali (istituiti dalla Chiesa), le benedizioni (celebrazioni normate da libri liturgici), la pietà popolare (formule e pratiche approvate e raccomandate dalla Chiesa, senza una forma assolutamente vincolante14).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica il tema della religiosità popolare si trova, dopo le benedizioni, nell’articolo sui sacramentali (cf 1674-1676). Valga, a conclusione, quanto ricordato al n. 58 del Direttorio:

«Liturgia e pietà popolare sono due espressioni legittime del culto cristiano, anche se non omologabili. Esse non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare come viene descritto nella Costituzione liturgica (…). Liturgia e pietà popolare sono quindi due espressioni cultuali da porre in mutuo e fecondo contatto: in ogni caso tuttavia la liturgia dovrà costituire il punto di riferimento per “incanalare con lucidità e prudenza gli aneliti di preghiera e di vita carismatica” che si riscontrano nella pietà popolare; dal canto suo la pietà popolare, con i suoi valori simbolici ed espressivi, potrà fornire alla liturgia alcune coordinate per una valida inculturazione e stimoli per un efficace dinamismo creatore».

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