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Se la liturgia associa una voce
dicentes la preghiera di tutte le membra del Corpo di Cristo, in lui e
per lui, le devozioni e pratiche di pietà sono come innumerevoli
variazioni sul tema: le tradizioni di paesi, città, istituti religiosi,
sono contrassegnate, infatti, da peculiari sottolineature carismatiche
che hanno trovato espressione in moduli, tempi e formule particolari di
preghiera.
E’ facile individuare in un
Ordine o Congregazione religiosa, erede della spiritualità del Fondatore
o Fondatrice o di un suo esponente di rilievo, la matrice di varie
pratiche di pietà diffuse nel popolo cristiano. Si pensi esemplarmente
alla tradizione del presepio legata a san Francesco, all’uso dello
Scapolare diffuso dai Carmelitani, alla recita del Rosario irradiata dai
Domenicani, alla devozione al Cuore di Gesù promossa dagli Eudisti e dai
Gesuiti, alla pratica della Via Matris incrementata dai Serviti, alla
consacrazione a Maria predicata dai Monfortani, ecc. Le stesse
confraternite sono generalmente fiorite sul tronco di istituti
religiosi.
A seconda dell’esperienza
personale, della formazione ricevuta, degli ambienti in cui siamo
cresciuti e della comunità in cui viviamo e operiamo, di fronte alla
pietà popolare si disegna, nella mente di ciascuno, uno scenario con una
propria fisionomia. Del resto è normale, giacché accostarsi alla pietà
popolare significa avvicinarsi a un mondo variopinto: vi confluiscono
svariate manifestazioni cultuali, di carattere privato o comunitario,
diverse tra loro per origine, ispirazione, modalità e diffusione. Si
pensi a novene e processioni in onore di Santi patroni, ai suffragi per
i defunti, ai noti gesti di devozione che riempiono i santuari:
accendere una candela, toccare l’immagine venerata, portare un dono
votivo, baciare una reliquia, chiedere una benedizione...
Ha ancora senso oggi pregare
l’Angelus Domini, fare il mese di maggio, recitare le litanie della
Vergine, portare al collo la “medaglia miracolosa”, innalzare croci e
cappelle lungo le strade, appendere in casa un’immagine sacra? Qual è il
senso genuino di queste e altre pratiche di devozione? Che senso ha
continuare a recitare quotidianamente le medesime formule raccomandate
secoli fa dalla Madre Fondatrice?
Sono molte le domande che si
affacciano pensando all’universo generalmente chiamato “pietà popolare”,
così complesso e radicato nel tessuto cristiano di ieri e di oggi,
talvolta criticato per eccessi e deviazioni, bisognoso di essere
purificato e valorizzato, indubbiamente amato almeno nelle forme che
ognuno ha assorbito dall’infanzia.
In tanta varietà di modi e gesti
per dire la fede, la lode e la supplica a Dio, alla Vergine, ai Santi, è
anzitutto utile avere chiaro il centro di riferimento a cui ricondurre i
mille riverberi della pietà cristiana, in modo da superare la
dispersione, la parzialità di accenti, i rischi del pietismo e dello
sterile devozionalismo. Questo necessario riferimento cultuale è la
celebrazione liturgica dei misteri di Cristo, «fonte e culmine della
vita della Chiesa» (SC 10). Ogni espressione di fede pregata e vissuta
deve in qualche modo trarre ispirazione dalla liturgia e ad essa
condurre.
D’altro canto, basta la sola
liturgia per custodire una vita spiritualmente qualificata? La
tradizione ci ha consegnato una ricchezza di gesti e preghiere che
aiutano a sedimentare nella mente e nelle opere l’adesione a Gesù
Cristo. Da qui, allora, l’istanza oggi sentita: come valorizzare il
primato della liturgia senza deprezzare altre forme di preghiera,
perseguendo quell’armonizzazione tra liturgia e pietà popolare che
matura una fruttuosa vita cultuale nelle comunità – anche religiose - e
nei singoli credenti?
A questa domanda di fondo ha
inteso rispondere il Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e
orientamenti, pubblicato nel 2002 dalla Congregazione per il Culto
Divino e la Disciplina dei Sacramenti (= DPPL). I destinatari del
documento sono anzitutto i Vescovi e i loro collaboratori, ma anche «i
Superiori maggiori degli istituti di vita consacrata, maschili e
femminili, perché non poche manifestazioni della pietà popolare sono
sorte e si sono sviluppate in quell’ambito, e perché dalla
collaborazione dei religiosi e delle religiose e dei membri degli
istituti secolari molto si può attendere per la giusta armonizzazione
doverosamente auspicata» (DPPL 5).
1. Il
“Direttorio su pietà popolare e liturgia”
Il documento è articolato in
due parti, precedute da una Introduzione che traccia un quadro generale
di accostamento alla terminologia, ai criteri di base, al linguaggio
proprio della pietà popolare, alle responsabilità in materia.
Nella prima parte, intitolata
Linee emergenti dalla storia, dal Magistero, dalla teologia sono offerti
i dati per conoscere l’argomento e le sue implicazioni: è delineato
dapprima il cammino storico dei secoli passati e la problematica
odierna; è quindi esposto l’insegnamento del Magistero sulla pietà
popolare; sono ricordati infine i principi teologici alla cui luce
impostare il raccordo tra liturgia e pietà popolare. Nel sapiente
rispetto di questi presupposti è possibile sviluppare una feconda
armonizzazione, come chiesto dal Concilio.
La seconda parte, intitolata
Orientamenti per l’armonizzazione della pietà popolare con la liturgia,
contiene le indicazioni e le proposte concrete. L’esposizione è
raggruppata in primo luogo sul binario dell’Anno liturgico: la sintonia
con la celebrazione liturgica della Chiesa è la strada maestra che aiuta
la pietà popolare a trovare il riferimento giusto. Quindi sono presi in
esame alcuni ambiti che hanno grande peso e risvolto nella pietà
popolare: la venerazione per la Madre del Signore; la devozione verso
gli Angeli, i Santi e i Beati; i suffragi per i defunti; i pellegrinaggi
e i santuari.
Il Direttorio ha lo scopo di
orientare e anche se, in alcuni casi, previene possibili abusi e
deviazioni, ha un indirizzo costruttivo e un tono positivo. Fornisce
sulle singole devozioni brevi notizie storiche, ricorda i vari pii
esercizi in cui esse si esprimono, richiama le ragioni teologiche che ne
sono a fondamento, dà suggerimenti pratici e apre prospettive pastorali.
Viene così toccata tutta quell’ampia serie di aspetti che costituiscono
il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, come le formule
di preghiera, il canto e la musica, i gesti e le azioni, le immagini
sacre, i tempi (giorni, tridui, novene, mesi) e i luoghi (santuari,
chiesa, casa, strade, piazze, ambienti di lavoro…). Molto utile risulta
l’indice analitico, le cui voci permettono di reperire facilmente i
testi in cui si tratta l’argomento che interessa.
In quest’ottica, abbiamo tra
mano uno strumento volto ad aiutare l’azione pastorale di parrocchie e
di santuari, come altresì l’educazione spirituale di singoli fedeli, di
comunità religiose, di movimenti e associazioni. Il suo obiettivo, in
effetti, è di favorire una sapiente comprensione delle modalità del
culto cristiano, nella distinzione e nella complementarietà tra le
celebrazioni liturgiche della Chiesa e le altre forme di preghiera
antiche e nuove.
Sarebbe contro l’intento del
Direttorio promuovere la pietà popolare lasciando le cose come sono o
recuperando acriticamente le dismesse pratiche ereditate dal passato. Il
Documento non ha la mira di dare fiato a “qualsiasi” pietà popolare,
senza imprimerle un orientamento rinnovatore sul versante dell’azione
pastorale, quanto di illuminare il rapporto della pietà popolare con la
liturgia. Lo evidenzia il titolo e il sottotitolo del Direttorio. In
realtà, la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II non può non
avere una ricaduta anche sulla pietà non liturgica.
Nella linea
del Vaticano II
Se vi sono stati periodi in cui
la celebrazione liturgica era riduttivamente dischiusa al popolo, il
Concilio Vaticano II ha voluto “restituirla” ad esso, essendo un’azione
che riguarda e coinvolge, per natura sua, l’intero popolo di Dio.
Nell’evidenziare che la liturgia è «il culmine a cui tende l’azione
della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC
10), i Padri conciliari hanno tuttavia ricordato che «la vita spirituale
non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia» (SC 12). A
nutrire la spiritualità dei credenti contribuiscono, infatti, anche «i
pii esercizi del popolo cristiano» (SC 13).
Considerando questi anni
postconciliari, si possono osservare atteggiamenti contrastanti, a
seconda dei luoghi e delle tradizioni: si sono abbandonati modi di
pregare ereditati dal passato, con evidenti vuoti rimasti incolmati;
permangono modi imperfetti o errati di devozione, che pregiudicano il
primato della rivelazione biblica e dell’economia sacramentale per la
vita cristiana; ci sono critiche ingiustificate verso certi modi
semplici di dire la fede; c’è bisogno che la pietà popolare sia sorretta
dal Vangelo e dalla conversione della vita.
L’argomento è stato
esplicitamente indicato tra i compiti del rinnovamento dallo stesso
Giovanni Paolo II, ricordando che la «pietà popolare non può essere né
ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di
valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a
Dio. Ma essa ha bisogno di essere di continuo evangelizzata, affinché la
fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo e autentico. Tanto
i pii esercizi del popolo cristiano, quanto altre forme di devozione,
sono accolti e raccomandati purché non sostituiscano e non si mescolino
alle celebrazioni liturgiche. Un’autentica pastorale liturgica saprà
appoggiarsi sulle ricchezze della pietà popolare, purificarle e
orientarle verso la liturgia come offerta dei popoli» (Lettera
apostolica Vicesimus Quintus Annus, n. 18).
Sono parole preziose, che
sottolineano l’importanza di valorizzare la pietà popolare, di
purificarla dove è necessario, di ancorarla al Vangelo, di orientarla
alla liturgia, senza confusione né contrapposizioni indebite.
Il n. 13 di
Sacrosanctum Concilium
Su 130 numeri che compongono la
Costituzione sulla sacra liturgia, uno solo è direttamente dedicato ai
pii esercizi del popolo cristiano1.
L’argomento è toccato nel n. 13, a conclusione del capitolo I, titolato
Natura della liturgia e sua importanza nella vita della Chiesa, per
ricordare: il nesso dei pii esercizi (pietà popolare) con la liturgia,
senza assimilarli ad essa, essendo questa «di gran lunga superiore»; la
loro qualifica di espressione cultuale “cristiana” («del popolo
cristiano») e non qualsiasi. Ecco il testo conciliare:
«I pii esercizi del popolo
cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa,
sono vivamente raccomandati, soprattutto quando si compiono per
disposizione della Sede Apostolica.
Di speciale dignità godono anche
i sacri esercizi delle Chiese particolari, che vengono celebrati per
disposizione dei Vescovi, secondo le consuetudini o i libri
legittimamente approvati.
Bisogna però che tali esercizi,
tenuto conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in
armonia con la sacra liturgia, derivino in qualche modo da essa, e ad
essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo
cristiano».
Il contesto che lo precede è
significativo per coglierne la portata. Dopo aver sottolineato che la
liturgia è il culmine e la fonte della vita della Chiesa (n. 10) e le
disposizioni d’animo per parteciparvi con frutto (n. 11), Sacrosanctum
Concilium tiene a precisare che «la vita spirituale, tuttavia, non si
esaurisce nella partecipazione alla sola sacra liturgia», introducendo
così la vocazione di ciascun credente alla preghiera incessante,
privata, tradotta in vita cristianamente vissuta (n. 12). Quindi tratta
appunto dei pii esercizi (n. 13).
I pii esercizi del popolo
cristiano sono tutelati e garantiti dall’autorità responsabile. Ossia,
sono quelle pratiche cultuali non-liturgiche, conformi alle leggi e
norme della Chiesa e raccomandate dalla Santa Sede o dal Vescovo per la
sua diocesi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati.
Dunque, non tutto ciò che appartiene alla preghiera non-liturgica va
posto sullo stesso piano e trattato con medesimo giudizio: ci sono forme
di pietà approvate dai Pastori, appartenenti alla tradizione di una
Chiesa particolare (o di un istituto religioso) e altre per così dire
non regolamentate; la pietà popolare si differenzia secondo le
consuetudini e le tradizioni (anche culturali) delle Chiese particolari,
e pertanto non dice uniformità.
Il senso e il posto dei pii
esercizi è, per così dire, “ipotecato” dal riferimento alla liturgia,
«data la sua natura di gran lunga superiore». Dopo la premessa: tenuto
conto dei tempi liturgici, SC 13 chiede che i pii esercizi siano
regolati da una triplice istanza, descritta con tre verbi da prendersi
insieme: «siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra
liturgia, derivino in qualche modo da essa, e ad essa conducano il
popolo cristiano».
I criteri esposti in
Sacrosanctum Concilium per i pii esercizi sono estesi dal Direttorio
alle molteplici forme di devozione del popolo cristiano, articolando in
tal modo il rapporto pietà popolare e liturgia.
Pietà
“popolare”
Mentre Sacrosanctum Concilium
parla di pii esercizi del popolo cristiano e sacri esercizi, il
Direttorio preferisce la categoria pietà popolare. Se è certo che i pii
esercizi fanno parte della pietà popolare, questa non è però esaurita da
quelli. Se con “pii esercizi” si intende un genere cultuale ben
individuato2,
la denominazione “pietà popolare” rappresenta piuttosto una categoria di
riferimento per molteplici forme di preghiera, non assimilabili alla
liturgia. Senza pretendere di dare definizioni, il Direttorio descrive
il vocabolario invalso per indicare pratiche e devozioni diverse,
accomunabili sotto la comune accezione di “pietà popolare”3.
Intorno all’aggettivo
“popolare”, la prima considerazione è che non si oppone sbrigativamente
a elitario, quasi a dire che la pietà popolare si contrappone alla
liturgia, vista come non-popolare.
I Padri conciliari hanno
asserito a chiare lettere che la celebrazione liturgica è l’azione per
eccellenza del popolo di Dio, lo manifesta e lo implica (cf SC 7 e 26).
Del resto, devozioni e forme di pietà sono praticate, già nel Medioevo,
da chierici, religiosi e laici; non sono “esclusive” della gente
incolta, in breve del “popolo” visto come massa rispetto a pochi: la
pietà “popolare” ha riguardato per secoli il clero come i laici, anche
se, almeno in certe epoche, i laici vi hanno trovato maggiore e diretto
coinvolgimento rispetto alla celebrazione liturgica.
Il Concilio ha guidato a
riscoprire e, attraverso la riforma, a promuovere la liturgia come
azione del Corpo di Cristo-Chiesa, in cui ciascuno – ministro ordinato e
laico - è chiamato a parteciparvi compiendo la “propria” parte (cf SC
26).
La seconda considerazione è che
sotto pietà popolare viene accorpato ciò che, pur essendo cultuale, non
appartiene alla liturgia. In tal senso, pietà popolare equivale a
preghiera non-liturgica: sono preghiere e gesti, individualmente o
comunitariamente compiuti, per esprimere la lode e la supplica a Dio, a
Cristo, allo Spirito, alla Vergine, ai Santi, come i suffragi per i
defunti, che si avvicinano in qualche aspetto più o meno evidente alla
liturgia, senza tuttavia condividerne lo statuto.
La terza considerazione è che la
pietà popolare si distanzia dalla religiosità popolare, essendo, la
prima, informata dalla rivelazione biblico-cristiana4.
Pur esprimendo il sentire dell’uomo verso Dio, ossia l’aspetto dal basso
verso l’alto, la pietà popolare dovrebbe comunque evidenziare tra gli
altri aspetti - culturale, sociale, religioso, ecc. - , il riferimento
al Vangelo e non semplicemente al trascendente indeterminato, alla
credenza soggettiva.
2. Che cos’ è
la pietà popolare?
Rispondere a questa domanda
permette di cogliere la natura, lo scopo, la funzione, le modalità, i
valori, i limiti della pietà popolare. In breve, si tratta di capire che
cosa è la pietà popolare distinguendola sia da ciò che essa non è
(religiosità, superstizione, ritualità pre-cristiana), sia da ciò che è
liturgia.
Pietà
popolare e non
Distinguendo tra pietà popolare
e religiosità popolare, il Direttorio instrada a discernere gli elementi
connotativi la pietà del popolo cristiano: il genio e la cultura di un
popolo rappresentano, infatti, la trama a cui si annodano le espressioni
della fede della Chiesa nel Dio di Gesù Cristo. Se «ogni popolo tende ad
esprimere la sua visione totalizzante della trascendenza e la sua
concezione della natura, della società e della storia attraverso
mediazioni cultuali, in una sintesi di grande significato umano e
spirituale» (DPPL 10), non è scontato che tali mediazioni cultuali e
popolari - ossia comuni in un dato popolo - siano sempre positive e
valide per dire la fede e la preghiera cristiana. Come per il cristiano
non basta dire che esiste Qualcuno o Qualcosa, così anche la pietà
popolare deve far trasparire il volto di Cristo e la comunione con la
Chiesa. Per dirsi tale, la pietà del popolo cristiano deve essere
marcata - senza pretesa di completezza e di sistematicità - dal
riferimento alla rivelazione biblica e dalla garanzia della Chiesa5.
I pericoli che possono sviarla6
esortano a cogliere il discrimine tra pietà popolare e non più o non
ancora pietà popolare: assenza e scarsità di elementi essenziali della
fede cristiana; squilibrio tra culto dei Santi e coscienza dell’assoluto
primato dovuto a Cristo; impercettibile contatto con la Sacra Scrittura;
isolamento dall’economia sacramentale; separazione tra gesti di pietà e
impegno di vita; concezione utilitaristica e cosicistica della pietà;
svilimento dei gesti di pietà in spettacolarità; induzione alla
superstizione, magia, fatalismo.
Poiché si deve percepire il
senso del credere in Cristo con la Chiesa e non dell’una o l’altra
esperienza di religiosità o credenza, la pietà popolare esige che, chi
la pratica, percepisca il significato veicolato da atteggiamenti, gesti
e parole cultuali. In effetti, identiche forme esteriori, rinvenibili
nella pietà come nella religiosità popolare - digiuni, pellegrinaggi,
danza, accensione di ceri, immersione in acqua sorgiva ecc. - dicono di
fatto un contenuto differente. Affinché possa dirsi “pietà del popolo
cristiano”, vi è dunque un dato positivo da riscontrare (la retta
dottrina della Chiesa) ed uno negativo da escludere (ciò che contrasta
la fede cristiana).
Pietà
popolare e celebrazione liturgica
Due forme parallele di preghiera
o piuttosto due modalità con caratteristiche non intercambiabili, ma
entrambe legittime seppure con diverso peso specifico? Trattando di
pietà popolare in rapporto con la liturgia, il Direttorio ne mostra il
legame e insieme la distinzione.
La pietà popolare (o termine
equivalente in passato) è sempre esistita nella Chiesa, ma non per ogni
epoca si deve parlare di un distacco, talora di contrapposizione alla
liturgia. Ciò è accaduto in modo più evidente in certi periodi7,
anche se con fisionomie differenti secondo le problematiche che via via
si affacciavano in dati tempi e luoghi. Conoscere la storia bimillenaria
di tale rapporto8
è premessa per rendersi conto del come e perché certi nodi si sono
stretti, individuando la via per il loro scioglimento. Il Direttorio
ricorda che: «La storia mostra anzitutto che il corretto rapporto tra
liturgia e pietà popolare viene turbato allorché nei fedeli si attenua
la coscienza di alcuni valori essenziali della liturgia stessa» (n. 48).
Il primato della liturgia,
dunque, è luce che rischiara la portata e il senso della pietà popolare.
Ecco la meditata parola del
Concilio in proposito: «Ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di
Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per
eccellenza e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo
stesso grado, ne uguaglia l’efficacia» (SC 7); e ancora, «la natura
(della liturgia è) di gran lunga superiore» rispetto ai pii esercizi (SC
13). E’ facile osservare che a comprendere che cosa è la pietà popolare
si perviene mettendo a fuoco, nella mente e nell’esperienza dei fedeli,
che cosa è la liturgia, la sua eccellenza ed insostituibilità per vivere
in Cristo. Accenniamo ad alcuni principi.
La presenza reale di Cristo
definisce l’economia liturgico-sacramentale (cf SC 7). Uguale “presenza”
non è asserita per la pietà popolare9.
Ciò non significa squalificare o disprezzare come insignificante ciò che
non ha lo statuto “sacramentale” della liturgia, ma dare ad esso la sua
corretta valenza.
La liturgia dipende dalla
volontà istitutiva di Cristo e dal pronunciamento della Chiesa: nel noto
adagio «la Chiesa fa la liturgia e la liturgia fa la Chiesa» non può
sostituirsi liturgia con pietà popolare. Le azioni liturgiche
costituiscono e incrementano la vitalità della Chiesa di Cristo: pur
nelle variazioni rituali occorse nei secoli e nella diversa tradizione
delle Famiglie liturgiche d’Oriente e Occidente, la sostanza della
liturgia è rimasta invariata. L’Eucaristia celebrata dalla comunità
apostolica e nel corso dei secoli fino ad oggi, in ogni Chiesa cattolica
sparsa nel mondo, è la medesima nella sostanza e nel fine: memoriale
della morte e risurrezione di Cristo e partecipazione al suo mistero
pasquale. Non si può dire, invece, che la pietà popolare del tempo di
Sant’Agostino sia identica all’odierna, e che quella di un paese del sud
Italia sia come quella di un paese della Germania. Ne consegue che le
pie pratiche e devozioni che conosciamo, fiorite soprattutto a partire
dal Medioevo, non sono essenziali al vivere in Cristo.
La liturgia è necessaria per
vivere e crescere in Cristo nella Chiesa, mentre la pietà popolare
appartiene al facoltativo, pur se talora raccomandato10.
Ciò non equivale a screditare le forme di preghiera e di devozione,
bensì a valutare le cose con occhio lucido. La facoltatività non dice
scarsa bensì giusta valutazione11.
In verità, talvolta la pietà popolare risulta “indispensabile” ai fedeli
(compreso il clero), essendo la sola forma cultuale concretamente
possibile in date circostanze e situazioni (rarità della Messa;
impossibilità di parteciparvi per malattia, impedimento, coercizione da
parte di altri).
La celebrazione liturgica sta
alla pietà popolare come l’oggettivo sta al soggettivo (che non è
soggettivismo - secondo il mio piacere, sentire, gusto - essendo in
qualche modo sottoposta all’autorità competente12).
L’oggettivo dice che l’accadimento avviene al di là della capacità e
bontà umana, essendo opera di Dio; perciò la liturgia è anzitutto
teologia. Il soggettivo dice invece il relazionarsi dell’uomo con Dio a
partire dal “proprio” mondo, muovendosi perciò piuttosto nell’ambito
antropologico. Non a caso un capitolo importante della pietà popolare è
rappresentato infatti dall’“umano” sentire in “questo” tempo e contesto
storico-socio-culturale.
Se nell’azione liturgica
l’agente principale è Dio, è anzitutto la dimensione discendente a
definirla. La dimensione ascendente della Chiesa celebrante (lode,
invocazione, supplica) è risposta - in, con, per Cristo - che consegue
alla precedente azione divina. La pietà popolare fa leva sul movimento
ascendente, senza escludere la dimensione discendente13,
che tuttavia non uguaglia l’efficacia della liturgia allo stesso titolo
e allo stesso grado (cf SC 7).
Nulla è privato nella liturgia,
essendo sempre azione ecclesiale (cf SC 26). La pietà popolare è invece
privata: anche se compiuta insieme ad altri, anche sotto la presidenza
del sacerdote, non varca la soglia “ecclesiale” della liturgia. Tant’è
che nel rito romano la “sostanziale unità” viene richiesta dalla Chiesa
soltanto in materia liturgica: una medesima liturgia per l’unica Chiesa,
a fronte di una molteplicità di espressioni e modi nella pietà popolare.
E’ rilevante dunque nutrire una
retta visione “teologica” del fatto cultuale della Chiesa: vi è un cuore
e una circolarità di rete sanguigna. C’è una gerarchia di valori, dove
tutto è importante al “proprio” posto: al centro vi sono i sacramenti
(istituiti da Cristo), quindi i sacramentali (istituiti dalla Chiesa),
le benedizioni (celebrazioni normate da libri liturgici), la pietà
popolare (formule e pratiche approvate e raccomandate dalla Chiesa,
senza una forma assolutamente vincolante14).
Nel Catechismo della Chiesa
Cattolica il tema della religiosità popolare si trova, dopo le
benedizioni, nell’articolo sui sacramentali (cf 1674-1676). Valga, a
conclusione, quanto ricordato al n. 58 del Direttorio:
«Liturgia e pietà popolare sono
due espressioni legittime del culto cristiano, anche se non omologabili.
Esse non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare come viene
descritto nella Costituzione liturgica (…). Liturgia e pietà popolare
sono quindi due espressioni cultuali da porre in mutuo e fecondo
contatto: in ogni caso tuttavia la liturgia dovrà costituire il punto di
riferimento per “incanalare con lucidità e prudenza gli aneliti di
preghiera e di vita carismatica” che si riscontrano nella pietà
popolare; dal canto suo la pietà popolare, con i suoi valori simbolici
ed espressivi, potrà fornire alla liturgia alcune coordinate per una
valida inculturazione e stimoli per un efficace dinamismo creatore».
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