n. 1
gennaio 2003

 

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SOBRIAMENTE
di Maria Mori
 

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E se cancellassimo il voto di povertà?

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Povertà è morta!

E’ morta, o forse non è mai nata.

Non c’è mai stata, o probabilmente si è smarrita nelle pieghe della storia della vita religiosa, perduta tra le pagine di una Leggenda dal sapore francescano.

Povertà non esiste. Esistono i poveri.

I poveri. I poveri che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri che non possiedono la terra e si accalcano nelle periferie delle megalopoli del Sud del mondo. I poveri che non hanno l’acqua e che perennemente camminano con un secchio sulla testa. I poveri che non hanno lavoro. I poveri che non hanno istruzione. I poveri ignorati dal vertice di Johannesburg. I poveri che non contano, che non compaiono, che non sono. I poveri.

Di fronte a loro, diciamolo con franchezza, noi religiosi siamo ricchi, se non altro perché quella che per due miliardi di persone è condizione subita, per noi è libera scelta che si trasforma in voto, vincolo, impegno, giogo liberante.

All’inizio di questo nuovo anno, una provocazione: perché non cancellare dalle nostre Costituzioni il termine povertà, che spesso suona come beffa di fronte ai veri poveri? Perché non cancellarlo e sostituirlo con il più modesto ed onesto sobrietà?

 Sobrietà appartiene a un vocabolario “minore”, è un termine umile, per nulla appariscente, così da essere talora coniugato con mediocrità; ma in realtà questa è una parola incandescente e rivoluzionaria, una sfida e un impegno che chiama alla concretezza, che chiede risposte e verifiche quotidiane.

Sobrietà è igiene mentale, che ci permette di sfuggire alle trappole della pubblicità e alla logica del “così fan tutti”, per imparare a distinguere tra veri e falsi bisogni, tra esigenze reali della persona e necessità imposte dalla logica di mercato.

Sobrietà è stile di vita “ecologico”, che chiama all’uso rispettoso dei beni della terra, quei beni che all’alba della Storia ci furono affidati perché li custodissimo e li moltiplicassimo, ma in modo naturale, non transgenico e soprattutto senza sperperi.

Sobrietà è spiritualità, che c’invita a riscoprire il nostro essere creature, che tutto ricevono in dono, che nulla possiedono di loro proprio. Che c’invita a considerarci come pellegrini, che camminano e passano sulla scena di questo mondo e, perciò, non seguono mode consumistiche, non ammassano, non speculano, ... Bensì credono in sorella Provvidenza e si fidano del Padre che sa di che cosa hanno bisogno i suoi figli.

Sobrietà è pensiero economico che sa stimare il valore d’ogni creatura e cosa, che ci fa discernere e valutare e dire: “Questo basta. Questo mi basta”.

Sobrietà è filosofia del pane quotidiano, del a ciascun giorno basta la sua pena. Filosofia della strada che ci aiuta a non affannarci troppo del domani bensì a gustare il qui e ora in cui ci muoviamo, con ottimismo e speranza.

Sobrietà è scelta politica, che ha un peso sulla nostra vita e lascia un segno nella vita degli altri. Che denuncia, anche se col sorriso sulle labbra, le strutture di peccato che vogliono uccidere il mondo. Che mostra come l’opulenza del venti per cento della popolazione mondiale produca il disastro ambientale nel Nord del mondo e la desertificazione nel Sud. L’anoressia in Europa e la morte per fame in Afrika. La disoccupazione in Italia e la guerra in Sudan.

 Sobrietà: così umile e così grande, così semplice e così difficile da vivere, perché ci costringe a uscire dai grandi proclami generali, perché richiede un progetto concreto, perché chiama all’azione. Essa non può essere pensata se non come scelta comunitaria, come opzione di Congregazione o, ancor meglio, come decisione di più Congregazioni riunite insieme. E’ forse tempo di abbandonare un certo tipo di umiltà, falsa, che ci fa stare alla finestra, spettatrici inermi di inique decisioni politiche ed economiche, che ci impedisce di prendere con coraggio decisioni profetiche, che ci allontana dal vivere la parresia dei discepoli di Gesù. Ora è tempo di mostrare, nel quotidiano, che noi siamo nel mondo ma non del mondo. E’ tempo di associarci affinché le nostre scelte escano dalle nostre cappelle e sale comunitarie per diventare finalmente visibili a tutti, anche agli indifferenti.

Non si tratta di fare rivoluzioni, di stendere proclami, di agitare megafoni, bensì di vivere, tutte, tutte insieme e tutte nello stesso tempo una dimensione che ha accompagnato la vita religiosa sin dal suo nascere.

E se sapremo vivere sobriamente fino in fondo, allora anche il nostro voto di povertà riprenderà smalto, colore, sapore, valore. Possiamo crederci!

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