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Povertà è morta!
E’ morta, o forse non è
mai nata.
Non c’è mai stata, o
probabilmente si è smarrita nelle pieghe della storia della vita
religiosa, perduta tra le pagine di una Leggenda dal sapore francescano.
Povertà non esiste.
Esistono i poveri.
I poveri. I poveri che
vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri che non possiedono la
terra e si accalcano nelle periferie delle megalopoli del Sud del mondo.
I poveri che non hanno l’acqua e che perennemente camminano con un
secchio sulla testa. I poveri che non hanno lavoro. I poveri che non
hanno istruzione. I poveri ignorati dal vertice di Johannesburg. I
poveri che non contano, che non compaiono, che non sono. I poveri.
Di fronte a loro,
diciamolo con franchezza, noi religiosi siamo ricchi, se non altro
perché quella che per due miliardi di persone è condizione subita, per
noi è libera scelta che si trasforma in voto, vincolo, impegno, giogo
liberante.
All’inizio di questo
nuovo anno, una provocazione: perché non cancellare dalle nostre
Costituzioni il termine povertà, che spesso suona come beffa di fronte
ai veri poveri? Perché non cancellarlo e sostituirlo con il più modesto
ed onesto sobrietà?
Sobrietà appartiene a
un vocabolario “minore”, è un termine umile, per nulla appariscente,
così da essere talora coniugato con mediocrità; ma in realtà questa è
una parola incandescente e rivoluzionaria, una sfida e un impegno che
chiama alla concretezza, che chiede risposte e verifiche quotidiane.
Sobrietà è igiene
mentale, che ci permette di sfuggire alle trappole della pubblicità e
alla logica del “così fan tutti”, per imparare a distinguere tra veri e
falsi bisogni, tra esigenze reali della persona e necessità imposte
dalla logica di mercato.
Sobrietà è stile di
vita “ecologico”, che chiama all’uso rispettoso dei beni della terra,
quei beni che all’alba della Storia ci furono affidati perché li
custodissimo e li moltiplicassimo, ma in modo naturale, non transgenico
e soprattutto senza sperperi.
Sobrietà è
spiritualità, che c’invita a riscoprire il nostro essere creature, che
tutto ricevono in dono, che nulla possiedono di loro proprio. Che
c’invita a considerarci come pellegrini, che camminano e passano sulla
scena di questo mondo e, perciò, non seguono mode consumistiche, non
ammassano, non speculano, ... Bensì credono in sorella Provvidenza e si
fidano del Padre che sa di che cosa hanno bisogno i suoi figli.
Sobrietà è pensiero
economico che sa stimare il valore d’ogni creatura e cosa, che ci fa
discernere e valutare e dire: “Questo basta. Questo mi basta”.
Sobrietà è filosofia
del pane quotidiano, del a ciascun giorno basta la sua pena. Filosofia
della strada che ci aiuta a non affannarci troppo del domani bensì a
gustare il qui e ora in cui ci muoviamo, con ottimismo e speranza.
Sobrietà è scelta
politica, che ha un peso sulla nostra vita e lascia un segno nella vita
degli altri. Che denuncia, anche se col sorriso sulle labbra, le
strutture di peccato che vogliono uccidere il mondo. Che mostra come
l’opulenza del venti per cento della popolazione mondiale produca il
disastro ambientale nel Nord del mondo e la desertificazione nel Sud.
L’anoressia in Europa e la morte per fame in Afrika. La disoccupazione
in Italia e la guerra in Sudan.
Sobrietà: così umile e
così grande, così semplice e così difficile da vivere, perché ci
costringe a uscire dai grandi proclami generali, perché richiede un
progetto concreto, perché chiama all’azione. Essa non può essere pensata
se non come scelta comunitaria, come opzione di Congregazione o, ancor
meglio, come decisione di più Congregazioni riunite insieme. E’ forse
tempo di abbandonare un certo tipo di umiltà, falsa, che ci fa stare
alla finestra, spettatrici inermi di inique decisioni politiche ed
economiche, che ci impedisce di prendere con coraggio decisioni
profetiche, che ci allontana dal vivere la parresia dei discepoli di
Gesù. Ora è tempo di mostrare, nel quotidiano, che noi siamo nel mondo
ma non del mondo. E’ tempo di associarci affinché le nostre scelte
escano dalle nostre cappelle e sale comunitarie per diventare finalmente
visibili a tutti, anche agli indifferenti.
Non si tratta di fare
rivoluzioni, di stendere proclami, di agitare megafoni, bensì di vivere,
tutte, tutte insieme e tutte nello stesso tempo una dimensione che ha
accompagnato la vita religiosa sin dal suo nascere.
E se sapremo vivere
sobriamente fino in fondo, allora anche il nostro voto di povertà
riprenderà smalto, colore, sapore, valore. Possiamo crederci!
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