La celebrazione
della giornata mondiale per la pace assume quest’anno un significato
particolare. Gli interrogativi e le sfide restano tuttora forti, anzi
rischiano di accentuarsi. In un contesto sempre più globalizzato e
interdipendente, le tensioni internazionali e le minacce del terrorismo
si intrecciano con le contrapposizioni violente, troppo spesso ignorate
dai media ma non per questo meno pericolose, all’interno delle nazioni.
Soprattutto deve preoccupare l’attenzione tuttora insufficiente alla
invocazione di una effettiva giustizia per tutti, con la conseguente
trasformazione dei poveri in minaccia e perfino in nemici. La paura
diventa allora “valore” che legittima ogni cosa, purché sia capace di
difendere il benessere che abbiamo raggiunto. Così il divario tra chi ha
e chi non ha, invece che diminuire, continua ad accentuarsi, ponendo le
premesse per ulteriori tensioni e contrapposizioni.
L’urgenza di rinnovare insieme l’impegno per la pace, che deriva da
questa complessa situazione, viene però quest’anno illuminata dalla
memoria della Pacem in terris, l’enciclica profetica con la
quale, quarant’anni fa, in un momento di tensioni ancora più minacciose,
Giovanni XXIII ha tracciato «con fiduciosa speranza» gli elementi
essenziali per una pace vera: un «ordine fondato sulla verità, costruito
secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità, e posto in atto
nella libertà» (n. 89).
Ricordare il coraggio e la forza profetica della
Pacem in terris non può essere una semplice commemorazione, ma deve
sfociare in un ulteriore approfondimento delle sue indicazioni. Del
resto queste sarebbero state ben presto assunte dal Concilio,
soprattutto nella Gaudium et spes; e i testi conciliari, ricorda
Giovanni Paolo II, «a mano a mano che passano gli anni… non perdono
il loro valore né il loro smalto», anzi si pongono oggi come
«sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre» (NMI
57).
Si tratta di indicazioni che ci toccano da vicino e
sono capaci di ispirare la nostra vita a tutti i livelli. La costruzione
della pace non può essere lasciata solo a coloro che hanno
responsabilità di governo o vissuta solo in alcuni momenti privilegiati:
è impegno permanente che deve impregnare la nostra vita quotidiana,
determinando scelte e orientamenti.
Diritti e doveri
Occorre innanzitutto ricordare l’orizzonte ampio e
impegnativo in cui la Pacem in terris colloca la costruzione
della pace. Essa mette in discussione stili di vita e strutture,
chiedendo, a tutti i livelli, rinnovamento, inventività, conversione.
Non può essere ridotta solo all’equilibrio della paura, sempre troppo
fragile1.
Va perseguita come frutto di giustizia, di verità, di carità, di
libertà.
A fondamento di tutto l’enciclica pone la persona e
la sua dignità: «una convivenza ordinata e feconda» è possibile solo
assumendo come base «il principio che ogni essere umano è persona… e
quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente
e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono
perciò universali, inviolabili, inalienabili». È una dignità che, se
viene considerata «alla luce della rivelazione divina», si svela subito
«incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal
sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di
Dio e costituiti eredi della gloria eterna» (n. 5).
I
diritti della persona e di ogni persona, senza alcuna discriminazione,
costituiscono il criterio e la misura che devono determinare le scelte,
personali e sociali, se si vuole instaurare un vero ordine di pace tra
tutti gli esseri umani. Giovanni XXIII li riassume in maniera rapida,
partendo da quelli fondamentali «all’esistenza e a un tenore di vita
dignitoso», ai «valori morali e culturali» e ad «onorare Dio secondo il
dettame della retta coscienza», per arrivare a quelli «attinenti il
mondo economico» e «a contenuto politico» (n. 6-13).
Da soli però i diritti non possono garantire un
effettivo cammino di pace. È necessario che vengano percepiti e vissuti
anche come doveri. La Pacem in terris sottolinea in maniera forte
tale reciprocità: i diritti «sono indissolubilmente congiunti, nella
stessa persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri;
e hanno entrambi nella legge naturale, che li conferisce o che li
impone, la loro radice, il loro alimento, la loro forza indistruttibile»
(n.14).
Inoltre ogni diritto in una persona «comporta un
rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e
rispettare quel diritto. Infatti ogni diritto fondamentale della persona
trae la sua forza morale insopprimibile dalla legge naturale che lo
conferisce e impone un rispettivo dovere». Si tratta di una reciprocità
che è impossibile scindere; fare diversamente significherebbe correre
«il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra» (n.
15).
Si tratta di affermazioni che conservano tutta la
loro attualità. Credo anzi che oggi c’è bisogno di un impegno maggiore
per riproporle e approfondirle. Avvertiamo tutti quanto si sia fatta
forte la sfida di una cultura dei diritti che li riduce a sola
rivendicazione. Occorre testimoniare con franchezza che essi conservano
tutto il loro valore e diventano fonte e criterio di incontro e di
pacifica convivenza solo quando vengono visti anche come imperativi
etici che impegnano personalmente.
Nasce allora la corresponsabilità solidale per la
loro attuazione in favore di tutti. È l’altra sfida, altrettanto grave,
della nostra cultura. Il rischio infatti di applicare anche ai diritti
la logica del libero mercato, in cui valgono solo le ragioni dei più
forti, si va accentuando nella nostra società.
Le parole di Giovanni XXIII invitano invece a un
impegno solidale, partendo dalla natura sociale propria di ogni essere
umano: «Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono
nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri. Ciò
richiede che la convivenza umana sia ordinata e quindi che i vicendevoli
diritti e doveri siano riconosciuti e attuati; ma richiede pure che
ognuno porti generosamente il suo contributo alla creazione di ambienti
umani in cui diritti e doveri siano sostanziati da contenuti sempre più
ricchi» (n. 16)2.
Le comunità
religiose sono chiamate a svolgere una particolare opera di annuncio, di
testimonianza e di stimolo al riguardo. Se infatti resta ancora molto
cammino da compiere perché in tutti i contesti si affermi la logica dei
diritti3,
più grande ancora è l’impegno richiesto per far riscoprire che essi
dicono sempre anche dovere e condivisione. Non si tratta però solo di
parole: occorrono la testimonianza trasparente del vissuto concreto
delle nostre comunità e l’effettiva solidarietà con chi è impegnato a
promuovere tale nuova cultura.
Guardando al mondo intero
Il radicamento nei fondamentali diritti della
persona non rinchiude la proposta della Pacem in terris in prospettive
individualistiche o di breve respiro, ma apre su orizzonti
socio-politici ampi, a livello nazionale e del mondo intero.
Vanno costruiti innanzitutto rapporti corretti
all’interno delle singole comunità politiche. Il criterio fondamentale è
quello del bene comune inteso come «l’insieme di quelle condizioni
sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo
integrale della loro persona». Va perciò progettato e attuato sempre in
riferimento a «tutto l’uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle
esigenze del suo spirito» (n. 35).
La crisi del senso del bene comune resta forte nel
nostro contesto. Sotto la spinta della cultura neocapitalista, diventa
più difficile sentirne tutta l’importanza e la priorità nei riguardi dei
beni dei singoli. Rischiamo anzi di non comprenderlo adeguatamente in
quella sua specificità, che non lo fa ridurre alla sola somma dei beni
dei singoli o identificare con gli interessi delle maggioranze.
È una crisi dalla quale non sono immuni le stesse
comunità religiose. Le conseguenze a livello di conflitti e di tensioni
sono sotto gli occhi di tutti. Ma spesso ci limitiamo a disapprovare
scelte e gesti, particolarmente duri, senza però preoccuparci di
arrivare alle radici. Occorre impegnarsi per una vera cultura del bene
comune: non basta riaffermarne il valore e il significato, è necessario
farlo sperimentare come l’unica possibilità per costruire effettivamente
gli stessi beni dei singoli.
Contemporaneamente è necessario aprire gli orizzonti
del bene comune sul mondo intero. Anche a questo riguardo le parole
della Pacem in terris restano di forte attualità: «I recenti progressi
delle scienze e delle tecniche incidono profondamente sugli esseri
umani, sollecitandoli a collaborare tra loro e orientandoli verso una
convivenza unitaria a raggio mondiale. Si è infatti intensamente
accentuata la circolazione delle idee, degli uomini, delle cose».
Tutto questo va di pari passi con l’approfondimento
della «interdipendenza tra le economie nazionali», fino a «diventare
ciascuna quasi parte integrante di un’unica economia mondiale». Ne
deriva che «il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza e la pace
all’interno di ciascuna comunità politica è in rapporto vitale con il
progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, la pace di tutte le altre
comunità politiche» (n. 68).
Nei quarant’anni che ci separano dalla pubblicazione
dell’enciclica, questo intreccio di interdipendenze e di scambi si è
andato sempre più infittendo. Il volto del nostro mondo è divento quello
del “villaggio globale”, in cui tutti conoscono tutti, e del “mercato
globale” in cui tutti possono comprare e vendere a tutti e di tutto.
Purtroppo però è un volto delineato in maniera troppo prevalente dal
potere dei forti e dei ricchi. Le ingiustizie e le tensioni, invece che
diminuire, rischiano così di accentuarsi, creando ulteriori
interrogativi per la pace.
È indispensabile una riprogettazione etica dei
processi di interdipendenza che sappia fondere la libertà con la
solidarietà, delineando un bene comune che sia veramente tale per il
mondo intero, attraverso l’effettiva promozione dei diritti di tutti.
Anche a questo riguardo la parola della Pacem in terris resta
stimolante: «Come il bene comune delle singole comunità politiche, così
il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo
alla persona umana». Ne deriva che «i poteri pubblici della comunità
mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento,
il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona: con
un’azione diretta, quando il caso lo comporti; o creando un ambiente a
raggio mondiale in cui sia reso più facile ai Poteri pubblici delle
singole comunità politiche svolgere le proprie specifiche funzioni» (n.
73).
Si tratta di un rispetto e di una promozione da
cominciare sempre partendo dai più deboli e indifesi. La comunità
cristiana è tenuta a testimoniare questa scelta preferenziale con tutte
le sue forze: su di essa «non meno che sul versante dell’ortodossia, la
Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo». Pur non escludendo
nessuno dal suo amore, essa sa che nella persona dei poveri c’è una
presenza speciale del Cristo, che impone «un’opzione preferenziale per
loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell’amore di Dio,
la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano
ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose
nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per
tutte le necessità spirituali e materiali» (NMI 49).
Le comunità
religiose sono chiamate e riprogettare in questa prospettiva le loro
presenze e il loro stile di vita. Potranno essere effettivamente fedeli
alla loro vocazione solo se sapranno stare
dalla parte dei
deboli, facendosi voce delle loro attese
e dei loro bisogni, attraverso un discernimento sempre rinnovato delle
povertà e delle ingiustizie. Mi sembra che troppe volte lo diamo per
scontato, ma poi finiamo per restare prigionieri delle logiche oggi
dominanti, dimenticando che l’applauso, i numeri, il successo possono
trasformarci in falsi profeti (cf Lc
6,22-26).
Lo
sguardo di speranza
Tutto questo chiede di assumere sempre l’angolazione
e lo sguardo della speranza. Le analisi e le denunce sono certamente
indispensabili, ma non bastano. Occorre individuare i passi che è
possibile e doveroso compiere per l’effettivo superamento delle
ingiustizie e delle tensioni. A volte si ha l’impressione che ci si
fermi alla denuncia; anzi che la si svalori in “spettacolo”, inserito e
usato dal sistema per non modificarsi. È necessario imparare a lasciarsi
guidare dalla logica della gradualità che sola può veramente costruire.
Questo sguardo di speranza, che coglie le
possibilità, invitando a concentrare su di esse l’impegno comune, è uno
dei tratti che Pacem in terris non si stanca di sottolineare. Il
richiamo ai segni dei tempi e al loro discernimento torna con insistenza
in tutte le sue parti.
È sufficiente rileggere la maniera in cui siamo
invitati a leggere la crescente coscienza dei diritti: «è diffusa assai
largamente la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità
naturale. Per cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna
giustificazione, almeno sul piano della ragione e della dottrina; ciò
rappresenta una pietra miliare sulla via che conduce all’instaurazione
di una convivenza umana» veramente pacifica. In coloro infatti in cui
affiora la coscienza dei diritti «non può non sorgere l’avvertimento dei
rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far
valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in
tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi
diritti e di rispettarli».
Ci si apre allora «sul mondo dei valori spirituali»,
comprendendo «che cosa sia la verità, la giustizia, l’amore, la libertà»
e diventando «consapevoli di appartenere a quel mondo» (n. 24-25).
È lo sguardo del Cristo sulla nostra miseria, per
aprirci alla salvezza. È lo sguardo che lo stesso Giovanni XXIII, nella
solenne omelia inaugurale, non esita a mettere alla base di tutto il
cammino del Vaticano II: la lettura cristiana della storia non può
essere opera dei «profeti di sventura» che, essendo privi del
discernimento evangelico e del prudente giudizio, «annunziano eventi
sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo», ma di chi
riesce a cogliere che «nel presente momento storico, la Provvidenza ci
sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera
degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa si
volgono verso il compimento di disegni superiori ed inattesi»4.
È lo sguardo che i nostri vescovi ci chiedono oggi
di assumere per un cammino fedele al «compito primario» della chiesa:
«testimoniare la gioia e la speranza originate dalla fede nel Signore
Gesù Cristo, vivendo nella compagnia degli uomini, in piena solidarietà
con loro, soprattutto con i più deboli»5.
Sarà allora possibile discernere «l’oggi di Dio», trovando nella cultura
e negli avvenimenti attuali innanzitutto «potenzialità» per l’annuncio
del Vangelo, per poi affrontare alla loro luce anche gli immancabili
«ostacoli»6.
Dialogo e annuncio
La necessità del dialogo per la pace tra tutti gli
uomini di buona volontà costituisce l’ulteriore elemento profetico della
Pacem in terris. Nel contesto storico, in cui l’enciclica fu
promulgata, esso venne sottolineato in maniera particolare, anche perché
essa era esplicitamente indirizzata anche a «tutti gli uomini di buona
volontà». È un dialogo teso a rimuovere incomprensioni, diffidenze,
ostacoli, ma soprattutto ad individuare insieme e a porre in atto
insieme i passi per costruire la pace vera, puntando sulla profonda
aspirazione «comune a tutti gli uomini di buona volontà: il
consolidamento della pace nel mondo» (n. 89).
Le prospettive che occorre assumere «scaturiscono o
sono suggerite da esigenze insite nella stessa natura umana». Permettono
perciò ai credenti «un vasto campo di incontri e di intese», anche con
coloro che non sono «illuminati dalla fede in Gesù Cristo, nei quali
però è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante
l’onestà naturale» (n. 82).
Sono le prospettive che la Gaudium et spes
avrebbe assunto e ulteriormente sviluppato: «Mentre a poco a poco
l’umanità va unificandosi e in ogni luogo diventa ormai più consapevole
della propria unità, non potrà tuttavia portare a compimento l’opera che
l’attende, di costruire cioè un mondo più umano per tutti gli uomini e
su tutta la terra, se gli uomini non si volgeranno tutti con animo
rinnovato alla vera pace. Per questo motivo il messaggio evangelico, in
armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano,
risplende in questi nostri tempi di rinnovato fulgore quando proclama
beati i promotori della pace, “perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt
5,9)» (n. 77).
Nella Pacem in terris Giovanni XXIII
sottolinea con particolare forza la necessità di questo impegno solidale
per far fronte al «compito immenso» ma indilazionabile «di ricomporre i
rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore,
nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani;
fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse
comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità
politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (n. 87).
Malgrado le difficoltà, si tratta di un «compito
nobilissimo», che i credenti sono chiamati a vivere con fiducia, certi
che verrà condiviso da sempre più numerose persone di buona volontà: «É
un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’Amore. Ogni credente, in
questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di
amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto
più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio» (n. 88).
È una fiducia che non si illude, ma riprende
quotidianamente il cammino, senza stancarsi di discernere i passi
concreti per la pace attraverso l’affermazione, a tutti i livelli, della
giustizia. Il bene comune universale esige infatti il contributo di
ognuno e i credenti «devono vigilare su se stessi per non adagiarsi
soddisfatti in obiettivi già raggiunti. Anzi per tutti gli esseri umani
è quasi un dovere pensare che quello che è stato realizzato è sempre
poco rispetto a quello che resta ancora da compiere» (n. 81).
In questo camminare insieme con tutti gli uomini di
buona volontà, l’annuncio evangelico acquisterà ulteriore significato e
efficacia. Le parole con cui Giovanni XXIII sintetizza il suo stesso
compito devono far riflettere tutti, soprattutto ogni persona e ogni
comunità religiosa: «Come vicario - benché tanto umile ed indegno - di
colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (cf Is
9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il
rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se
non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con
fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo
giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella
libertà» (n. 89).
In un contesto
come il nostro in cui non manca chi si serve di Dio per dividere e
contrapporre, la testimonianza delle persone e delle comunità consacrate
dovrà essere caratterizzata da questa
convinta diaconia di pace, a
tutti i livelli, senza stancarsi mai. È in gioco il futuro del mondo,
secondo il disegno amoroso di Dio.
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