n. 1
gennaio 2003

 

Altri articoli disponibili

 

Pacem in terris
un impegno permanente

di Sabatino Majorano

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

La celebrazione della giornata mondiale per la pace assume quest’anno un significato particolare. Gli interrogativi e le sfide restano tuttora forti, anzi rischiano di accentuarsi. In un contesto sempre più globalizzato e interdipendente, le tensioni internazionali e le minacce del terrorismo si intrecciano con le contrapposizioni violente, troppo spesso ignorate dai media ma non per questo meno pericolose, all’interno delle nazioni. Soprattutto deve preoccupare l’attenzione tuttora insufficiente alla invocazione di una effettiva giustizia per tutti, con la conseguente trasformazione dei poveri in minaccia e perfino in nemici. La paura diventa allora “valore” che legittima ogni cosa, purché sia capace di difendere il benessere che abbiamo raggiunto. Così il divario tra chi ha e chi non ha, invece che diminuire, continua ad accentuarsi, ponendo le premesse per ulteriori tensioni e contrapposizioni.

L’urgenza di rinnovare insieme l’impegno per la pace, che deriva da questa complessa situazione, viene però quest’anno illuminata dalla memoria della Pacem in terris, l’enciclica profetica con la quale, quarant’anni fa, in un momento di tensioni ancora più minacciose, Giovanni XXIII ha tracciato «con fiduciosa speranza» gli elementi essenziali per una pace vera: un «ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità, e posto in atto nella libertà» (n. 89).

Ricordare il coraggio e la forza profetica della Pacem in terris non può essere una semplice commemorazione, ma deve sfociare in un ulteriore approfondimento delle sue indicazioni. Del resto queste sarebbero state ben presto assunte dal Concilio, soprattutto nella Gaudium et spes; e i testi conciliari, ricorda Giovanni Paolo II, «a mano a mano che passano gli anni… non perdono il loro valore né il loro smalto», anzi si pongono oggi come «sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre» (NMI 57).

Si tratta di indicazioni che ci toccano da vicino e sono capaci di ispirare la nostra vita a tutti i livelli. La costruzione della pace non può essere lasciata solo a coloro che hanno responsabilità di governo o vissuta solo in alcuni momenti privilegiati: è impegno permanente che deve impregnare la nostra vita quotidiana, determinando scelte e orientamenti.

  

Diritti e doveri

 Occorre innanzitutto ricordare l’orizzonte ampio e impegnativo in cui la Pacem in terris colloca la costruzione della pace. Essa mette in discussione stili di vita e strutture, chiedendo, a tutti i livelli, rinnovamento, inventività, conversione. Non può essere ridotta solo all’equilibrio della paura, sempre troppo fragile1. Va perseguita come frutto di giustizia, di verità, di carità, di libertà.

A fondamento di tutto l’enciclica pone la persona e la sua dignità: «una convivenza ordinata e feconda» è possibile solo assumendo come base «il principio che ogni essere umano è persona… e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili». È una dignità che, se viene considerata «alla luce della rivelazione divina», si svela subito «incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna» (n. 5).

I diritti della persona e di ogni persona, senza alcuna discriminazione, costituiscono il criterio e la misura che devono determinare le scelte, personali e sociali, se si vuole instaurare un vero ordine di pace tra tutti gli esseri umani. Giovanni XXIII li riassume in maniera rapida, partendo da quelli fondamentali «all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso», ai «valori morali e culturali» e ad «onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza», per arrivare a quelli «attinenti il mondo economico» e «a contenuto politico» (n. 6-13).

 Da soli però i diritti non possono garantire un effettivo cammino di pace. È necessario che vengano percepiti e vissuti anche come doveri. La Pacem in terris sottolinea in maniera forte tale reciprocità: i diritti «sono indissolubilmente congiunti, nella stessa persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri; e hanno entrambi nella legge naturale, che li conferisce o che li impone, la loro radice, il loro alimento, la loro forza indistruttibile» (n.14).

Inoltre ogni diritto in una persona «comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto. Infatti ogni diritto fondamentale della persona trae la sua forza morale insopprimibile dalla legge naturale che lo conferisce e impone un rispettivo dovere». Si tratta di una reciprocità che è impossibile scindere; fare diversamente significherebbe correre «il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra» (n. 15).

 Si tratta di affermazioni che conservano tutta la loro attualità. Credo anzi che oggi c’è bisogno di un impegno maggiore per riproporle e approfondirle. Avvertiamo tutti quanto si sia fatta forte la sfida di una cultura dei diritti che li riduce a sola rivendicazione. Occorre testimoniare con franchezza che essi conservano tutto il loro valore e diventano fonte e criterio di incontro e di pacifica convivenza solo quando vengono visti anche come imperativi etici che impegnano personalmente.

 Nasce allora la corresponsabilità solidale per la loro attuazione in favore di tutti. È l’altra sfida, altrettanto grave, della nostra cultura. Il rischio infatti di applicare anche ai diritti la logica del libero mercato, in cui valgono solo le ragioni dei più forti, si va accentuando nella nostra società.

Le parole di Giovanni XXIII invitano invece a un impegno solidale, partendo dalla natura sociale propria di ogni essere umano: «Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri. Ciò richiede che la convivenza umana sia ordinata e quindi che i vicendevoli diritti e doveri siano riconosciuti e attuati; ma richiede pure che ognuno porti generosamente il suo contributo alla creazione di ambienti umani in cui diritti e doveri siano sostanziati da contenuti sempre più ricchi» (n. 16)2.

 

Le comunità religiose sono chiamate a svolgere una particolare opera di annuncio, di testimonianza e di stimolo al riguardo. Se infatti resta ancora molto cammino da compiere perché in tutti i contesti si affermi la logica dei diritti3, più grande ancora è l’impegno richiesto per far riscoprire che essi dicono sempre anche dovere e condivisione. Non si tratta però solo di parole: occorrono la testimonianza trasparente del vissuto concreto delle nostre comunità e l’effettiva solidarietà con chi è impegnato a promuovere tale nuova cultura.

 

 Guardando al mondo intero

 Il radicamento nei fondamentali diritti della persona non rinchiude la proposta della Pacem in terris in prospettive individualistiche o di breve respiro, ma apre su orizzonti socio-politici ampi, a livello nazionale e del mondo intero.

Vanno costruiti innanzitutto rapporti corretti all’interno delle singole comunità politiche. Il criterio fondamentale è quello del bene comune inteso come «l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona». Va perciò progettato e attuato sempre in riferimento a «tutto l’uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle esigenze del suo spirito» (n. 35).

 La crisi del senso del bene comune resta forte nel nostro contesto. Sotto la spinta della cultura neocapitalista, diventa più difficile sentirne tutta l’importanza e la priorità nei riguardi dei beni dei singoli. Rischiamo anzi di non comprenderlo adeguatamente in quella sua specificità, che non lo fa ridurre alla sola somma dei beni dei singoli o identificare con gli interessi delle maggioranze.

 È una crisi dalla quale non sono immuni le stesse comunità religiose. Le conseguenze a livello di conflitti e di tensioni sono sotto gli occhi di tutti. Ma spesso ci limitiamo a disapprovare scelte e gesti, particolarmente duri, senza però preoccuparci di arrivare alle radici. Occorre impegnarsi per una vera cultura del bene comune: non basta riaffermarne il valore e il significato, è necessario farlo sperimentare come l’unica possibilità per costruire effettivamente gli stessi beni dei singoli.

 Contemporaneamente è necessario aprire gli orizzonti del bene comune sul mondo intero. Anche a questo riguardo le parole della Pacem in terris restano di forte attualità: «I recenti progressi delle scienze e delle tecniche incidono profondamente sugli esseri umani, sollecitandoli a collaborare tra loro e orientandoli verso una convivenza unitaria a raggio mondiale. Si è infatti intensamente accentuata la circolazione delle idee, degli uomini, delle cose».

Tutto questo va di pari passi con l’approfondimento della «interdipendenza tra le economie nazionali», fino a «diventare ciascuna quasi parte integrante di un’unica economia mondiale». Ne deriva che «il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza e la pace all’interno di ciascuna comunità politica è in rapporto vitale con il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, la pace di tutte le altre comunità politiche» (n. 68).

 Nei quarant’anni che ci separano dalla pubblicazione dell’enciclica, questo intreccio di interdipendenze e di scambi si è andato sempre più infittendo. Il volto del nostro mondo è divento quello del “villaggio globale”, in cui tutti conoscono tutti, e del “mercato globale” in cui tutti possono comprare e vendere a tutti e di tutto. Purtroppo però è un volto delineato in maniera troppo prevalente dal potere dei forti e dei ricchi. Le ingiustizie e le tensioni, invece che diminuire, rischiano così di accentuarsi, creando ulteriori interrogativi per la pace.

 È indispensabile una riprogettazione etica dei processi di interdipendenza che sappia fondere la libertà con la solidarietà, delineando un bene comune che sia veramente tale per il mondo intero, attraverso l’effettiva promozione dei diritti di tutti. Anche a questo riguardo la parola della Pacem in terris resta stimolante: «Come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana». Ne deriva che «i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona: con un’azione diretta, quando il caso lo comporti; o creando un ambiente a raggio mondiale in cui sia reso più facile ai Poteri pubblici delle singole comunità politiche svolgere le proprie specifiche funzioni» (n. 73).

 Si tratta di un rispetto e di una promozione da cominciare sempre partendo dai più deboli e indifesi. La comunità cristiana è tenuta a testimoniare questa scelta preferenziale con tutte le sue forze: su di essa «non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo». Pur non escludendo nessuno dal suo amore, essa sa che nella persona dei poveri c’è una presenza speciale del Cristo, che impone «un’opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali» (NMI 49).

 Le comunità religiose sono chiamate e riprogettare in questa prospettiva le loro presenze e il loro stile di vita. Potranno essere effettivamente fedeli alla loro vocazione solo se sapranno stare dalla parte dei deboli, facendosi voce delle loro attese e dei loro bisogni, attraverso un discernimento sempre rinnovato delle povertà e delle ingiustizie. Mi sembra che troppe volte lo diamo per scontato, ma poi finiamo per restare prigionieri delle logiche oggi dominanti, dimenticando che l’applauso, i numeri, il successo possono trasformarci in falsi profeti (cf Lc 6,22-26).

 

 Lo sguardo di speranza

 Tutto questo chiede di assumere sempre l’angolazione e lo sguardo della speranza. Le analisi e le denunce sono certamente indispensabili, ma non bastano. Occorre individuare i passi che è possibile e doveroso compiere per l’effettivo superamento delle ingiustizie e delle tensioni. A volte si ha l’impressione che ci si fermi alla denuncia; anzi che la si svalori in “spettacolo”, inserito e usato dal sistema per non modificarsi. È necessario imparare a lasciarsi guidare dalla logica della gradualità che sola può veramente costruire.

 Questo sguardo di speranza, che coglie le possibilità, invitando a concentrare su di esse l’impegno comune, è uno dei tratti che Pacem in terris non si stanca di sottolineare. Il richiamo ai segni dei tempi e al loro discernimento torna con insistenza in tutte le sue parti.

È sufficiente rileggere la maniera in cui siamo invitati a leggere la crescente coscienza dei diritti: «è diffusa assai largamente la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale. Per cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna giustificazione, almeno sul piano della ragione e della dottrina; ciò rappresenta una pietra miliare sulla via che conduce all’instaurazione di una convivenza umana» veramente pacifica. In coloro infatti in cui affiora la coscienza dei diritti «non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli».

Ci si apre allora «sul mondo dei valori spirituali», comprendendo «che cosa sia la verità, la giustizia, l’amore, la libertà» e diventando «consapevoli di appartenere a quel mondo» (n. 24-25).

 È lo sguardo del Cristo sulla nostra miseria, per aprirci alla salvezza. È lo sguardo che lo stesso Giovanni XXIII, nella solenne omelia inaugurale, non esita a mettere alla base di tutto il cammino del Vaticano II: la lettura cristiana della storia non può essere opera dei «profeti di sventura» che, essendo privi del discernimento evangelico e del prudente giudizio, «annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo», ma di chi riesce a cogliere che «nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa si volgono verso il compimento di disegni superiori ed inattesi»4.

 È lo sguardo che i nostri vescovi ci chiedono oggi di assumere per un cammino fedele al «compito primario» della chiesa: «testimoniare la gioia e la speranza originate dalla fede nel Signore Gesù Cristo, vivendo nella compagnia degli uomini, in piena solidarietà con loro, soprattutto con i più deboli»5. Sarà allora possibile discernere «l’oggi di Dio», trovando nella cultura e negli avvenimenti attuali innanzitutto «potenzialità» per l’annuncio del Vangelo, per poi affrontare alla loro luce anche gli immancabili «ostacoli»6.

  

Dialogo e annuncio

 La necessità del dialogo per la pace tra tutti gli uomini di buona volontà costituisce l’ulteriore elemento profetico della Pacem in terris. Nel contesto storico, in cui l’enciclica fu promulgata, esso venne sottolineato in maniera particolare, anche perché essa era esplicitamente indirizzata anche a «tutti gli uomini di buona volontà». È un dialogo teso a rimuovere incomprensioni, diffidenze, ostacoli, ma soprattutto ad individuare insieme e a porre in atto insieme i passi per costruire la pace vera, puntando sulla profonda aspirazione «comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo» (n. 89).

Le prospettive che occorre assumere «scaturiscono o sono suggerite da esigenze insite nella stessa natura umana». Permettono perciò ai credenti «un vasto campo di incontri e di intese», anche con coloro che non sono «illuminati dalla fede in Gesù Cristo, nei quali però è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante l’onestà naturale» (n. 82).

 Sono le prospettive che la Gaudium et spes avrebbe assunto e ulteriormente sviluppato: «Mentre a poco a poco l’umanità va unificandosi e in ogni luogo diventa ormai più consapevole della propria unità, non potrà tuttavia portare a compimento l’opera che l’attende, di costruire cioè un mondo più umano per tutti gli uomini e su tutta la terra, se gli uomini non si volgeranno tutti con animo rinnovato alla vera pace. Per questo motivo il messaggio evangelico, in armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano, risplende in questi nostri tempi di rinnovato fulgore quando proclama beati i promotori della pace, “perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9)» (n. 77).

 Nella Pacem in terris Giovanni XXIII sottolinea con particolare forza la necessità di questo impegno solidale per far fronte al «compito immenso» ma indilazionabile «di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (n. 87).

 Malgrado le difficoltà, si tratta di un «compito nobilissimo», che i credenti sono chiamati a vivere con fiducia, certi che verrà condiviso da sempre più numerose persone di buona volontà: «É un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’Amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio» (n. 88).

 È una fiducia che non si illude, ma riprende quotidianamente il cammino, senza stancarsi di discernere i passi concreti per la pace attraverso l’affermazione, a tutti i livelli, della giustizia. Il bene comune universale esige infatti il contributo di ognuno e i credenti «devono vigilare su se stessi per non adagiarsi soddisfatti in obiettivi già raggiunti. Anzi per tutti gli esseri umani è quasi un dovere pensare che quello che è stato realizzato è sempre poco rispetto a quello che resta ancora da compiere» (n. 81).

 In questo camminare insieme con tutti gli uomini di buona volontà, l’annuncio evangelico acquisterà ulteriore significato e efficacia. Le parole con cui Giovanni XXIII sintetizza il suo stesso compito devono far riflettere tutti, soprattutto ogni persona e ogni comunità religiosa: «Come vicario - benché tanto umile ed indegno - di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (cf Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà» (n. 89).

 In un contesto come il nostro in cui non manca chi si serve di Dio per dividere e contrapporre, la testimonianza delle persone e delle comunità consacrate dovrà essere caratterizzata da questa convinta diaconia di pace, a tutti i livelli, senza stancarsi mai. È in gioco il futuro del mondo, secondo il disegno amoroso di Dio.

Torna indietro