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La salute
fisica non è un assoluto
Prima di
continuare la nostra riflessione sull’invecchiamento, è opportuno
ricordare che quando noi facciamo della salute fisica un mito, mandiamo
messaggi negativi circa la malattia. Siamo coscienti che la salute è un
grande dono di Dio, da conservare e difendere per mantenere tutte le
energie a servizio dell’annuncio del Vangelo. Tuttavia dobbiamo tenere
presente che ci sono persone affette da malattie croniche e con forti
handicap che hanno imparato a convivere con il loro limite fisico. A
ragione possiamo dire che tali persone sono guarite, in quanto sono
riuscite a operare una integrazione positiva e a volte di alto valore
spirituale-apostolico alla loro situazione.
Ricordo sempre con commozione una confidenza avuta da una mia
consorella, costretta a lasciare l’impegno apostolico nel quale spendeva
con gioia ed entusiasmo le sue energie fisiche, la creatività e tutte le
doti umano-spirituali: “Nel primo periodo ho reagito, protestando con il
Signore, ma un giorno Lui mi ha fatto capire chiaramente che non aveva
affatto bisogno del mio correre, del mio ‘fare’. Lui voleva me. E io mi
sono arresa e sono nella pace”. Quando si impara a convivere con le
proprie limitazioni, allora siamo davvero in grado di aiutare le sorelle
che si trovano nelle medesime condizioni, perché sentendoci “guarite”
diventiamo più umili e capaci di aiuto, di compassione e di tenerezza
con chi sta peggio di noi.
A
questo punto vorremmo fare un breve accenno a qualche sentimento che può
affiorare maggiormente nell’età avanzata: la solitudine e la paura.
La solitudine
La
solitudine testimonia una dimensione essenziale e costitutiva del nostro
essere persone. Consente infatti di trovarci di fronte a noi stessi nel
nostro intimo mistero. La solitudine però è una realtà ambivalente,
portatrice di un lato luminoso e di un lato d’ombra. Ha in sé la
tragicità dell’isolamento imposto e si rivela al medesimo tempo come
luogo intimo in cui la persona si raccoglie con la sua coscienza per
fare le scelte e decisioni che danno orientamento e forma alla sua vita
umana e cristiana.
Un
mezzo umano perché la solitudine trovi senso è quello di occupare il
proprio tempo donandolo a favore degli altri. Così i giorni, i mesi e
gli anni scorreranno percepiti come una benedizione. Se la persona manca
di qualche occupazione, il tempo diventerà pesante e incominceranno a
sorgere interrogativi seri e pericolosi: “Servo ancora a qualcosa? A
qualcuno?”. Ogni piccolo servizio è una boccata di ossigeno che rigenera
il dono della vita ricevuta per essere ridonata.
Legato alla solitudine può sorgere il fenomeno della depressione. Non si
nasce depressi, ma la depressione è di solito reazione ad eventi o a
emozioni. A volte la cura migliore è proprio quella di prendersi cura di
chi sta peggio di noi.
Restare in contatto con le sorelle più
giovani
Il
divario tra il modo di vivere delle generazioni più giovani, piene di
vitalità, educate secondo la legge del mercato, poco propense a un
rallentamento, si confronta col ritmo rallentato di chi vive l’età
anziana caratterizzato da lentezza di gesti e di espressione, del
pensiero, del ragionamento, della memoria. Mentre per i più giovani è
l’avvenire che rende mobili e dinamici, la persona anziana vive tra il
presente e il passato. Un abisso sembra separare questi due mondi,
relegando i più giovani nella vita attiva della produttività, del
successo, e gli anziani nel privato. Poter restare in contatto con le
generazioni più giovani, è un dono che aiuta a superare i confini
imposti dalla salute non più fiorente, per continuare ad essere attive
nel mondo dei desideri e degli ideali che le giovani propongono.
È
importante mantenersi allenate, aperte ad ascoltare e ad accogliere
quanto le generazioni più giovani prospettano. Potrebbe accadere che,
quasi per “esorcizzare” l’isolamento, si lasci via libera a quella
naturale tendenza dell’età anziana che rievoca i bei tempi passati,
quelli in cui si aveva un ruolo, si era impegnate nelle prime file
dell’apostolato, pioniere coraggiose, animatrici feconde. I ricordi
fanno rivivere la moltitudine di persone amate e non amate, conosciute o
appena intraviste, ma incrociate sulla strada della vita. Il tuffo in
quegli anni andati rende reale il passato e permette di analizzare il
periodo trascorso, di rileggere come “storia di salvezza” il tempo
vissuto con i suoi momenti migliori e i suoi fallimenti, i suoi fatti
marginali e le sue svolte decisive.
Succede spesso che la persona anziana ripeta molte volte la stessa cosa,
ma questa ripetizione le permette di riprendere possesso della propria
vita, di ricollegare tra loro gli avvenimenti, di ruminare positivamente
la propria esistenza per stabilirne così l’unità profonda. Questa
dinamica, però, non è da tutti compresa. Spesso, i più giovani non hanno
la pazienza di sedersi a parlare con le persone anziane, ad ascoltarle,
a dare loro la soddisfazione di sentirsi per un momento protagoniste.
L’altra parte della medaglia è che le persone anziane possono avere la
pretesa di essere le uniche depositarie di una tradizione, frutto di
un’esperienza ormai segnata dal tempo. Questa mentalità può portare a
trincerarsi ognuno nel proprio mondo così da compromettere
definitivamente il dialogo.
Il dialogo, antidoto alla solitudine
Le
sorelle anziane e le più giovani avrebbero bisogno di maggiori
possibilità per grandi doni reciproci: più coraggio nell’ascoltarsi, più
verità nel confrontarsi. Ma come? Non potrebbe esserci, da una parte,
maggior capacità nel saper donare ciò che è già stato costruito ed è
ormai collaudato dal tempo, più volontà nel “passare la fiaccola”? E
dall’altra parte, non potrebbe esserci maggior rispetto per tutto ciò
che le ha precedute e disponibilità nel saper “condividere” ciò che
tentano di costruire a piccoli passi, pur nell’esiguità delle forze e
del numero, verso orizzonti migliori, come la storia e la nostra
vocazione specifica richiedono, mettendo da parte il desiderio di
“protagonismo” proprio delle generazioni più giovani? Se il dialogo tra
le generazioni viene a cessare, la solitudine delle persone anziane
potrebbe diventare “terra d’esilio” sia nella società come nelle
comunità religiose.
Se la
solitudine prende spazio dentro le persone anziane, arriva ad acutizzare
certi timori e a renderli pervasivi. Si tratta di sentimenti che fanno
sentire escluse, non tenute in conto, poco valutate. Queste convinzioni
creano attorno uno sterile vuoto, facilitano la chiusura in se stesse e
paralizzano la volontà e il desiderio di incontrare altre persone, a
volte perfino la famiglia e le sorelle della comunità. Si rischia di
trovarsi sole fuori e sole dentro. Il senso di solitudine può affondare
le sue radici nelle esperienze di perdita di persone o in situazioni di
smacco di fronte alla propria vita. Si può verificare allora ciò che gli
psicologi chiamano “regressione”: le persone, per compensare questi
vuoti, ricercano le sensazioni più gratificanti provate in altri periodi
della vita, in modo particolare nell’infanzia. E possono sorgere
comportamenti infantili, polifagia (senso smisurato della fame),
anoressia, abbandono dei bisogni primari (denutrizione) che
contribuiscono ad accrescere l’isolamento e fanno imboccare strade senza
ritorno e solitudini incolmabili.
La solitudine: tesoro di umanità
L’isolamento non scelto, non desiderato, non voluto pesa e disorienta.
Ma anche le persone anziane sono molto esperte nell’aprire la porta
della solidarietà, dell’amicizia e della tenerezza. Così i giovani sono
i primi a riconoscere alla persona anziana la sua dignità e ricchezza
personale. E la solitudine dell’anziana, la sua stessa vita, possono
diventare un vero cammino di compimento. “La capacità di vivere la
solitudine come un centro interiore da cui il soggetto prende forza e
determinazione, come un trampolino che permetta uno slancio di tutto
l’essere, è una ricchezza per l’individuo come per la società”1, scrive
Jean-François Six.
La
persona anziana che ha accettato la sua solitudine, può trasformarla in
tesoro d’umanità: ella è sola certamente, ma poiché l’età avanzata è il
coronamento delle tappe precedenti della sua vita, quando nella
solitudine osa guardarsi dentro con chiarezza per un momento di verifica
e di revisione della propria vita, può comporre tutto in un’armonia
interiore che raccoglie ciò che ha compiuto e iniziato, ciò che ha
sofferto e sopportato. E tutto ciò diventa saggezza da donare a piene
mani, perché permette alla persona di elevarsi al di sopra delle cose
senza sminuirle e di osservare la realtà, anche passata, con gli occhi e
il cuore di Dio. Per questo la persona anziana possiede spesso molta
abilità nell’iniziare le generazioni più giovani alla storia della
famiglia, della fede, della comunità e della nazione, sapendo cogliere
la vera sostanza della realtà. Sia che avanzi sotto il sole della
speranza e della serenità, oppure sotto le nubi della fatica, della
solitudine e del dolore, sarà pronta a essere testimone “della speranza
che è in lei” (cf 1Pt 3,15).
La paura
Il
futuro dell’età avanzata, contraendosi, può prendere il nome di paura.
Progressivamente ogni imprevisto, ogni novità suscita paura e angoscia.
Il dubbio, penetrando il quotidiano, può sgretolare convinzioni e
progetti che ci avevano animate per anni, e sotto la spinta della paura
insorgono mille interrogativi. “Cosa mi riserverà il domani? Malattia,
impotenza a gestire la mia persona, degenza prolungata in un ospedale?”.
Quando subentra una malattia, si fa strada la preoccupazione di non
poter più vivere in modo autonomo. Si teme di rappresentare un problema
e un peso per la comunità.
A
questa serie di timori anche le sorelle anziane possono reagire con
atteggiamenti contrastanti. C’è chi nega il bisogno di cure,
minimizzando i disturbi per ostentare la sua autonomia; c’è chi diventa
estremamente ansiosa di avere tutte le cure, preoccupata di ogni disagio
connesso alla malattia. Qualche studioso ha affermato che la malattia
per alcune persone anziane può essere una fonte di “vantaggi”2.
Lamentare una sintomatologia dolorosa può essere un tentativo,
socialmente accettabile, di attirare un po’ di attenzione e di interesse
per la propria persona. A volte la persona che versa in questa
difficoltà non trova un aiuto positivo per uscirne neppure dall’ambiente
circostante: familiari, parenti, amici, assistenti sanitari, consorelle.
La difficoltà cresce quando la persona trova difficoltà a intessere
relazioni interpersonali significative.
Non
sempre però le cose procedono in questo senso. Ci sono persone che, dopo
qualche difficoltà iniziale, trovano un proprio equilibrio e un
soddisfacente adattamento anche alla situazione di ospedalizzazione
prolungata. Molto dipende dal miglioramento dello stato di salute e
anche dal tipo di rapporti che sono riuscite a stabilire con il
personale sanitario.
La persona anziana può
disporre di un potenziale naturale di reazione alla paura,
all’impotenza, all’umiliazione, alla perdita di stima di sé, questo
potenziale è l’“aggressività”. È una reazione umana istintiva che si
accentua col venire meno delle forze, della padronanza ed energia.
Infatti è naturale che sotto l’effetto del timore, le reazioni diventino
primarie e istintive. È terapeutico imparare, fin da quando si è in
salute e si è più giovani, a esprimere in modo giusto la propria
aggressività e a non reprimerla. Se la salute lo permette, è molto
terapeutico per esprimere in modo corretto la propria aggressività, fare
una passeggiata, cantare, scrivere un poema o un brano di diario,
ascoltare un brano di musica, guardare la natura. Ognuna deve elaborare
la modalità che risponde alle proprie necessità e possibilità in modo da
scaricare in modo positivo l’energia suscitata dall’aggressività, senza
reprimerla.
L’anzianità: un assaggio
per gustare la “vita”
L’età
avanzata attraverso il susseguirsi del ritiro dal lavoro e dal ruolo,
dei limiti di salute, degli spostamenti di comunità, accompagna ogni
persona verso la realtà della morte. Sono passi da valorizzare perché
rappresentano una iniziazione all’entrata nella vita. La morte è
presente fin dal giorno in cui si nasce, quindi fa parte dell’essere
creature. Il fatto che si conosce la morte come una realtà naturale non
libera dal timore che incute in ogni persona. Anche Gesù ha provato
paura e angoscia di fronte alla morte. Ma Lui l’ha vinta e la morte non
ha più l’ultima parola sulla vita umana. Ecco perché la si può
affrontarecon serenità e pace.
Il ruolo della Speranza
Il
malessere che si prova davanti a un malato terminale deriva dal fatto
che la morte costringe a prendere coscienza della propria condizione di
mortalità. A volte gli stessi anziani pensano che, essere vecchi,
significhi essere giunti alla morte. Questa è l’illusione che la
pubblicità induce a creare senza neppure rispettare un realistico senso
del ciclo di ogni vivente. Tale mentalità mette al bando la realtà della
vecchiaia e della malattia; non solo non favorisce il crescere di
sentimenti umani nei confronti delle persone gravemente ammalate e in
fase terminale, ma sopprime la lucidità di prepararsi al grande momento
della morte, ossia a vivere questo ultimo istante della vita in tutta la
sua dignità.
Ogni
religiosa, e più ancora la suora di una certa età, è chiamata a rendere
il pensiero del passaggio alla vita come “di casa”. Allora la morte non
sorprende come fosse una nemica, ma la si incontra come il momento che
segna il passaggio alla vita in Dio. In una società che bandisce il
pensiero e qualunque cosa faccia allusione alla morte, la religiosa è
chiamata a essere “profezia” attraverso uno stile di vita e di pensiero
informato dalla Speranza cristiana che, mentre stima e valorizza il
sommo bene che è la vita umana, tiene lo sguardo fisso alla Vita senza
fine.
Ogni
malato ha un suo modo di reagire di fronte alla morte: dal rifiuto alla
collera, al patteggiamento, alla depressione (una specie di lutto
anticipato della propria vita), fino all’adattamento e all’accettazione.
Ciò che generalmente permane attraverso queste fasi, e nei vari momenti
della malattia, è la Speranza. E tuttavia, al di là della loro
originalità, gli esseri umani sono profondamente simili. Per questo è
possibile descrivere questo “cammino” del malato che si avvicina alla
morte, pur con le varianti che derivano dal suo carattere, dalla sua
storia e dalle sue aspirazioni, dalla sua vita di fede.
Il bisogno di difendersi
Per
la prima volta, nella vecchiaia, si ha la netta sensazione che la morte
non è più così lontana: essa fa parte dell’immediato futuro. C’è chi ha
paura della malattia e della morte, e chi invece si lamenta di essere
vissuto anche troppo a lungo e di essere pronto a morire.
Succede anche che molti anziani parlino della morte come se la
desiderassero e l’attendessero. Queste espressioni - scrive Jean Vimort
- devono essere prese sul serio ma non alla lettera. Il desiderio di
morire può esprimere un’accettazione della realtà. Allora la persona
anziana sente la morte come un evento naturale e normale: si fa strada
in queste persone un cammino di riconciliazione. A volte invece, il
desiderio di morire convive con un forte desiderio di vivere. Spesso le
parole che lo esprimono sono un invito al dialogo piuttosto che una vera
convinzione. Ma può accadere che chi sta accanto alle persone anziane
non coglie l’invito perché si trova su altre “lunghezze d’onda emotive”,
e sfugge loro l’opportunità di aiutarle. Se si entra delicatamente nella
loro situazione, camminando insieme, condividendo la vita anche in
questo ultimo segmento, si farà l’esperienza del mistero che avvolge la
nostra vita e della preziosità di questo momento.
Nelle
nostre comunità vengono offerti molti aiuti per prepararsi al momento
della morte. Si è attente perché l’aiuto spirituale sia abbondante, si
viva un clima in cui chi è ammalata o anziana si senta accompagnata con
affetto dalle sorelle con cui ha condiviso le fatiche apostoliche,
sostenuta nella fede, incoraggiata nella fiducia e nel totale abbandono
al Padre buono che la ama.
Atteggiamenti da
coltivare
Per
concludere indichiamo alcuni atteggiamenti che, attivati e coltivati,
aiutano a proseguire con serenità nella vita e a invecchiare bene. Lo
psicologo americano Robert Peck3 li aveva proposti fin dal lontano 1956
ed enucleati come segue: importanza di ricercare una duttilità emotiva,
promuovere una duttilità mentale per giungere alla saggezza,
all’attenzione, alla compassione verso gli altri.
Secondo l’autore, il primo atteggiamento da acquisire è la capacità di
mantenere la duttilità emotiva, cioè la flessibilità dal punto di vista
delle emozioni, in modo da poter accettare i distacchi che si rendono
necessari nel corso dell’età media e della terza età, senza venire ogni
volta condizionati dagli avvenimenti. Perciò bisogna imparare a saper
prendere la distanza da legami vincolanti dal lato affettivo, per
cercare di stabilire nuovi legami più sciolti, meno esigenti.
Con
ciò non ci viene chiesto di cancellare dal cuore gli affetti, ma di
alleggerirli nella loro carica emotiva eccessiva, vincolante. Nello
stesso tempo si sottolinea la necessità di vivere più pacificamente e
con maggior serenità gli impegni della propria vita. Questi
atteggiamenti sono un corredo che si acquista lungo il corso della vita
e se, giunte all’anzianità, non si è abbastanza allenate a questa
duttilità, si corre il rischio di diventare molto fragili, a livello
emotivo, ogni volta che viene meno un oggetto del proprio amore: un
parente, una persona cara, una consorella, il lavoro, ecc.; oppure si
rimane disorientate ogni volta che accade qualcosa di diverso che
richiede un nuovo adattamento alla situazione.
La
religiosa anziana che ha acquisito gradualmente questa duttilità
emotiva, è in grado di sviluppare nuovi legami, nuove modalità di
interessarsi agli altri e al loro bene, senza assumersi impegni troppo
rigidi, ma adeguati, costruttivi e vari. Questa è la fase in cui la
donna in genere e la religiosa, potrebbe sviluppare una “seconda
generatività” o una “seconda maternità”. Infatti da anziani si diventa
un “genitore che invecchia” per figli ormai adulti, e un nonno/a per le
sorelle più giovani, un’amica fidata e, se si è allenate all’ascolto,
una compagna di conversazione per le sorelle di ogni età.
Un
altro sentimento molto nobile che in questa fase della vita si può
mettere in atto è la compassione specialmente per le persone e per le
sorelle della stessa età con le quali si condividono gli stessi
problemi, difficoltà e speranze. L’esperienza di gioie, fatiche, dolori
e consolazioni rende capaci di consolare chi è afflitto, proprio come
confida Paolo di se stesso: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro
Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale
ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi
consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la
consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2Cor 1,3-4).
È
anche il tempo in cui si può diventare la consigliera o la guida
spirituale che accompagna con la parola, la preghiera e l’offerta altre
sorelle nel loro cammino di crescita vocazionale.
Il
secondo atteggiamento che la religiosa anziana dovrebbe proporsi di
acquisire è la duttilità mentale, cioè un nuovo modo di valorizzare le
proprie conoscenze e l’esperienza accumulata nel corso della vita
mantenendo, nello stesso tempo, nei confronti di esse un certo distacco.
La flessibilità mentale dovrebbe portare ad accettare il diverso, a
lasciar cadere le idee e le sensibilità personali, a non assolutizzare
le proprie opinioni, i sogni e le speranze, le paure e le ansie,
liberandosi da un modo di pensare prefabbricato che, alla fine,
impedisce di accettare e ascoltare gli altri.
La
religiosa anziana, per vivere con serenità la propria età, dovrebbe
cercare di non attaccarsi alle proprie idee e alla propria visione delle
cose. E’ opportuno ricordare che ogni persona e, soprattutto chi è più
giovane, ama fare la propria esperienza prima di cercare o affidarsi a
quella altrui; che le idee mutano nel tempo e che, nella vita, il vero e
il falso, il bello e il brutto, il bene e il male non si trovano
distinti in modo così chiaro da escludere interpretazioni e sfumature
diverse. L’esperienza può aiutare a cogliere il nucleo centrale delle
situazioni e dei problemi, a guardare i fatti dai vari versanti e a fare
una buona integrazione dei vari elementi. Questo esercizio contribuirà
ad essere meno impressionabili di fronte agli avvenimenti e porterà ad
acquistare la sapienza propria di chi ha imparato dalla vita e ora sa
metterla a servizio degli altri.
Mentre si invecchia, grazie ai sentimenti di compassione e
all’atteggiamento del prendersi cura degli altri, il proprio mondo
interiore si allarga rendendosi compagne anche di persone anziane più
sfortunate, non più autosufficienti, assumendo quel genere di servizi
ancora consentiti dalle proprie energie.
Coltivando la mente in modo che non si atrofizzi, il fisico perché possa
dare il proprio contributo fino a che è possibile, il cuore aperto alla
comprensione, alla compassione, alla bellezza, mantenendosi in un sano
contatto con tutto ciò che circonda e scoprire sempre qualcosa di nuovo,
di diverso, di interessante a cui appassionarsi.
Questo atteggiamento di apertura al nuovo che si rivela ogni giorno,
mantiene l’animo fresco, libero, capace di accogliere e di godere di
tutto il bene e del bello. Nell’età avanzata forse non si potranno fare
più lunghe passeggiate, ma si può fermarsi a contemplare la bellezza e
la perfezione di un semplice fiore di campo. Non avendo più tanta fretta
si può leggere con calma le pagine del Vangelo e scoprire elementi e
particolari mai notati. Si potrebbe programmare un tempo più lungo per
la formazione umano-spirituale-apostolica mai conclusa e che nei tempi
passati forse si è rilevato essere sempre scarsa.
1.
J.F. Six, Avenir de la solitudine, in Études,
maggio 1991, p. 651.
2. Cf Kwentus J.A., Il dolore
nell’anziano, in Geriatrics 1, 1986, pp. 32-33.
3. Cf Kenel M.E.,
Birthing the Elderly Self, in Human development, 16, 3, 11-15, 1995.
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