n. 4
aprile 2003

 

Altri articoli disponibili

L’educazione del sentimento
Un nuovo itinerario per valorizzare la verginità
La paura
di Anna Bissi

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Nel variegato mondo dei sentimenti ne è presente uno che, in modo del tutto speciale, dovrebbe essere riconosciuto ed educato, in quanto ostacola il nostro cammino di maturazione umana e spirituale. Molti si stupiranno nel leggere che si tratta della paura e non dell’aggressività, quell’emozione intensa, fredda o focosa, che ci rende ostili nei confronti degli altri, così contraria al bene della persona, tanto da ritrovarla elencata tra i vizi capitali sotto il nome di ira.

Perché la paura è più pericolosa della rabbia, più dannosa al bene dell’uomo, non solo psicologico ma anche spirituale? Quali segni abbiamo, capaci di evidenziare la sua negatività per la vita personale e per il cammino di consacrate?

La Parola di Dio potrebbe venirci in aiuto, per dimostrare quanto sia importante il superamento della paura; l’invito a non temere è, infatti, disseminato dovunque nella Bibbia: qualcuno afferma che possiamo trovarlo ben 365 volte, una per ogni giorno dell’anno. Pur non avendo mai verificato la veridicità di tale affermazione, sono propensa a pensare che l’invito di Dio a non nutrire paura ci debba raggiungere quotidianamente, se vogliamo crescere nella dimensione filiale, nell’intimità con Dio. San Giovanni ci ricorda, infatti, che la paura non può essere presente nell’esperienza cristiana per eccellenza: quella del rapporto con un Dio che è Amore (cf 1Gv 4,18). L’Amore, infatti, esclude il timore, con cui è incompatibile.

La paura nasce dalla percezione di una realtà esterna ostile al nostro Io e invita a proteggersi, a difendersi piuttosto che ad aprirsi, esporsi, abbandonarsi. Lo stesso peccato originale sembra a essa collegato: dietro all’orgoglio di chi vuole farsi come Dio, non è forse presente il timore, il sospetto, l’ansia riguardo a se stessi, alla possibile inferiorità, al rischio di essere privati di qualcosa d’importante, posseduto da Dio e non condiviso? Un figlio sicuro dell’amore del padre non sente il desiderio di disobbedirgli, di carpire ciò che non è suo, di dare credito a chi non conosce piuttosto che fidarsi della voce familiare; egli, invece, sentendosi l’oggetto dell’affetto paterno è certo che niente di ciò che rappresenta il suo bene gli sarà negato e riposa sicuro sulla certezza di un legame che nulla, nemmeno la tentazione, può mettere in gioco.

Nell’esperienza psicologica di ognuno di noi la paura è il primo sentimento gravoso che abbiamo imparato a gestire. Lo abbiamo fatto attraverso il pianto, per mezzo del quale ogni bambino esprime, inizialmente, gli stati di malessere che si alternano alla quiete tipica dei primi mesi di vita e, in seguito, manifesta i timori legati alle minacce del mondo esterno e alla percezione della propria vulnerabilità.

La paura è, quindi, collegata a queste due esperienze fondamentali della vita di una persona: il rapporto con se stessi e quello con gli altri. Essa rivela i timori, vissuti da ogni individuo, riguardo al proprio Io che si sente minacciato interiormente a causa della vulnerabilità, del suo essere fragile, mortale, incapace di darsi e di trattenere la vita, dagli ostacoli e dalla mancanza d’amore che possono provenire dall’esterno. Di conseguenza, essa esercita una forte influenza sul vissuto personale e sulla vita spirituale, condiziona il modo di vivere la relazione con gli altri e con Dio, di guardare a se stessi e a coloro che ci stanno accanto, in particolare le sorelle della comunità e le persone con cui collaboriamo nel servizio apostolico.

 

 La paura come spinta a trattenere la vita

 Tra gli atteggiamenti difensivi suscitati in noi dalla paura, uno dei più drammatici - in quanto ha conseguenze letali per il raggiungimento della felicità personale in ogni ambito dell’esistenza - è ciò che definirei come spinta a trattenere la vita. Un personaggio del mosaico creato da p. M.I. Rupnik, per la cappella Redemptoris Mater, riesce a esprimere, ancor meglio delle parole, tale stile di porsi e agire. Si tratta del personaggio che rappresenta il peccatore: unico tra i soggetti raffigurati a non volgersi per guardare Cristo, a cui è seduto accanto a tavola; egli afferra saldamente le borse del denaro, tenendo lo sguardo quasi allucinato, sgomento di terrore, fisso davanti a sé.

In questa figura tutti possiamo ritrovare noi stessi, una dimensione profonda della nostra persona, quella che si spaventa di fronte alla propria vulnerabilità e cerca di procurarsi la vita da sola, di trovare la salvezza nelle cose che, all’apparenza, possono essere rassicuranti: il denaro, come per il personaggio a cui abbiamo fatto allusione, il potere, il fascino da esercitare sugli altri. Ognuno di noi è costantemente confrontato con la propria debolezza: quella che ci accompagna ogni giorno e ci fa prendere coscienza dei nostri limiti fisici, intellettuali, della necessità di aiuto e confronto con gli altri, della vulnerabilità e della morte che attende tutti, nessuno escluso.

Come i nostri progenitori, anche noi dobbiamo renderci conto della nostra mancata onnipotenza, che si esprime nel quotidiano, ma che talvolta si fa sentire in modo doloroso e drammatico quando siamo confrontati con le esperienze tragiche della vita: la malattia, la morte, il fallimento e tutto ciò che manifesta, in modo inequivocabile, l’incapacità di ottenere ciò che vogliamo e, ancor più profondamente, di essere padroni della nostra vita. E’ questa una situazione di minaccia, di angoscia a cui ogni essere umano, in modo più o meno consapevole, tende a dare una risposta. Spesso si tratta di una soluzione illusoria, come ci testimoniano tutti i tentativi così frequenti nel mondo contemporaneo, in cui si attribuisce alla scienza il potere di dare la vita all’uomo.

 

Le fragili e ingannevoli risposte, che riguardano tutta l’umanità, si riflettono anche nell’esperienza personale di ognuno: tutti dobbiamo confrontarci con il timore di perdere la vita, qualsiasi sia il modo in cui esso si manifesta. Benché le parole di Gesù ci ricordino che solo in questo modo possiamo salvare noi stessi (cf Mt 10,39), tutti siamo tentati di afferrare e trattenere ciò che ci è dato; per questo motivo la lotta contro tale tendenza profonda della nostra persona è ardua e ci obbliga a un continuo esercizio di spoliazione e abbandono.

La paura di perdersi, del vuoto, della mancanza, dell’umiliazione sono come in agguato e si ripresentano, nei modi più diversi, favorendo in noi una risposta difensiva e autoprotettiva, fonte di un’illusoria e momentanea rassicurazione, ma incapace di offrirci una reale sicurezza.

 

Saper individuare e discernere

 La crescita spirituale implica, di conseguenza, un costante esercizio per individuare i sentimenti di paura e i pensieri che li accompagnano, per riconoscere le forme e le apparenze di bene sotto cui possiamo nascondere la nostra resistenza a perdere la vita. Anche la persona consacrata, infatti, si scontra spesso con questi timori e deve imparare a essere sincera con se stessa, per non mascherarli e farli apparire come pericoli reali, da combattere perché dannosi o contrari al bene della persona, dell’istituzione o della Chiesa. Ognuno di noi, spesso in piena buona fede, può trovare numerose motivazioni per giustificare i propri comportamenti e non rendersi conto che i veri motivi dell’agire si collocano a un altro livello rispetto a quello dichiarato, rispondono a un desiderio radicato nelle profondità della nostra persona, che tuttavia ci allontana da Dio: il desiderio di essere fautori della nostra salvezza, perché abbiamo paura di perdere la vita.

 Si spiega così, per esempio, uno stile forse eccessivamente rilassato che talvolta si incontra anche nelle comunità religiose: uno stile che non si può definire lussuoso, senza grandi sprechi, ma in cui non manca nulla, dove l’ascesi non viene praticata, la ricerca del benessere è percepita come un diritto e i beni a propria disposizione sono vissuti più come una proprietà personale che come una ricchezza da condividere e far circolare.

In altre occasioni la paura orienta verso una vita piatta, una vita piccolo borghese, dove manca lo slancio, la passione per il Regno, la ricerca di Dio, quella stessa ricerca che, forse, era stata all’origine della scelta vocazionale. Spesso si tratta di una vita spenta, che lascia l’amaro in bocca, crea delusione e offre, come antidoto all’insoddisfazione, una serata davanti al televisore; lì ci si illude di dimenticare le frustrazioni della vita e di continuare a fuggire dallo sconforto, ma anche dalla paura di fronte alla possibilità di operare scelte più coraggiose, radicali, di fedeltà ai valori fondanti la propria consacrazione. Talvolta, invece, il timore ci conduce alla ricerca di piccoli piaceri quotidiani, quali un’affannosa appropriazione di consenso, di successo o di cibo, percepito non solo come godimento ma anche come simbolo di vita, di pienezza e sazietà.

 E’ ancora la paura che spesso spinge a scelte comunitarie autoprotettive, guidate anch’esse dal timore di perdere la vita. In questi casi si nota spesso una poca chiarezza, se non addirittura una confusione, fra valori diversi: il carisma, l’istituzione, il bene delle persone. Si ha allora l’impressione che, più che cercare un equilibrio fra le diverse dimensioni, si tende a favorirne una rispetto alle altre.

La vita dell’Istituto, talvolta anche il suo mantenersi in vita, viene preferito al bene dei singoli membri e le scelte apostoliche rischiano di essere a esso subordinate. In questo modo si dimentica che là dove un bene viene preferito fino al punto da non prendere nemmeno in considerazione altre possibilità, spesso non si ha a che fare con la ricerca del vero bene, ma di una scelta rassicurante, se non di comodo, camuffata sotto forma di valore.

Rinunciare a decisioni coraggiose, ammassare denaro per provvedere al futuro, non mettere i propri doni al servizio della Chiesa o chiedere alle sorelle di vivere in comunità asfittiche, solo perché non si ha il coraggio di ridimensionare le attività apostoliche, sono spesso scelte nate da timore che, come tutti i tentativi di non perdere la vita, prima o poi si riveleranno controproducenti.

 La paura induce non solo a possedere, ma anche a mantenere il potere, a vivere l’autorità non in quanto servizio, ma come autoaffermazione. Anch’essa, come il possesso, è fonte di una falsa sicurezza. Il nostro Io fragile, bisognoso di supporti e di conferme, trova nel ruolo una dimostrazione del proprio valore, dell’importanza agli occhi degli altri. La paura rischia così di innescare in noi un atteggiamento di continua ricerca di simboli di potere, capaci di rassicurarci e in cui trovare una silenziosa conferma della nostra bravura. Siamo allora tentati di vivere il servizio che svolgiamo come un nostro “possesso”, in cui gli altri non possono interferire, su cui non è loro permesso esprimere opinioni, proporre cambiamenti. Tutto diventa rigidamente organizzato, intoccabile, non trasformabile: la liturgia, gli orari, perfino le semplici abitudini sono trattate come Tradizioni, con l’iniziale maiuscola! Avviene spesso, per esempio, che una superiora di nuova nomina, quando vuole proporre il benché minimo cambiamento, si senta ribadire dalle sorelle con fare sicuro: “si è sempre fatto così”; frase in cui è invitata a cogliere non solo la descrizione di uno stile passato, ma anche l’inderogabile necessità di mantenerlo per il futuro.

 La paura sclerotizza, rende tutto piatto, sempre uguale, non è aperta alla novità di Dio, chiude le porte al soffio dello Spirito. Essa non orienta verso la relazione, l’apertura all’altro, ma cerca il ruolo, l’immagine, il potere, nell’illusione di riuscire così a proteggersi dalla superiorità che teme di cogliere nell’altro o dai cambiamenti introdotti dalla vita.

 

La paura, infine, oltre a indurre a possedere dei beni, delle sicurezze e a cercare un ruolo per crearsi un’immagine ed esercitare potere nei confronti degli altri, orienta anche all’uso delle persone, a un atteggiamento ben lontano da quello del servizio, a cui ogni consacrato deve orientarsi. Essa non solo invita a usare armature autoprotettive per difendersi, ma invoglia anche a individuare strategie, a manipolare, a creare alleanze per raggiungere i propri scopi, nell’illusione di conseguire una pace che, con questi mezzi, non si riuscirà mai a trovare. Ecco allora la necessità di trattenere accanto a sé le persone che ci danno sicurezza, su cui possiamo appoggiarci in modi eccessivi, vincolanti; qui ciò che guida non è un rapporto di sana amicizia, ma un legame di uso, spesso anche reciproco, perché l’altro può offrire sicurezza, sostegno, riempire le nostre solitudini, i vuoti che ci spaventano, i silenzi che non riusciamo ad accogliere come possibilità di incontrare il Signore.

 Abbiamo in precedenza presentato la paura come l’emozione più pericolosa, ancor più dell’aggressività. Essa è alla base di ogni atteggiamento ostile, che proprio qui trova le motivazioni del suo essere e dell’agire. E’ infatti difficile pensare alla presenza di ostilità in un mondo in cui le persone non hanno timore le une delle altre, vivono rapporti di solidarietà, rispetto, fraternità, amore reciproco. E’ solo quando si prova paura dell’altro che nasce il nemico e la diffidenza si trasforma presto in avversione, odio, vendetta.

  

Positività della fiducia

 La bontà disarmante di Gesù nei confronti di tutti, anche delle persone che gli erano ostili, ci rivela la sua interiorità di figlio prediletto del Padre, il suo rapporto, intessuto di fiducia e di abbandono, con Colui da cui si sentiva protetto, sostenuto, difeso, amato. Lo stesso, anche se in misura diversa, si può affermare a proposito dei santi: la dolcezza, la capacità di perdonare le offese, la percezione degli altri tutta impregnata di misericordia, non è principalmente frutto di uno sforzo ascetico, ma naturale conseguenza di un mondo interiore abitato dalla certezza di poter riposare nelle mani del Padre, di sapersi da Lui custoditi e preservati dal pericolo, di trovare rifugio «all’ombra delle sue ali» (cf Sl 17,8).

 Quando alla paura si sostituisce la fiducia e la pace di Dio abita nel cuore della persona, anche lo sguardo è trasfigurato; esso diventa così capace di vedere la realtà in trasparenza, al di là di ciò che è più ovvio ed evidente. La persona è in grado di penetrare il mistero che abita il cuore di ogni uomo, sa intuire il timore presente al di là dell’ostilità, coglie nel nemico il fratello, nell’avversario il figlio di Dio.

Non sempre avviene così nelle nostre comunità, dove rischiamo di giudicare le sorelle con troppa facilità, di etichettarle in base al carattere, alle reazioni, di interpretare il loro temperamento secondo criteri stereotipati; dimentichiamo di domandarci se certe rigidezze o manifestazioni ostili nei nostri confronti non nascano da timore, più che da cattiveria o da altri sentimenti malevoli, che facilmente attribuiamo agli altri senza porci nessuna domanda sull’opportunità e correttezza delle nostre valutazioni. La nostra vita comunitaria, così spesso tormentata dalla presenza di tensioni e conflitti, trarrebbe, senza dubbio, giovamento da una conoscenza più approfondita dei sentimenti che le sorelle con cui viviamo suscitano in noi.

 Spesso il nostro impegno nei confronti della vita comune è volontaristico, severo oppure corriamo il pericolo di scadere nel pettegolezzo, nelle piccinerie, nelle sottili ostilità che rischiano di avvelenare l’esistenza, di rendere l’altro insopportabile, di aspirare a continui cambiamenti per la difficoltà di convivenza. Se imparassimo a chiederci onestamente quali sono le nostre paure nei confronti degli altri e anche quali timori possiamo suscitare in loro, forse potremmo orientare in modo più preciso il nostro impegno ad amare il prossimo verso mete più opportune e, soprattutto, più concrete. Talvolta l’ostilità degli altri, soprattutto di chi ci vive accanto, ci spaventa talmente da indurci a ergere delle barriere difensive per risultare inattaccabili: ci accorgiamo che una sorella non lascia scappare un’occasione per mettere in evidenza il nostro limite e allora reagiamo, più o meno consapevolmente, assumendo un atteggiamento di ostentata sicurezza.

Non ci rendiamo conto che i suoi attacchi dipendono dal timore che ella nutre nei nostri confronti, dalla paura, per esempio, di una nostra superiorità intellettuale. Se diventassimo consapevoli della sua insicurezza in questo campo e di come essa incide nei suoi rapporti interpersonali, invece di assumere un atteggiamento che rischia di rafforzare le sue paure, saremmo attente ad avvicinarci a lei con semplicità; in questo modo riusciremmo forse a sventare i suoi attacchi aggressivi, non offrendole più alcun motivo per reagire contro di noi.

 L’invidia, che spesso trova spazio nelle nostre comunità, è anch’essa frutto di paura: le doti della sorella, le sue capacità, l’età inferiore rispetto alla nostra, il fascino, l’intelligenza, la maggiore cultura, talvolta anche solo l’origine sociale sono percepiti come una minaccia, come un attentato alla nostra stima. Viviamo le capacità e potenzialità delle persone che ci stanno accanto come un pericolo per l’immagine di noi stesse, quasi che il ritrovare delle doti negli altri fosse un segno del fatto che noi ne siamo prive. Sperimentiamo allora una profonda paura del confronto, della superiorità altrui, a cui rispondiamo o proteggendoci, evitando di esporci, di fare brutta figura o percependo coloro che consideriamo ricchi di talenti e di qualità come dei potenziali nemici. Al timore, di conseguenza, si accompagna l’aggressività, che si esprime nelle forme più diverse: dalla svalutazione alla lotta, dal rifiuto e presa di distanza al disinteresse.

 Talvolta soffriamo di fronte all’insofferenza sperimentata nei confronti di una sorella o la troviamo “antipatica” senza sapere il motivo di tanta avversione. Spesso, scorgendo in noi tali sentimenti, ci sentiamo “cattive” e sperimentiamo un profondo senso di colpa, da cui ci liberiamo nei momenti in cui il fastidio o l’insofferenza verso la sorella si fa più forte. Raramente siamo aiutate ad andare al di là del sentimento, a vedere che, forse, per quanto riguarda le sue radici profonde, non si tratta principalmente di aggressività, ma di timore. E’ l’attaccamento al nostro Io, soprattutto la paura di riconoscere l’imperfezione, la mancanza, la fragilità ciò che mette in moto i sentimenti ostili e l’avversione nei confronti di coloro con cui, di vero cuore, vorremmo costruire rapporti fraterni.

  

Siamo tutti figli e figlie di Dio

 Queste constatazioni ad alcuni potranno sembrare pessimistiche o ciniche, quasi che la vita consacrata fosse ridotta solo a un’affannosa fuga dalla paura, un tentativo di autoproteggersi. Non dobbiamo, però, dimenticare che normalmente tali atteggiamenti si accompagnano a una ricerca sincera e generosa di Dio, della Sua Volontà. La paura e i comportamenti difensivi da essa provocati non escludono la capacità di abbandono, la dimenticanza di sé, la dedizione a Dio e al prossimo. Le nostre motivazioni, infatti, raramente sono pure e in esse possiamo ritrovare l’aspirazione verso i valori più elevati accompagnata da fini egocentrici e difensivi.

Questa mescolanza di altruismo e ripiegamento su di sé, di tensione verso il bene e ricerca di autoprotezione ostacola la nostra crescita umana e spirituale, talvolta l’arresta o la intiepidisce. Per tale motivo è utile un’educazione alla conoscenza di sé, un’attenzione profonda ai moti dell’interiorità, capace di discernere gli stati d’animo, i pensieri che li accompagnano, le giustificazioni che la mente produce per mascherare, prima di tutto ai nostri occhi, le vere ragioni dell’agire, le motivazioni profonde presenti alla base di molti comportamenti.

La presa di coscienza di questa dimensione della nostra persona, tanto desiderata dai santi che ambivano a conoscere se stessi e a conoscere Dio, non è semplicemente funzionale al raggiungimento dell’equilibrio interiore e del benessere psicologico. Diventare consapevoli delle proprie paure e cercare di smascherare le tecniche, semplici o raffinate, attraverso cui tentiamo di nasconderle non è un compito puramente psicologico, ma un’occasione per aprire il cuore a Dio e lasciarlo operare dentro di noi, è permettere allo Spirito santo di renderci sempre più figli nel Figlio. La paura, infatti, è il sentimento che ci allontana da Dio, non ci permette di accogliere il suo amore, fa di noi degli schiavi, come ricorda san Paolo (cf Gal 4,7), e ci impedisce di vivere nella rassicurante certezza di essere da Lui protetti e amati.

Il superamento della paura, di conseguenza, prima ancora di costituire un cammino di apertura e generosità nei confronti degli altri, può essere pensato come un itinerario di filialità. Si tratta di ritornare bambini (cf Mt 18,3), di rinascere dall’alto (Gv 3,3) per imparare a essere veramente figli. Vengono in mente le parole iniziali del salmo 131, dove l’immagine del riposo tranquillo evoca con finezza poetica l’idea del superamento di ogni timore legata all’esperienza della figliolanza. Così è anche del rapporto con Dio, dove l’atteggiamento di fondo del credente non può esprimersi che come abbandono fiducioso, sicurezza, confidenza.

La lotta contro la paura, che tocca le radici più profonde del cuore dell’uomo poiché rimanda al timore primordiale presente in ognuno di noi, quello della morte, ci apre quindi una via di pace e serenità. Essa, infatti, oltre ad aiutarci a trasformare il rapporto con noi stessi e con gli altri, diminuendo il bisogno di autoprotezione e le tendenze aggressive, ci permette di apprezzare in modo nuovo la nostra fede, di cogliere la grandezza del dono che ci è offerto: quello di essere e di riconoscerci figli e figlie di Dio. Siamo così aiutati a comprendere, soprattutto esperienzialmente, quale grande grazia è la fede: una fede non costituita da norme da praticare o regole da rispettare, ma vissuta come relazione personale, come rapporto filiale, nel continuo tentativo di superare ogni preoccupazione, poiché il Padre nostro sa ciò di cui abbiamo bisogno (cf Mt 6,8), di vincere ogni timore, in quanto incompatibile con il vero amore.

 La lotta contro la paura si trasforma così in un’occasione di testimonianza e di servizio nei confronti dei fratelli, all’interno di una società dove la fiducia e la speranza sono considerate atteggiamenti ingenui, se non da sprovveduti. Il secolo appena trascorso e quello da poco iniziato si caratterizzano, infatti, per il prevalere di stati d’animo quali la sfiducia e il sospetto, accompagnati dall’estenuante ricerca di sempre nuovi mezzi di pacificazione interiore. Tutti hanno paura e tutti ricorrono ai metodi più diversi per tentare di superarla: la psicologia, l’astrologia, le droghe, la magia e le più strane forme di religiosità sono tra gli strumenti a cui più di frequente fanno ricorso i nostri contemporanei, assetati di armonia e serenità. Potremmo chiederci se essi non si attendano da noi proprio la risposta che consiste in una vita pacificata, abitata dalla certezza del sentirsi amati, dalla fiducia in un significato personale del proprio destino, dal sentirsi accompagnati e sorretti dall’amore di un Padre. Serafino di Sarov soleva evidenziare che la custodia della pace interiore ha il potere di salvare una moltitudine di persone.

 La custodia della pace come lotta alla paura, alla tenebra del peccato, al dubbio, al sospetto sull’amore, è il cammino di trasformazione interiore che ogni consacrata/o dovrebbe intraprendere, sapendo che non si tratta di un percorso puramente psicologico, intimistico; esso costituisce, invece, un combattimento che va alle radici più profonde della nostra persona e ci trasforma da individui spaventati, tentati di usare ogni mezzo per proteggerci e difendere noi stessi, in figlie/i di Dio, consapevoli di essere custoditi dal suo amore di Padre.

Torna indietro