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Nel
variegato mondo dei sentimenti ne è presente uno che, in modo del tutto
speciale, dovrebbe essere riconosciuto ed educato, in quanto ostacola il
nostro cammino di maturazione umana e spirituale. Molti si stupiranno
nel leggere che si tratta della paura e non dell’aggressività,
quell’emozione intensa, fredda o focosa, che ci rende ostili nei
confronti degli altri, così contraria al bene della persona, tanto da
ritrovarla elencata tra i vizi capitali sotto il nome di ira.
Perché
la paura è più pericolosa della rabbia, più dannosa al bene
dell’uomo, non solo psicologico ma anche spirituale? Quali segni
abbiamo, capaci di evidenziare la sua negatività per la vita personale e
per il cammino di consacrate?
La
Parola di Dio potrebbe venirci in aiuto, per dimostrare quanto sia
importante il superamento della paura; l’invito a non temere è, infatti,
disseminato dovunque nella Bibbia: qualcuno afferma che possiamo
trovarlo ben 365 volte, una per ogni giorno dell’anno. Pur non avendo
mai verificato la veridicità di tale affermazione, sono propensa a
pensare che l’invito di Dio a non nutrire paura ci debba raggiungere
quotidianamente, se vogliamo crescere nella dimensione filiale,
nell’intimità con Dio. San Giovanni ci ricorda, infatti, che la paura
non può essere presente nell’esperienza cristiana per eccellenza: quella
del rapporto con un Dio che è Amore (cf 1Gv 4,18). L’Amore, infatti,
esclude il timore, con cui è incompatibile.
La paura
nasce dalla percezione di una realtà esterna ostile al nostro Io e
invita a proteggersi, a difendersi piuttosto che ad aprirsi, esporsi,
abbandonarsi. Lo stesso peccato originale sembra a essa collegato:
dietro all’orgoglio di chi vuole farsi come Dio, non è forse presente il
timore, il sospetto, l’ansia riguardo a se stessi, alla possibile
inferiorità, al rischio di essere privati di qualcosa d’importante,
posseduto da Dio e non condiviso? Un figlio sicuro dell’amore del padre
non sente il desiderio di disobbedirgli, di carpire ciò che non è suo,
di dare credito a chi non conosce piuttosto che fidarsi della voce
familiare; egli, invece, sentendosi l’oggetto dell’affetto paterno è
certo che niente di ciò che rappresenta il suo bene gli sarà negato e
riposa sicuro sulla certezza di un legame che nulla, nemmeno la
tentazione, può mettere in gioco.
Nell’esperienza psicologica di ognuno di noi la paura è il primo
sentimento gravoso che abbiamo imparato a gestire. Lo abbiamo fatto
attraverso il pianto, per mezzo del quale ogni bambino esprime,
inizialmente, gli stati di malessere che si alternano alla quiete tipica
dei primi mesi di vita e, in seguito, manifesta i timori legati alle
minacce del mondo esterno e alla percezione della propria vulnerabilità.
La paura
è, quindi, collegata a queste due esperienze fondamentali della vita di
una persona: il rapporto con se stessi e quello con gli altri. Essa
rivela i timori, vissuti da ogni individuo, riguardo al proprio Io che
si sente minacciato interiormente a causa della vulnerabilità, del suo
essere fragile, mortale, incapace di darsi e di trattenere la vita,
dagli ostacoli e dalla mancanza d’amore che possono provenire
dall’esterno. Di conseguenza, essa esercita una forte influenza sul
vissuto personale e sulla vita spirituale, condiziona il modo di vivere
la relazione con gli altri e con Dio, di guardare a se stessi e a coloro
che ci stanno accanto, in particolare le sorelle della comunità e le
persone con cui collaboriamo nel servizio apostolico.
La paura come spinta a trattenere la vita
Tra gli
atteggiamenti difensivi suscitati in noi dalla paura, uno dei più
drammatici - in quanto ha conseguenze letali per il raggiungimento della
felicità personale in ogni ambito dell’esistenza - è ciò che definirei
come spinta a trattenere la vita. Un personaggio del mosaico
creato da p. M.I. Rupnik, per la cappella Redemptoris Mater,
riesce a esprimere, ancor meglio delle parole, tale stile di porsi e
agire. Si tratta del personaggio che rappresenta il peccatore: unico tra
i soggetti raffigurati a non volgersi per guardare Cristo, a cui è
seduto accanto a tavola; egli afferra saldamente le borse del denaro,
tenendo lo sguardo quasi allucinato, sgomento di terrore, fisso davanti
a sé.
In
questa figura tutti possiamo ritrovare noi stessi, una dimensione
profonda della nostra persona, quella che si spaventa di fronte alla
propria vulnerabilità e cerca di procurarsi la vita da sola, di trovare
la salvezza nelle cose che, all’apparenza, possono essere rassicuranti:
il denaro, come per il personaggio a cui abbiamo fatto allusione, il
potere, il fascino da esercitare sugli altri. Ognuno di noi è
costantemente confrontato con la propria debolezza: quella che ci
accompagna ogni giorno e ci fa prendere coscienza dei nostri limiti
fisici, intellettuali, della necessità di aiuto e confronto con gli
altri, della vulnerabilità e della morte che attende tutti, nessuno
escluso.
Come i
nostri progenitori, anche noi dobbiamo renderci conto della nostra
mancata onnipotenza, che si esprime nel quotidiano, ma che talvolta si
fa sentire in modo doloroso e drammatico quando siamo confrontati con le
esperienze tragiche della vita: la malattia, la morte, il fallimento e
tutto ciò che manifesta, in modo inequivocabile, l’incapacità di
ottenere ciò che vogliamo e, ancor più profondamente, di essere padroni
della nostra vita. E’ questa una situazione di minaccia, di angoscia a
cui ogni essere umano, in modo più o meno consapevole, tende a dare una
risposta. Spesso si tratta di una soluzione illusoria, come ci
testimoniano tutti i tentativi così frequenti nel mondo contemporaneo,
in cui si attribuisce alla scienza il potere di dare la vita all’uomo.
Le
fragili e ingannevoli risposte, che riguardano tutta l’umanità, si
riflettono anche nell’esperienza personale di ognuno: tutti dobbiamo
confrontarci con il timore di perdere la vita, qualsiasi sia il
modo in cui esso si manifesta. Benché le parole di Gesù ci ricordino che
solo in questo modo possiamo salvare noi stessi (cf Mt 10,39), tutti
siamo tentati di afferrare e trattenere ciò che ci è dato; per questo
motivo la lotta contro tale tendenza profonda della nostra persona è
ardua e ci obbliga a un continuo esercizio di spoliazione e abbandono.
La paura
di perdersi, del vuoto, della mancanza, dell’umiliazione sono come in
agguato e si ripresentano, nei modi più diversi, favorendo in noi una
risposta difensiva e autoprotettiva, fonte di un’illusoria e momentanea
rassicurazione, ma incapace di offrirci una reale sicurezza.
Saper individuare e discernere
La
crescita spirituale implica, di conseguenza, un costante esercizio per
individuare i sentimenti di paura e i pensieri che li accompagnano, per
riconoscere le forme e le apparenze di bene sotto cui possiamo
nascondere la nostra resistenza a perdere la vita. Anche la persona
consacrata, infatti, si scontra spesso con questi timori e deve imparare
a essere sincera con se stessa, per non mascherarli e farli apparire
come pericoli reali, da combattere perché dannosi o contrari al bene
della persona, dell’istituzione o della Chiesa. Ognuno di noi, spesso in
piena buona fede, può trovare numerose motivazioni per giustificare i
propri comportamenti e non rendersi conto che i veri motivi dell’agire
si collocano a un altro livello rispetto a quello dichiarato, rispondono
a un desiderio radicato nelle profondità della nostra persona, che
tuttavia ci allontana da Dio: il desiderio di essere fautori della
nostra salvezza, perché abbiamo paura di perdere la vita.
Si
spiega così, per esempio, uno stile forse eccessivamente rilassato che
talvolta si incontra anche nelle comunità religiose: uno stile che non
si può definire lussuoso, senza grandi sprechi, ma in cui non manca
nulla, dove l’ascesi non viene praticata, la ricerca del benessere è
percepita come un diritto e i beni a propria disposizione sono vissuti
più come una proprietà personale che come una ricchezza da condividere e
far circolare.
In altre
occasioni la paura orienta verso una vita piatta, una vita piccolo
borghese, dove manca lo slancio, la passione per il Regno, la ricerca di
Dio, quella stessa ricerca che, forse, era stata all’origine della
scelta vocazionale. Spesso si tratta di una vita spenta, che lascia
l’amaro in bocca, crea delusione e offre, come antidoto
all’insoddisfazione, una serata davanti al televisore; lì ci si illude
di dimenticare le frustrazioni della vita e di continuare a fuggire
dallo sconforto, ma anche dalla paura di fronte alla possibilità di
operare scelte più coraggiose, radicali, di fedeltà ai valori fondanti
la propria consacrazione. Talvolta, invece, il timore ci conduce alla
ricerca di piccoli piaceri quotidiani, quali un’affannosa appropriazione
di consenso, di successo o di cibo, percepito non solo come godimento ma
anche come simbolo di vita, di pienezza e sazietà.
E’
ancora la paura che spesso spinge a scelte comunitarie autoprotettive,
guidate anch’esse dal timore di perdere la vita. In questi casi si nota
spesso una poca chiarezza, se non addirittura una confusione, fra valori
diversi: il carisma, l’istituzione, il bene delle persone. Si ha allora
l’impressione che, più che cercare un equilibrio fra le diverse
dimensioni, si tende a favorirne una rispetto alle altre.
La vita
dell’Istituto, talvolta anche il suo mantenersi in vita, viene preferito
al bene dei singoli membri e le scelte apostoliche rischiano di essere a
esso subordinate. In questo modo si dimentica che là dove un bene viene
preferito fino al punto da non prendere nemmeno in considerazione altre
possibilità, spesso non si ha a che fare con la ricerca del vero
bene, ma di una scelta rassicurante, se non di comodo, camuffata
sotto forma di valore.
Rinunciare a decisioni coraggiose, ammassare denaro per provvedere al
futuro, non mettere i propri doni al servizio della Chiesa o chiedere
alle sorelle di vivere in comunità asfittiche, solo perché non si ha il
coraggio di ridimensionare le attività apostoliche, sono spesso scelte
nate da timore che, come tutti i tentativi di non perdere la vita, prima
o poi si riveleranno controproducenti.
La
paura induce non solo a possedere, ma anche a mantenere il potere, a
vivere l’autorità non in quanto servizio, ma come autoaffermazione.
Anch’essa, come il possesso, è fonte di una falsa sicurezza. Il nostro
Io fragile, bisognoso di supporti e di conferme, trova nel ruolo
una dimostrazione del proprio valore, dell’importanza agli occhi degli
altri. La paura rischia così di innescare in noi un atteggiamento di
continua ricerca di simboli di potere, capaci di rassicurarci e in cui
trovare una silenziosa conferma della nostra bravura. Siamo allora
tentati di vivere il servizio che svolgiamo come un nostro “possesso”,
in cui gli altri non possono interferire, su cui non è loro permesso
esprimere opinioni, proporre cambiamenti. Tutto diventa rigidamente
organizzato, intoccabile, non trasformabile: la liturgia, gli orari,
perfino le semplici abitudini sono trattate come Tradizioni, con
l’iniziale maiuscola! Avviene spesso, per esempio, che una superiora di
nuova nomina, quando vuole proporre il benché minimo cambiamento, si
senta ribadire dalle sorelle con fare sicuro: “si è sempre fatto così”;
frase in cui è invitata a cogliere non solo la descrizione di uno stile
passato, ma anche l’inderogabile necessità di mantenerlo per il futuro.
La
paura sclerotizza, rende tutto piatto, sempre uguale, non è aperta alla
novità di Dio, chiude le porte al soffio dello Spirito. Essa non orienta
verso la relazione, l’apertura all’altro, ma cerca il ruolo, l’immagine,
il potere, nell’illusione di riuscire così a proteggersi dalla
superiorità che teme di cogliere nell’altro o dai cambiamenti introdotti
dalla vita.
La
paura, infine, oltre a indurre a possedere dei beni, delle sicurezze e a
cercare un ruolo per crearsi un’immagine ed esercitare potere nei
confronti degli altri, orienta anche all’uso delle persone, a un
atteggiamento ben lontano da quello del servizio, a cui ogni consacrato
deve orientarsi. Essa non solo invita a usare armature autoprotettive
per difendersi, ma invoglia anche a individuare strategie, a manipolare,
a creare alleanze per raggiungere i propri scopi, nell’illusione di
conseguire una pace che, con questi mezzi, non si riuscirà mai a
trovare. Ecco allora la necessità di trattenere accanto a sé le persone
che ci danno sicurezza, su cui possiamo appoggiarci in modi eccessivi,
vincolanti; qui ciò che guida non è un rapporto di sana amicizia, ma un
legame di uso, spesso anche reciproco, perché l’altro può offrire
sicurezza, sostegno, riempire le nostre solitudini, i vuoti che ci
spaventano, i silenzi che non riusciamo ad accogliere come possibilità
di incontrare il Signore.
Abbiamo
in precedenza presentato la paura come l’emozione più pericolosa, ancor
più dell’aggressività. Essa è alla base di ogni atteggiamento ostile,
che proprio qui trova le motivazioni del suo essere e dell’agire. E’
infatti difficile pensare alla presenza di ostilità in un mondo in cui
le persone non hanno timore le une delle altre, vivono rapporti di
solidarietà, rispetto, fraternità, amore reciproco. E’ solo quando si
prova paura dell’altro che nasce il nemico e la diffidenza si trasforma
presto in avversione, odio, vendetta.
Positività della fiducia
La
bontà disarmante di Gesù nei confronti di tutti, anche delle persone che
gli erano ostili, ci rivela la sua interiorità di figlio
prediletto del Padre, il suo rapporto, intessuto di fiducia e di
abbandono, con Colui da cui si sentiva protetto, sostenuto, difeso,
amato. Lo stesso, anche se in misura diversa, si può affermare a
proposito dei santi: la dolcezza, la capacità di perdonare le offese, la
percezione degli altri tutta impregnata di misericordia, non è
principalmente frutto di uno sforzo ascetico, ma naturale conseguenza di
un mondo interiore abitato dalla certezza di poter riposare nelle mani
del Padre, di sapersi da Lui custoditi e preservati dal pericolo, di
trovare rifugio «all’ombra delle sue ali» (cf Sl 17,8).
Quando
alla paura si sostituisce la fiducia e la pace di Dio abita nel cuore
della persona, anche lo sguardo è trasfigurato; esso diventa così capace
di vedere la realtà in trasparenza, al di là di ciò che è più ovvio ed
evidente. La persona è in grado di penetrare il mistero che abita il
cuore di ogni uomo, sa intuire il timore presente al di là
dell’ostilità, coglie nel nemico il fratello, nell’avversario il figlio
di Dio.
Non
sempre avviene così nelle nostre comunità, dove rischiamo di giudicare
le sorelle con troppa facilità, di etichettarle in base al carattere,
alle reazioni, di interpretare il loro temperamento secondo criteri
stereotipati; dimentichiamo di domandarci se certe rigidezze o
manifestazioni ostili nei nostri confronti non nascano da timore, più
che da cattiveria o da altri sentimenti malevoli, che facilmente
attribuiamo agli altri senza porci nessuna domanda sull’opportunità e
correttezza delle nostre valutazioni. La nostra vita comunitaria, così
spesso tormentata dalla presenza di tensioni e conflitti, trarrebbe,
senza dubbio, giovamento da una conoscenza più approfondita dei
sentimenti che le sorelle con cui viviamo suscitano in noi.
Spesso
il nostro impegno nei confronti della vita comune è volontaristico,
severo oppure corriamo il pericolo di scadere nel pettegolezzo, nelle
piccinerie, nelle sottili ostilità che rischiano di avvelenare
l’esistenza, di rendere l’altro insopportabile, di aspirare a continui
cambiamenti per la difficoltà di convivenza. Se imparassimo a chiederci
onestamente quali sono le nostre paure nei confronti degli altri e anche
quali timori possiamo suscitare in loro, forse potremmo orientare in
modo più preciso il nostro impegno ad amare il prossimo verso mete più
opportune e, soprattutto, più concrete. Talvolta l’ostilità degli altri,
soprattutto di chi ci vive accanto, ci spaventa talmente da indurci a
ergere delle barriere difensive per risultare inattaccabili: ci
accorgiamo che una sorella non lascia scappare un’occasione per mettere
in evidenza il nostro limite e allora reagiamo, più o meno
consapevolmente, assumendo un atteggiamento di ostentata sicurezza.
Non ci
rendiamo conto che i suoi attacchi dipendono dal timore che ella nutre
nei nostri confronti, dalla paura, per esempio, di una nostra
superiorità intellettuale. Se diventassimo consapevoli della sua
insicurezza in questo campo e di come essa incide nei suoi rapporti
interpersonali, invece di assumere un atteggiamento che rischia di
rafforzare le sue paure, saremmo attente ad avvicinarci a lei con
semplicità; in questo modo riusciremmo forse a sventare i suoi attacchi
aggressivi, non offrendole più alcun motivo per reagire contro di noi.
L’invidia, che spesso trova spazio nelle nostre comunità, è anch’essa
frutto di paura: le doti della sorella, le sue capacità, l’età inferiore
rispetto alla nostra, il fascino, l’intelligenza, la maggiore cultura,
talvolta anche solo l’origine sociale sono percepiti come una minaccia,
come un attentato alla nostra stima. Viviamo le capacità e potenzialità
delle persone che ci stanno accanto come un pericolo per l’immagine di
noi stesse, quasi che il ritrovare delle doti negli altri fosse un segno
del fatto che noi ne siamo prive. Sperimentiamo allora una profonda
paura del confronto, della superiorità altrui, a cui rispondiamo o
proteggendoci, evitando di esporci, di fare brutta figura o percependo
coloro che consideriamo ricchi di talenti e di qualità come dei
potenziali nemici. Al timore, di conseguenza, si accompagna
l’aggressività, che si esprime nelle forme più diverse: dalla
svalutazione alla lotta, dal rifiuto e presa di distanza al
disinteresse.
Talvolta soffriamo di fronte all’insofferenza sperimentata nei
confronti di una sorella o la troviamo “antipatica” senza sapere il
motivo di tanta avversione. Spesso, scorgendo in noi tali sentimenti, ci
sentiamo “cattive” e sperimentiamo un profondo senso di colpa, da cui ci
liberiamo nei momenti in cui il fastidio o l’insofferenza verso la
sorella si fa più forte. Raramente siamo aiutate ad andare al
di là del sentimento, a vedere che, forse, per quanto riguarda le
sue radici profonde, non si tratta principalmente di aggressività, ma di
timore. E’ l’attaccamento al nostro Io, soprattutto la paura di
riconoscere l’imperfezione, la mancanza, la fragilità ciò che mette in
moto i sentimenti ostili e l’avversione nei confronti di coloro con cui,
di vero cuore, vorremmo costruire rapporti fraterni.
Siamo tutti figli e figlie di Dio
Queste
constatazioni ad alcuni potranno sembrare pessimistiche o ciniche, quasi
che la vita consacrata fosse ridotta solo a un’affannosa fuga dalla
paura, un tentativo di autoproteggersi. Non dobbiamo, però, dimenticare
che normalmente tali atteggiamenti si accompagnano a una ricerca sincera
e generosa di Dio, della Sua Volontà. La paura e i comportamenti
difensivi da essa provocati non escludono la capacità di abbandono, la
dimenticanza di sé, la dedizione a Dio e al prossimo. Le nostre
motivazioni, infatti, raramente sono pure e in esse possiamo ritrovare
l’aspirazione verso i valori più elevati accompagnata da fini
egocentrici e difensivi.
Questa
mescolanza di altruismo e ripiegamento su di sé, di tensione verso il
bene e ricerca di autoprotezione ostacola la nostra crescita umana e
spirituale, talvolta l’arresta o la intiepidisce. Per tale motivo è
utile un’educazione alla conoscenza di sé, un’attenzione profonda ai
moti dell’interiorità, capace di discernere gli stati d’animo, i
pensieri che li accompagnano, le giustificazioni che la mente produce
per mascherare, prima di tutto ai nostri occhi, le vere ragioni
dell’agire, le motivazioni profonde presenti alla base di molti
comportamenti.
La presa
di coscienza di questa dimensione della nostra persona, tanto desiderata
dai santi che ambivano a conoscere se stessi e a conoscere Dio, non è
semplicemente funzionale al raggiungimento dell’equilibrio interiore e
del benessere psicologico. Diventare consapevoli delle proprie paure e
cercare di smascherare le tecniche, semplici o raffinate, attraverso cui
tentiamo di nasconderle non è un compito puramente psicologico, ma
un’occasione per aprire il cuore a Dio e lasciarlo operare dentro di
noi, è permettere allo Spirito santo di renderci sempre più figli nel
Figlio. La paura, infatti, è il sentimento che ci allontana da Dio, non
ci permette di accogliere il suo amore, fa di noi degli schiavi, come
ricorda san Paolo (cf Gal 4,7), e ci impedisce di vivere nella
rassicurante certezza di essere da Lui protetti e amati.
Il
superamento della paura, di conseguenza, prima ancora di costituire un
cammino di apertura e generosità nei confronti degli altri, può essere
pensato come un itinerario di filialità. Si tratta di
ritornare bambini (cf Mt 18,3), di rinascere dall’alto (Gv
3,3) per imparare a essere veramente figli. Vengono in mente le parole
iniziali del salmo 131, dove l’immagine del riposo tranquillo evoca con
finezza poetica l’idea del superamento di ogni timore legata
all’esperienza della figliolanza. Così è anche del rapporto con Dio,
dove l’atteggiamento di fondo del credente non può esprimersi che come
abbandono fiducioso, sicurezza, confidenza.
La lotta
contro la paura, che tocca le radici più profonde del cuore dell’uomo
poiché rimanda al timore primordiale presente in ognuno di noi, quello
della morte, ci apre quindi una via di pace e serenità. Essa, infatti,
oltre ad aiutarci a trasformare il rapporto con noi stessi e con gli
altri, diminuendo il bisogno di autoprotezione e le tendenze aggressive,
ci permette di apprezzare in modo nuovo la nostra fede, di cogliere la
grandezza del dono che ci è offerto: quello di essere e di riconoscerci
figli e figlie di Dio. Siamo così aiutati a comprendere,
soprattutto esperienzialmente, quale grande grazia è la fede: una fede
non costituita da norme da praticare o regole da rispettare, ma vissuta
come relazione personale, come rapporto filiale, nel continuo tentativo
di superare ogni preoccupazione, poiché il Padre nostro sa ciò di cui
abbiamo bisogno (cf Mt 6,8), di vincere ogni timore, in quanto
incompatibile con il vero amore.
La
lotta contro la paura si trasforma così in un’occasione di testimonianza
e di servizio nei confronti dei fratelli, all’interno di una società
dove la fiducia e la speranza sono considerate atteggiamenti ingenui, se
non da sprovveduti. Il secolo appena trascorso e quello da poco iniziato
si caratterizzano, infatti, per il prevalere di stati d’animo quali la
sfiducia e il sospetto, accompagnati dall’estenuante ricerca di sempre
nuovi mezzi di pacificazione interiore. Tutti hanno paura e tutti
ricorrono ai metodi più diversi per tentare di superarla: la psicologia,
l’astrologia, le droghe, la magia e le più strane forme di religiosità
sono tra gli strumenti a cui più di frequente fanno ricorso i nostri
contemporanei, assetati di armonia e serenità. Potremmo chiederci se
essi non si attendano da noi proprio la risposta che consiste in una
vita pacificata, abitata dalla certezza del sentirsi amati, dalla
fiducia in un significato personale del proprio destino, dal sentirsi
accompagnati e sorretti dall’amore di un Padre. Serafino di Sarov soleva
evidenziare che la custodia della pace interiore ha il potere di salvare
una moltitudine di persone.
La
custodia della pace come lotta alla paura, alla tenebra del peccato, al
dubbio, al sospetto sull’amore, è il cammino di trasformazione interiore
che ogni consacrata/o dovrebbe intraprendere, sapendo che non si tratta
di un percorso puramente psicologico, intimistico; esso costituisce,
invece, un combattimento che va alle radici più profonde della nostra
persona e ci trasforma da individui spaventati, tentati di usare ogni
mezzo per proteggerci e difendere noi stessi, in figlie/i di Dio,
consapevoli di essere custoditi dal suo amore di Padre.
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